Evangelo borghese – Sebastiano Guzzone (1856 – 1890) e la pittura verista

Rocambole Garufi

L’Evangelo borghese di Sebastiano Guzzone (1856 – 1890)

Pittura dell’Ottocento verista

1^ Edizione 2008

Edizioni Novecento

Mascalucia

ISBN: 88-89787-05-8

Introduzione

Giovanni Verga e il verismo pittorico

La vicenda umana ed artistica di Sebastiano Guzzone (1856-1890) si colloca in un periodo di grandi cambiamenti negli assetti di potere e nelle egemonie culturali dell’Europa, tanto da farne, se non un protagonista, almeno un testimone d’eccezione.

Nato nella profonda provincia siciliana, a Militello in Val di Catania, da una famiglia di piccoli possidenti, egli ricevette la prima educazione dallo zio prete, don Rosario, conservatore in politica, ma, al contempo, molto amico dell’emergente liberale Salvatore Majorana Calatabiano, che fu ministro del primo governo italiano della Sinistra storica.

Sotto tanta protezione, perciò, già apprezzato per la sua prodigiosa abilità nel disegno – sulla scia di alcuni maestri locali, quali Salvatore Grande, Emanuele Fagone, Nicolò Culosi e Francesco Sinatra -, Guzzone poté trasferirsi a Roma e frequentare l’Accademia di San Luca, nel frattempo ospite del copista Filippo Casabene (un vero e proprio specialista del quadro l’Aurora di Guido Reni).

In quegli anni, per realizzare l’unità artistica d’Italia, l’Accademia era un ottimo strumento, anche se non mancarono i momenti dialettici. Roma, infatti, diventò un vero e proprio crocevia di inquietudini estetiche. Vi operarono, così, personalità del calibro di Vincenzo Camuccini, di Tommaso Minardi (che del Guzzone fu maestro), di Filippo Agricola e di Francesco Podesti (altro maestro del Nostro), tutti autori di stentoree riproposizioni storiche. A questi poi si aggiunse il drappello degli innovatori – amici e frequentatori dello studio che l’artista siciliano in seguito aprì a Roma -, soprattutto Mariano Fortuny y Marsal e Cesare Maccari. E, poi, Francesco Di Bartolo, Pio Ioris, Luigi Serra, Nino Costa, Giuseppe Ferrari, il poeta Luigi Zanazzo (autore di Rugantino), e tanti altri.

Un momento di grande felicità creativa per Guzzone fu la partecipazione all’edizione del 1885 dello storico carnevale di Roma (già citato da Dumas in Il conte di Montecristo). Al Nostro, al pittore Salvatore Franciamore ed all’architetto Ernesto Basile venne affidato l’incarico di allestire un carro carnascialesco che rappresentasse la Sicilia. L’opera, non soltanto vinse il primo premio, ma fu molto ammirata dalla Regina (a cui Guzzone regalò un tamburello acquarellato e con dei versi dello Zanazzo).

L’apprezzamento per Sebastiano Guzzone, inoltre, fu molto grande all’estero, soprattutto in Francia – per la sua amicizia col fotografo Nadar – e in Inghilterra, dove fu presente in ben quattro esposizioni della Royal Accademy. A tal proposito, si conserva una lettera piena di entusiasmo nei suoi confronti scritta dal gallerista francese Brebant.

Dopo il matrimonio con la nobildonna Gaetanina Baldanza, Guzzone fece molti viaggi e soggiornò spesso ad Assisi e a Firenze. E in questa città morì e fu seppellito nel 1890.

Un suo quadro, Festa in chiesa, piccolo gioiello del verismo ottocentesco, fu in seguito acquistato, grazie all’intercessione di Ernesto Basile e di Domenico Morelli, per il Museo Nazionale di Arte Contemporanea di Roma. Altri capolavori furono gli interni di chiesa, dominati da grandi spazi e da profondi silenzi – tanto da anticipare certe atmosfere metafisiche -. Notevole, infine, fu un grande dipinto raffigurante La morte del Petrarca.

1

Jean Louis-Ernest Meissonier e la “scena” come narrazione

Il 20 aprile 1890 una mano rimasta sconosciuta vergava un Inventario di tutti gli oggetti esistenti nello studio del fu Guzzone Sebastiano.

