Garufi, Rocambole – “La logica delle corti è quella degli scacchi, storia di un parricidio” (Racconto)

Le logiche di corte

di Rocambole Garufi

I

Il cronista Filippo Caruso (Militello, 1593 – ivi, dopo il 1671) nacque il 12 maggio da Francesco Caruso e da Laura Jacobelli. La sua famiglia era fra le prime di Militello, avendo parentela con gli antichi signori della città (il suo bisavolo, Matteo, aveva sposato Leonora Barresi, figlia naturale del marchese di Militello, Giovan Battista). Fu, inoltre, tra i paggi d’onore di don Francesco Branciforti, traendone gran profitto intellettuale, oltre che sociale, poiché se ne dichiarò discepolo nello studio della filosofia e della matematica.

Nel 1639 lo troviamo segreto baronale di don Federico Colonna, marito di donna Margherita d’Austria, figlia ed erede del Principe Branciforti. Ebbe quattro mogli che gli diedero numerosa figliolanza. Dei suoi discendenti troviamo notizie fino al settecento, quando morirono gli ultimi rappresentanti della famiglia, il barone della Sanzà e di Rossitto ed il frate domenicano Giovan Tommaso Caruso, che lasciò tutti i suoi beni al convento.

Lasciò alcuni manoscritti sulla storia delle famiglie Barresi, Branciforti e Santapau, che ancora oggi costituiscono la principale fonte di storia patria antica. Eccone i titoli: 1) Breve relazione della tre famiglie di Barrese, Santapau, e Branciforti annodate in un nodo indissolubile in Sicilia fatta da D. Filippo Caruso di Francesco della Terra di Militello V. di N.; 2) Historia geneologica delle tre famiglie di Barresi Santapau, e Branciforti annodate in un nodo indissolubile in Sicilia di D. Filippo Caruso della città di Militello V. di N. dedicata all’Eccellenza Illustrissima del signor D. Giuseppe Branciforti Principe di Butera, Marchese di detta città, anno 1658; 3) Quinterno di cose memorabili. Fu, inoltre, autore di discorsi di argomento sacro e di panegirici, alcuni dei quali vennero inseriti nei manoscritti citati.

Dalla scrittura del Caruso traspare una sincera ed ingenua adesione agli ideali nobiliari, per cui le sue migliori qualità, più che nello spirito critico, le troviamo nelle descrizioni minuziose e vivide e nella freschezza delle espressioni dialettali, che rendono simpaticamente improbabile il suo italiano.

Particolarmente coinvolgente è il racconto del parricidio di cui fu autore Girolamjo Barresi, racconto che don Rodrigo Borina sperò di aver salvato dall’oblio, riproponendolo con il suo stile (e con qualche considerazione che non credette inutile).

II

La notte in cui venne ucciso don Matteo Barresi nel castello di Mazzarino c’era un greve odore di gelsomino. Pareva di stare dentro un vischio denso e dolciastro, nel quale ogni movimento diventava un riemergere stentato – e sembrava il teatro giusto per raccontare certe morti siciliane, consumate nella secolare immobilità. Ci sei e poi scompari. Prima il centro dell’universo e poi… poi niente, neppure il ricordo! -.

Nel suo letto, solo, perduto nel sonno, ubriaco, dopo i gagliardi stravizi con una delle sue tante concubine, don Matteo si offriva inerme, pronto per il colpo risolutivo, per passare dal tutto al nulla, al mai esistito. E lui, Girolamo Barresi, suo figlio, poteva finalmente pensarsi come il nuovo barone di Mazzarino, unico padrone del feudo.

Non una bava di vento entrava dalla bifora ad animare l’immobilità della notte. Il disco della Luna era rosso come il ferro incandescente, pesante sulla torre del castello. Girolamo si affacciò e dominò con lo sguardo l’intera valle silente. Il suo antico maniero se ne stava all’erta, come un guardiano con le gambe divaricate ed i piedi ben piantati per terra, sempre pronto a colpire, alto sulle case e sulle strade. Scorse un palpito di vita soltanto nella polvere secca dei primi di agosto, che biancheggiava alla luce della Luna e si stendeva come un sudario a coprire ogni forma. Immobile. Eterna.

