Rocamole Garufi, “Il trionfo della morte”, racconto

Il trionfo della morte

di Rocambole Garufi

I

Apparentemente, da parte del barone di * (in quei giorni impegnato a Palermo) non ci fu un’immediata reazione all’ingiuria subita con l’uccisione del giovane don Filippo Ximenes, il figlio del capitano delle guardie. Ma, dieci giorni dopo arrivò un suo ordine riservato a don Pietro Ragusa, che era l’amministratore del feudo – o, come si diceva allora, il segreto -.

Per tutta risposta, Ragusa si limitò a fare issare un paio di forche nell’omonima contrada e a mettervi a morte Salvatore Borrello, detto Malora, e Mario Acerbo, detto Surgiazzu.

Si trattava, però, di due scimmioni, che più degli altri si erano fatti notare, ma non avevano avuto gran peso nei fatti. Nessuno dei due – manifestamente – era stato l’esecutore materiale del delitto, ma ambedue avevano gridato “A morte!”. E tanto bastava.

La loro esecuzione fu una maniera per scoraggiare il popolino, nel caso avesse voluto continuare a prestare orecchio all’eresia di Vincenzo Bonaiuti, diventata particolarmente virulenta da quando le notizie di peste che arrivavano da Malta davano per imminente la fine del mondo.

“Quel demente crede di essere come quell’altro monaco tedesco…” disse don Pietro Ragusa a Rodrigo Borina. “Adesso anche lui comincia a cianciare di Roma ladrona e del Papa che dilapida le ricchezze dei fedeli nelle inutili superbie di Michelangelo Buonaroti…”

“Vi riferite forse a Martin Lutero?” osservò Rodrigo. “Può darsi che abbiate ragione. Ma, Vincenzo Bonaiuti è il fratello scemo di Lutero e quindi mi pare proprio l’uomo giusto per parlare alla nostra marmaglia… Qui rivolta e carnevale sono la stessa cosa!”

“E quindi?”

“E quindi, don Pietro… proprio per questo, detta così… io non lo ammazzerei!”

“E che me ne faccio?”

“Al momento non ne ho la più pallida idea! Ma, statene pure certo, prima o poi finirà per tornarci utile! Detta così… ce lo mettiamo da parte… ben nascosto perché… perché non si sa mai! Un cretino è come la raffia: prima o poi ti capita di usarla!”

“Basta che non la usi il vicere, questa raffia, magari intrecciata per poterci impiccare!” sospirò Ragusa.

“Mi stupite, don Pietro! Certi personaggi si tirano fuori al momento giusto e con molto giudizio! Prima sistemerei gli sgherri…”

“Va bene. Quanti giorni ti servono per essere pronto a far sentire le nostre campane?”

“Venti?”

“Rodrigo, Rodrigo! A Palermo passavi per un campanaro veloce, quando i tuoi vecchi padroni volevano far dire messa!”

“Giusto. Me ne bastano dieci, allora.”

“E dieci giorni ti do…”

“Ho già messo a punto buona parte del macchinario.”

“Vediamo se ho speso bene i soldi del barone, portandoti qui” disse don Pietro e cambiò discorso.

Manco due ore dopo, Rodrigo – tanto per curarsi in salute – inserì nel corpo delle guardie molti dei popolani del quartiere di Terra Vecchia, scegliendo con cura quelli che erano stati i più facinorosi rivoltosi – il principio era quello di sempre: meno ti fidi di un tipo, più ti conviene prendertelo a servizio: prima perché così con te guadagna di più che non “contro di te”, secondo perché da vicino lo puoi far controllare meglio, terzo perché da vicino ti vien facile ammazzarlo quando non ti serve più –.

Il giorno successivo vi aggiunse Omar ed Abdul, due giganteschi mori, che da qualche mese terrorizzavano i quartieri malfamati vicini al porto di Catania. Il loro compito, prevalentemente, consisteva nello stare appartati e lisciare discretamente la schiena a chi avesse voluto prendere iniziative ostili al barone.

Però, il personaggio che aveva scatenato il fatto di sangue – cioè, l’eretico Vincenzo Bonaiuti, colui che si era dichiarato il figlio di Gesù Cristo, per cui le guardie avevano cercato di arrestarlo, contro il volere dei pezzenti al suo seguito – riuscì a realizzare una improbabile fuga (aiutato, con le buone e con le cattive, proprio dagli uomini di Rodrigo).

Così, il povero pazzo si ritrovò, scortato da un paio di uomini, in una stalla di Calleri, nella tenuta del marchese di L.

E lì rimase nascosto.

Quando, poi, in tutta fretta, si organizzò Il Cenacolo, la setta fu messa sotto la guida spirituale di Vincenzo Bonaiuti, ma agli ordini di don Pietro Ragusa.