Il morto era stato un pittore siciliano di qualche notorietà e lasciava a casa sua un totale di 109 opere d’arte – delle quali soltanto una non sua (un Crocifisso del ‘300), mentre altri sette dipinti venivano definiti “di poco valore” e messi insieme a quattro copie, senza attardarsi in ulteriori descrizioni -.

Centotrent’anni dopo, questo elenco sarebbe davvero poco per capire il valore dell’artista, ma risulta bastante a destare la voglia di indagare.

Gli inventari sono un ottimo eccitante per scatenarsi nelle ipotesi. Le figure per un pittore sono come i concetti per uno scrittore: parlano le presenze e parlano le assenze.

Senza giocarci troppo, naturalmente. Salvatore Silvano Nigro, presentando col solito stile pirotecnico il catalogo della biblioteca di Giovanni Verga, coevo e conterraneo di più persistente memoria del nostro Guzzone, invitava a maneggiare gli elenchi:

Sempre con l’avvertenza (…) che quella non è la biblioteca di Verga, bensì la biblioteca della casa di Verga,” perché “L’opera verghiana eccede la biblioteca, distratta da essa.” 1

Perciò, senza perdersi in troppi ragionamenti, è meglio svolgere un discorso nei tempi lunghi necessari a renderlo non del tutto arbitrario.

Cominciamo, quindi, mettendo in nota l’inventario, scusandoci per la sua lunghezza.2

Possiamo, così, già dividere le opere in tre diversi gruppi: copie; soggetti storici o biblici; ritratti e scene, molte ambientate in luoghi religiosi.

Vien subito da pensare che potrebbero corrispondere a tre diversi stili. Non sarebbe la prima volta che l’opera di un pittore viene scansionata. Quanti storici e critici hanno scritto di un Picasso del periodo blu, del periodo rosa, del cubismo analitico, del cubismo sintetico! (e, magari le quotazioni sono cambiate da un periodo all’altro).

Vedremo più avanti, ripercorrendo la vita dell’artista che una tripartizione della sua opera non appare del tutto arbitraria.

Altro discorso le tecniche.

Tranne un pastello, ci sono acquerelli e oli. Fra l’altro, l’acquerello raffigurante le Meditazioni di Petrarca era probabilmente un lavoro parallelo a una grande tela che aveva dipinto con lo stesso protagonista.

In ogni caso, l’olio si presterebbe meglio alla realizzazione di un ritratto.

Perché l’acquerello, quindi?

Qualsiasi sia stato il motivo, è probabile che il Guzzone avesse una una tale padronanza di questa tecnica da usarla come se fosse l’olio, cioè facendo venir fuori i volumi, più che le trasparenze.

E qui si può partire col gioco delle presenze e delle assenze, cominciando con un’assenza.

Nell’inventario manca qualsiasi indicazione che ci faccia dedurre quale fosse la posizione del nostro pittore rispetto alle nuove tendenze che andavano affermandosi nel secondo Ottocento, in Italia e soprattutto in Francia. Stando all’elenco, sembrerebbe per lo meno indifferente.

Per capire cosa succedeva in quegli anni, invece, basterebbe accennare all’opera di un maestro, certamente più periferico di Guzzone e più vecchio di cinquant’anni, il napoletano Giacinto Gigante (1806 –1876).

Scopriamo, così, che questi si era posto esattamente ai suoi antipodi, per cui sembrava il più moderno ed europeo, nonostante nel 1890 fosse morto da quattordici anni.

Gigante, al contrario del nostro artista, aveva avuto il tempo, proprio partendo dalla logica dell’acquerello, di instradarsi nel senso che poi i critici consacreranno come giusto.

Le sue scene, infatti, come quelle dei maggiori di quell’epoca, si presentavano immerse dentro intense vibrazioni luminose, cosa che in un certo senso compiva e rovesciava la prospettiva aerea di leonardesca memoria.

Diciamo questo perché l’aria, oltre ad una consistenza fisica, a quel punto acquistava una risonanza sentimentale. Non con gli oggettivi volumi, insomma, veniva restituita la realtà; ma, con le soggettive trasparenze, cioè con le atmosfere.