Negli stabbi di sotto ristagnava l’afrore del letame, con lo spessore e la consistenza della materia. Avvolgente, protettivo, soffocante, chiuso – un ventre materno -.

Girolamo era in preda a tutte le passioni dell’inferno. Si avvicinò deciso a suo padre, col cuscino in mano. No, non l’avrebbe più sentita quella voce, così stentorea ed arrogante nel dargli ordini, nel dirgli sempre di no, nel farlo sentire uno zero! Al massimo, qualche soffocato mugolio e dopo, per sempre, il silenzio.

Aveva il sonno pesante, quell’uomo! Il rumore dei suoi passi – e tanto ne aveva provocato, poiché l’emozione ci rende rigidi e maldestri – non l’avevano neppure fatto rigirare nel letto. Lo guardò a lungo. Ne scrutò ogni piega del viso con l’attenzione dell’odio. La barba sale e pepe gli scendeva sul petto a ciuffi unti. Due solchi profondi, dal naso agli angoli della bocca, evidenziavano la rubiconda rotondità degli zigomi. Stille di sudore gli imperlavano la fronte ed il collo. Evidentemente, aveva bevuto forte, il vecchio don Matteo! E mangiato, anche! Era un uomo di straordinario vigore, come tutti i Barresi, come lui, una volta morto il padre.

Girolamo odiava il padre fin dalla nascita, o da subito dopo. Quando sua madre si arrese alla morte (egli era ancora un bambino) nel suo pianto lesse soltanto lo strazio di dover lasciare il marito. Non una sola delle sue lacrime gli dedicò. Se la ricordava ancora, le trecce brune e pesanti sparse sul bianco cuscino, mentre se ne andava, come si dice, in punta di piedi, desolata, muta e disperata. Don Matteo nella stanza accanto grugniva il suo dolore.

Antonia, però, era finalmente venuta a ridargli la luce. La conobbe nel castello del padre, il marchese di Licodia. Le sue forme sature, carne fiorente e consapevole, sull’orlo del disfacimento matronale, si offrirono al suo sguardo, prima che alle sue carezze. Allora, ne immaginò i seni colmi e tiepidi sotto la prigionia delle vesti. Ne subì la seduzione popolana prepotente, contro ogni regola di gusto diffusa nel suo ceto. Gli piacque il suo viso scuro, aureolato da capelli neri, crespi ed esuberanti. Lo incantarono i suoi occhi – due olive – sfrontati, selvaggi, ironici, che sempre si posavano sul concreto della vita.

Ora, Antonia riposava tranquilla nella sua stanza, dopo le dolcezze dell’amplesso, mentre Girolamo compiva il suo gesto, mentre toccava il fondo della sua pazzia.

L’odio per il padre e l’amore per Antonia lo avevano nutrito e gli avevano dato il coraggio. Ne ebbe piena coscienza una mattina di gennaio, lo stesso giorno in cui conobbe Antonia, quando il contrasto tra lui e suo padre si fece insanabile, tanto da farlo decidere di trasferirsi a Siracusa.

Nuvole nere e basse, ma che mai si decidevano a sciogliersi in pioggia, lo accompagnarono lungo il tragitto. Un vento gelido gli rasoiava la faccia, gli scompigliava i vestiti e gli portava il gelo fin dentro le ossa. Si rese necessaria una sosta, un po’ di riposo e di caldo, in un fondaco di Licodia.

Qui fu riconosciuto ed il signore del posto, il marchese Porzio III Santapau, lo mandò a chiamare.

“Come!” gli disse. “Vostra Signoria trovasi a Licodia, mia terra, e va a posare al fondaco? E non onora, come dovrebbe, il mio castello?”

“Offenderla non era nelle mie intenzioni. Vado di fretta e pensavo di fermarmi soltanto per il tempo di un breve riposo…”

“Orsù!” tagliò corto il marchese, con un gentile inchino, ma con un tono fermo. “Vostra Signoria sarà perdonata se avrò l’onore di averla alla mia mensa.”