Furono scelti adepti che erano ben al di sopra dei semplici delinquenti. Oltre che dalla marchesa di L., infatti, la dirigenza era costituita dalle dame di compagnia, dai nobili non primogeniti, dai religiosi, dai professionisti, dagli amministratori e dai massari dei feudi lì intorno.

Sgherri e sfaccendati di ogni risma, così, costituirono il braccio armato dei notabili emergenti, sotto la guida militare di di Rodrigo Borina.

La novità era il compito delle donne, dette Angeli annunciatori. Ad esse si affidava la funzione di diffondere le direttive e di avere buone orecchie, eludendo i controlli delle spie dell’imperatore e dei Branciforti.

Come in ogni società segreta che si rispetti, non a tutti gli adepti furono note le finalità ultime. Nello schema che ne fece don Pietro Ragusa la conoscenza era concessa per gradi. In basso ci dovevano stare i picciriddi. Poi, per i titolati, arrivaval’alba, venendo accolti e ammessi alla riflessione. Nel grado più alto, infine, si entrava dopo un viaggio nel meriggio, cioè dopo una prova di coraggio in un’azione non molto importante.

Ma, tutto ciò venne dopo. Nell’azione per vendicare il figlio del capitano di giustizia Rodrigo se la sbrigò praticamente da solo.

Dieci giorni dopo il sanguinoso evento, infatti, don Pietro Ragusa tornò a parlare sul da farsi, proprio nella tenuta di Calleri, alla presenza di donna Rosaria, dama di compagnia del Marchese di L.

“Bisognerà che domani notte stessa tu parta per Malta, Besson si è rifuggiato lì” disse il segreto a Rodrigo. “Il capitano Ximenes è già a Palermo… Ma che gli hai detto di così terribile? Il barone mi ha scritto che tremava ancora come una foglia!”

“Ho usato il linguaggio della mia gioventù marinara… dato che, detta così… il diplomatico siete voi e non io!”

“Malta” disse donna Rosaria, “deve essere un’isola incantevole, addirittura… anche se è piena di assassini… Sarebbe emozionante se venissi anch’io…”

“Siete troppo necessaria qui, signora” chiarì Pietro.”

Nella stanza entrò un servo, portando del vino.

“Prepara i cavalli per stasera” gli ordinò Pietro.

Il servo si inchinò ed uscì.

“Bene” sorrise Pietro. “Anche questa è fatta! Beviamoci, adesso, il buon vino che ci ha portato compare Giovanni Sciancatedda dai colli di Catalfaro!”

Si volse versoRodrigo. “Voglio che a Malta si senta molto rumore… Senza averne le prove, tutti debbono pensare che sono stato io ad armare la mano che ucciderà Fernando Besson…”

“E’ esattamente ciò che ho fatto capire al capitano Ximenes, quando l’ho tirato fuori dai guai. Gli ho detto che Besson era venuto per anticiparvi nella vendetta. A Palermo don Gaspare Moleto era molto stimato… e non penso che il vicerè abbia molto gradito la sua uccisione, l’anno scorso. Ho, perciò, eseguito proprio i vostri ordini.”

II

Per essere il rifuggio di uno sgherro, la stanza di mastro Rodrigo non era un posto malvagio. Situata poco sopra il popolato quartiere del Vallone, permetteva di guardare la piccola piazza davanti alla porta del castello. Inoltre, grazie ai muri spessi che si incastravano in una grotta naturale, c’era frescura d’estate e caldo d’inverno.

“Cosa succederà?” gli chiese donna Rosaria, nuda fra le sue braccia, con la voce che era appena un fiato, come se stessero continuando a fare all’amore.

“Succederà esattamente ciò che certa gente ha tentato di far succedere da noi” disse Rodrigo con un breve sorriso. “Pazzi, sbirri ed eretici li trovi dappertutto… Essi hanno mandato Besson a scatenare i nostri pazzi ed ora io vado a scatenare i loro!”

“Besson, Besson! Ho paura che questa volta ti sei messo a caccia di un lupo che ha fauci d’inferno!” sospirò donna Rosaria.

“E’ molto furbo, infatti! Ho ricostruito tutta la faccenda… I miei uomini… Ciccu, Cola ed il maestro Ignazio Del Castro… stavano in mezzo ai malintenzionati, mentre io girellavo sui tetti… Besson ha passato l’intera giornata dietro le gonne delle lavandaie, ad infuocare gli animi dei più scalmanati… finché non ha scatenato Malora e Surgiazzu.”

III

Quella stessa notte, così, mastro Rodrigo partì ed all’alba del giorno dopo sbarcò a Malta.