Girolamo non potè rifiutare – ma, si può rifiutare il destino? -.

Poco dopo si ritrovò alla tavola del marchese, dove sedettero pure due donne.

La più giovane era Antonia. Allora, con improvvisa e definitiva decisione, secondo l’irruenza dei Barresi, pensò di sposarla.

“Chi sono le dame che ci tengono una così dilettevole compagnia?” chiese al marchese.

“Una è mia moglie e l’altra è mia figlia Antonia.”

Finito il desinare e rimasti soli, Girolamo chiese:

“E’ forse maritata la sua signora figlia?”

“Non è maritata.”

“Allora, col permesso di Vostra Signoria, vorrei prenderla in moglie io.”

Il marchese stette per qualche istante a riflettere. Poi, con un sorriso di simpatia per l’audace sicurezza del giovane, disse:

“Vostra Signoria mi porti la licenza del suo signor padre e potrò ben darle in moglie mia figlia.”

“Non mi piace mio padre ed io non piaccio a lui. Andavo a Siracusa proprio per stargli lontano e non vederlo.”

“Me ne dispiace… Vostra Signoria ha fatto male a venire in contesa col suo signor padre. Non si deve forse al padre onore ed obbedienza al di sopra e al di là di tutto? Ma, sono sicuro che ella saprà farsi perdonare dal suo illustre genitore! E, d’altra parte, non posso concederle in sposa mia figlia, senza la licenza del barone don Matteo.”

“Andrò. Poiché questo Vostra Signoria vuole. Ma, anche se mio padre dovesse negarmi il permesso, sposerò ugualmente la sua signora figlia! Andrò, soprattutto, per annunciargli il mio fidanzamento.”

Così, quel giorno stesso Girolamo tornò a Mazzarino e, naturalmente, suo padre non mancò l’occasione di fargli una beffarda domanda sul perché di un tanto veloce ritorno. Poi, quando il figlio gli espose succintamente i fatti accaduti…

“No!” sentenziò. “Don Porzio non è amato dal nostro sovrano… Lo sono io, invece!… E non lo sarò più, se vado a imparentarmi con un tipo in odore di ribellione!”

“Metteteci pure me, fra quelli con la schiena diritta come don Porzio!” gridò Girolamo.

“I felloni non hanno schiena, né diritta né storta… e la loro testa è buona soltanto per essere tagliata… Per te ho in mente un’altra sposa.”

“Ho dato la mia parola e non intendo mancarvi.”

“Sposati e ti sarò nemico!”

Senza rispondere e senza porre tempo in mezzo, Gerolamo risalì a cavallo, alla volta di Licodia, deciso a sposare Antonia, d’amore o di forza.

Ma, bastò l’amore. Il marchese Porzio accettò di fare a meno della benedizione del consuocero.

“Che valore può avere la volontà di chi obbedisce come una pecora a un re che ci è nemico?” commentò semplicemente.

Non è niente l’ardore dei sensi, se si srotola tranquillamente come un ruscello in pianura, come un rosario, come un succedersi uguale di sere malinconiche! Girolamo voleva il feudo. Era sicuro che lo avrebbe saputo tenere fitto nel pugno, meglio di suo padre. Questo soltanto voleva, anche quando fu felice con Antonia. Ella lo rispettava e si faceva rispettare, anche da don Matteo… e fu proprio lei che, senza volerlo lo riportò alla realtà dell’odio.

Col suo fare sottomesso, tanto innaturale nel suo aspetto fisico, riusciva sempre vittoriosa. Aveva ammansito l’orso, lo teneva al guinzaglio, parlandogli come solo certe donne sanno parlare agli uomini, strappandogli sorrisi ch’egli neppure pensava che potesse avere.

“Non è cattivo, il vostro signor padre. E’ nobile, abituato a sentirsi obbedito, bisogna capirlo. Vostra Signoria, come figlio, gli deve rispetto più di ogni altro. Non deve adombrarsi per i suoi modi bruschi.”