L’isola, dopo le rivolte contro le tasse degli angioini – che in Sicilia erano culminate con i Vespri -, era diventata parte del regno aragonese. Ma, pochi anni prima i fatti narrati, nel 1530, era stata data in affitto ai Cavalieri Ospitalieri, monaci soldati conosciuti come Cavalieri di Malta.

Ciò aveva comportato pure l’arrivo di delinquenti di ogni risma, venuti a porsi sotto la protezione dell’Ordine, dopo qualche delitto.

In quei giorni, per di più, c’era una tensione che durava da quasi un mese, cioè da quando era scoppiata una terribile epidemia, subito dopo un terremoto in Sicilia, fatto che non era sembrato casuale ed aveva creato un’atmosfera di punizione divina.

Le vittime della peste morivano in meno di un giorno, per una febbre la cui origine restava misteriosa. Perdevano improvvisamente le forze, come colpiti dalla spada vindice dell’Arcangelo Gabriele, e nel giro di poche ore i loro corpi si riempivano di pustole rosse, la lingua diventava nera e sembrava che un cane famelico se li mangiava dall’interno, brano a brano.

Fin dai primi giorni, perciò, il diffondersi del terrore aveva provocato molti disordini. A luglio nella città di La Valletta, cuore dei traffici commerciali con l’Asia minore, il popolo aveva assalito i magazzini del porto – questo perché peste e carestia troppo spesso si tengono compagnia -.

Quando, poi, il male si manifestò a Mdina e toccò il punto più alto della sua virulenza, arrivarono a morire in un solo giorno circa 200 persone. In tale tragica congiuntura, arrivò l’altro compagno della peste, il linciaggio generalizzato. Cominciarono a girare strane voci sugli interessi dei francesi a diffondere il morbo nei territori a loro ostili. Anche le persone di reputata cultura, finirono per parlare come superstiziose donnette…

La situazione precipitò ad agosto nel villaggio di San Giuliano, dove era scoppiata una violentissima rivolta. perché si disse che in una nave con a bordo la soldataglia c’era stato un morto e tutti erano sbarcati senza alcuna precauzione.

Un francese, un povero soldato di ventura di nome Bernard Le Varré, che aveva una voglia di vino sul collo, venne addirittura fatto a pezzi da una turba di invasati, fra gli applausi generali.

Per sua fortuna, però, Rodrigo poteva ridersene della peste, perché a Costantinopoli era riuscito a guarirne. Per questo se ne andò in giro tranquillamente, alla ricerca della sua vittima subito dopo il suo arrivo – clandestinamente, su una nave veneziana -.

Ben presto egli seppe che Fernando Besson viveva con una prostituta ebrea di nome Anna, a Tas-Sliema, un villaggio di pescatori. Studiò, quindi, il modo di far succedere il finimondo e, data la situazione, capì che si trattava di una faccenda piuttosto facile.

Manco a farlo apposta, infatti, vicino allo slargo sul lungo mare chiamato Qui Si-Sana c’era una chiesa, dove un tipo che da molti sentì chiamare Tazza, il nome maltese del bicchiere (di sicuro per la facilità nel bere), vendeva polveri contro il malocchio.

Avvicinatosi, Rodrigo notò che Tazza bisticciava con Anna per il prezzo di una bustina di carta. Poco discosto, Fernando Besson era pronto a intervenire, se il battibecco diventava pericoloso.

Senza farsi notare, Rodrigo gli andò dietro e, col braccio destro, gli strinse il collo, mentre, con la mano sinistra, gli appioppò una secca pugnalata all’altezza del cuore.

Nessuno si accorse di nulla, anche perché lui, con la sola forza del braccio, tenne in piedi la sua vittima già cadavere. Di quell’omicido, gli rimase soltanto il ricordo di una fastidiosissima puzza, per le feci liberate dal morto, nei brevi istanti degli spasmi della morte.

Contemporaneamente, Anna diede uno spintone a Tazza, spargendo per terra una polvere giallastra.

“Non è quella giusta!” urlò Rodrigo, sempre reggendo Besson, in siciliano, lingua che a Malta capivano tutti. “La sua polvere provoca la peste… non ci protegge!”

“Ecco chi ci porta la morte!” gridò Anna, additando il povero Tazza.

Si formò subito un assembramento di facce minacciose.

“Volevo solo che mi si pagasse il giusto” si difese Tazza, con un filo di voce.

“No, tu porti la peste e poi rubi ai morti!” ringhiò Rodrigo. “Tu e i tuoi due complici!… Questa prostituta e il suo ruffiano!”

E lasciò stramazzare a terra il defunto Besson.

“Ed ora il tuo giusto prezzo te lo do io!” continuò, dirigendosi verso Tazza.