Chissà perché Girolamo ripensò a sua madre, tanto innamorata di don Matteo e tanto dimentica di lui. Fu una gelosia invincibile, anche se ingiustificata, perché Antonia non gli mancava di rispetto… semplicemente non condivideva il suo odio.

“E’ venuto il momento di far visita al vostro signor padre” disse un giorno Girolamo alla moglie. “Partiremo domani.”

L’indomani, quando si trovò al cospetto del suocero, si sentì di nuovo libero, padrone delle sue decisioni. Per poco, dato che, quando furono soli sui bastioni del castello, don Porzio chiese:

“Ha fatto pace col suo signor padre?”

“No.”

“E come la tratta il suo signor padre?”

“Mio padre mi tratta male, sebbene ama e onora mia moglie.”

“Quand’è così, levatevigli d’innanzi!”

Dopo questa frase sibillina, don Porzio cambiò discorso…

“Un giorno Vostra Signoria sarà il padrone unico del feudo” gli disse più tardi Antonia, spazientita per le escandescenze del marito.

Girolamo la guardò. Nulla traspariva dei sentimenti della moglie, tranne una ferma decisione. Dentro quelle abbondanze sensuali c’era un carattere inflessibile, da capitano di ventura. Pensò che Antonia apparteneva alla razza siciliana più pericolosa, quella inamovibile ed irremovibile, che sa dove può – e, quindi, vuole – arrivare. E solo a questo pensa. E solo per questo ama, odia, sorride e piange.

“Un giorno!” rispose Girolamo. “Quanti anni ancora mi pioveranno sulle spalle, prima che arrivi quel giorno?”

“Quanti ne vorrà Dio!” concluse Antonia.

Poi, ella gli accarezzò i capelli con un gesto materno. I suoi occhi, però, più di prima, esprimevano sicurezza e calma.

Antonia, lei sì!, vinceva! Era già la vera baronessa di Mazzarino. Girolamo capì che neppure con lei gli rimaneva la possibilità di mostrare il suo valore.

Decise di andarsene nella tenuta dei cugini, i Barresi di Militello, in contrada Vignazza, nei pressi di Scordia. Ma, appena tre giorni dopo, venne un messaggero e gli comunicò che suo padre era gravemente infermo.

Cavalcò calmo e grave alla volta di Mazzarino, sentendosi già il nuovo signore. Ma, non aveva calcolato la forte fibra dei Barresi. Suo padre, seppur ancora a letto, gli dette subito il segno della sua vitalità.

“Non togliere il vino dalla botte” gli disse, vedendolo. “Rischia di diventarti aceto. Io non sono ancora morto e tu non sei ancora il padrone.”

Ecco perché in quella notte di agosto Girolamo calò il cuscino con forza.

“Ci rivedremo a casa del diavolo!” disse con la voce rauca, mentre il vecchio si divincolava, per sfuggire alla morsa.

Don Matteo era un uomo forte, ma l’infermità da cui era appena uscito giocava a favore del suo assassino. L’ubriacatura e la concubina facevano il resto… Il tutto durò un’eternità, ma finì. Finì con un grido di Antonia.

“Mio Dio!” ella gridò.

Girolamo si voltò, abbandonando il cuscino sulla faccia del padre morto. Guardò la moglie… pallida, stravolta, gli occhi dilatati, le mani davanti alla bocca… Il suo seno, ansante e pieno, era più eccitante che mai.

La notte prima di essere messo a morte per ordine del vicerè, don Girolamo Barresi pensò a suo suocero, che – secondo un consolidato costume isolano – lo aveva subito rinnegato:

“Io gli dissi levatevigli d’innanzi intendendo che prendesse la moglie seco e venisse a vivere a Licodia, nel mio castello… io volevo solo amicizia dal suocero di mia figlia!”

Antonia, invece, aveva fatto tutto quello che poteva: aveva pianto, aveva pregato, aveva provato a sedurre il vicerè – poco sapeva, purtroppo, dei suoi gusti in amore… -. Persa, poi, ogni speranza, avrebbe brigato perché il feudo di Mazzarino passasse nelle mani di Dorotea, sua figlia, sposa del principe don Giovanni Branciforti di Butera.

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