Partì, non si sa da dove, il primo colpo di bastone, che centrò in fronte il venditore di polvere della salute.

Il poveraccio stramazzò a terra.

“Eccoti un altro regalo!” fece un giovanottone, dandogli un calcio.

Quando le botte furono tante e tali da ucciderlo, lo legarono alla coda di un mulo e lo trascinarono sulla strada che porta a La Valletta.

Nel frattempo, il canonico dun Karm Pmaira, noto arruffapopolo, usò i gradini della chiesa come pulpito per arringare chi man mano accorreva.

“Sono i peccati degli adoratori di Satana che ci portano la peste!” gridava.

Si formò una folla che approvò le sue incitazioni e gridando corse verso Il Fortiza, la fortezza usata pure come carcere, intenzionata a liberare i detenuti. Trovato, però, un insuperabile sbarramento di guardie, deviò verso il porto di La Valletta, per saccheggiare magazzini e forni, mentre uccideva a caso proprietari e garzoni, o chiunque avesse un aspetto antipatico.

Infine la folla entrò nelle case e cominciò ad appiccare il fuoco.

Naturalmente, alla testa dei facinorosi si mise Rodrigo, che già aveva dato una coltellata mortale alla povera Anna. Ad un certo punto, però, gli si parò davanti un tipo incredibilmente pallido e filiforme, che camminava radente ai muri, come piegato dal vento. L’unica sua particolarità era il naso enorme, negroide e fremente sopra una bocca cavernosa, dove soltanto un canino rappresentava l’intera dentatura.

L’uomo gli sorrise.

“Sorriso sprecato!” disse Rodrigo. “So benissimo chi sei… Melchiorre Spada, il più infame informatore degli sbirri maltesi!”

“In fondo, il nostro è un ambiente piccolo…” disse Spada. “E tra compagnucci ci si conosce un po’ tutti… Ho visto come sono andate le cose.”

“Io non ti conoscevo, ma prima di entrare in azione ho preso le mie informazioni… Puoi dire ai tuoi padroni che non mi importa nulla di quel che succede qui… A me interessava Besson. Don Pietro Ragusa, l’amministratore del feudo siciliano di Militello, non ha gradito l’uccisione a Palermo del barone don Gaspare Moleto, il suo maestro.”

“Perché non vieni con me e così glielo dici di persona?”

“A mezzanotte lo farò. Ci vediamo nella cattedrale di Mdina, dove ci sono alcuni amici fidati, che mi hanno preparato il terreno. Potranno essere di aiuto anche a voi. Ma, per adesso, io non mi metto nelle tue mani… Sono uno che prende sempre le sue precauzioni! So che vi debbo consegnare dei colpevoli… e dei colpevoli avrete!”

“Ma sei tu il primo colpevole!” ghignò Spada.

“La forca è meno schizzinosa di te… e non fa troppe domande! Accontentati!”

“E tu? Tu sei già abbastanza contento?”

“Lo sarò domani a mezzogiorno. E’ importante che io sia sopra una nave che partirà alle undici… in rotta per Creta.”

Detto questo, Rodrigo sorprese Spada con un colpo sul collo, dato col taglio della mano. L’uomo stramazzò a terra stordito ed egli si dileguò.

La notte stessa, sulla nave con la quale era venuto, ripartì per la Sicilia.

In verità, il capitano Armando Zarin aveva qualche conto in sospeso con le autorità siciliane. Perciò, a poco più di un quarto di miglio dalla costa di Augusta, gli chiese:

“Come ve la cavate col nuoto? All’andata siete arrivato in barca con i vostri amici, ma ora…”

“Ora mi faccio pesce” rispose Rodrigo.

“Allora, buona fortuna!… Chi mi doveva pagare, mi ha già pagato.”

Rodrigo si tolse le brache alla turca che indossava, restando del tutto nudo.

“Ho lasciato nel mare di Malta i miei vestiti… dovrebbe essere stato sufficiente… ma, ad ogni buon conto, detta così… accendete una torcia, anche se siamo in pieno giorno… credo che nessuno penserà ad un segnale…”

“Speriamo di no” disse il capitano, porgendogli la torcia accesa.

“Speriamo di sì, invece!” esclamò Rodrigo. “Sulla riva ci sono gli amici che mi aspettano con vestiti nuovi e puliti!”

Disegnò con la torcia due ampi archi sopra la testa. Poi, diede fuoco alle brache, aspettò che bruciassero e buttò il tutto in mare.

“Cerea, amico!” disse, ritrovando il saluto piemontese dell’infanzia… e si tuffò.

“Cerea!” rispose al mare, unico suo padrone, il capitano.

Anche lui conosceva e parlava tutte le lingue del mondo.

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