Per dimostrarlo, basta far riferimento a certe Vedute campane, dato che grazie ad esse:

Con l’olandese Anton Sminck Pitloo, Gigante è considerato il fondatore della Scuola di Posillipo. Di questa scuola, che riprende la tradizione del vedutismo settecentesco, il pittore sarà riconosciuto dalla critica come il principale esponente, per aver saputo trasformare la veduta storico-geografica e panoramica in un’immagine lirica e sentimentale del paesaggio.

Si può, quindi, svolgere un discorso su Giacinto Gigante in parallelo a quello sugli impressionisti sul versante tecnico ed a quello sui post-impressionisti riguardo ai contenuti, poiché “il paesaggio ha per oggetto l’imitazione degli effetti della luce negli spazi dell’aria e sulla superficie della terra e delle acque.”3

Ora, il problema è che una scelta tanto controcorrente da parte di Guzzone non può essere nata dall’ignoranza.

Sappiamo, infatti, che egli operava nell’universale apprezzamento tra Roma, Parigi, Londra, Assisi e Firenze. Perciò, diventa ovvio immaginarlo molto più al corrente delle novità che venivano da fuori.4

Ecco perché i pochi che poi hanno avuto la pazienza di studiarne l’opera hanno finito per scovarle.

Guzzone è stato messo in rapporto coi macchiaioli e con altre scuole pittoriche in cerca di rinnovamento.

Lo confermerebbe, peraltro, un paragone tra lui ed il monrealese Antonino Leto (1844 – 1913), il quale, se da un lato fu molto vicino alla Scuola di Posillipo, tanto da finire i suoi giorni a Capri, dall’altro condivise con Guzzone una devota amicizia con il maestro francese Jean Louis Meissonier (Lione, 1815 – Parigi, 1891), uno dei più autorevoli rappresentanti della pittura pompier francese.

Infatti, riguardo ai rapporti Leto/Meissonier e Guzzone/Meissonier, c’è un piccolo incastro di scritture, che val la pena di riportare.

Cominciamo dallo storico Franco Grasso:

Tra i geni e i non geni c’erano sicuramente, oltre agli amici italiani di passaggio, Morelli e Mancini, De Nittis quando non era a Londra (e vi si recava talora con lo stesso Leto), ma anche artisti e intellettuali francesi attratti dalla colta e vivace conversazione del padrone di casa; e c’era Jean Louis Meissonier, illustre epigono del romanticismo storico, abilissimo esecutore di quadri celebrativi e descrittivi, al seguito di Napoleone III per glorificarne le battaglie, esclusa quella disastrosa di Sedan, dopo la quale tuttavia egli conservò il prestigio di rappresentante della cultura ufficiale borghese di Francia.

A lui però qualcuno attribuiva la colpa di sospingere l’amico siciliano verso l’eleganza, la piacevolezza, la mondanità, insomma nel giro della pittura commerciale.5

E subito dopo passiamo ad un brano del canonico don Mario Ventura, autore di una biografia di Guzzone criticamente inattendibile, come spesso sono i giudizi degli innamorati:

Il suo studio era frequentato e tra molti amici, maestri ed ammiratori si notavano il Messonier (sic!), De Santis (sic!), Ioris, Di Bartolo, De Rossi ed infiniti altri. Lo stesso Messonier, in una sua visita fece notare il progresso del Guzzone agli astanti e corresse di sua mano un quasi inarvertito difetto di ombra sul naso di uno dei due benedettini del trecento, che il Guzzone aveva appena terminato ed aveva intitolato Procedemus.6

Purtroppo, a differenza di quel che fece per Antonino Leto, per Sebastiano Guzzone la critica del tempo non seppe andar oltre gli aspetti commerciali della sua pittura.

Si fermò in modo un po’ riduttivo a rilevarne le galanterie, come si vede in un brano apparso sulla rivista “Capitan Fracassa”, a firma del terribile Uriel, notista che aveva già avuto modo di irritare col suo stile icastico il vate catanese Mario Rapisardi7:

Il Guzzone non si appressa al De Dominici, ma è finissimo anche nell’abbozzo che ha esposto: un interno di Assisi nel quale c’è un vero abuso di savoir faire, di toilette, di chic, condonatemi tutto questo francesume, perché è proprio il caso di riversarlo a proposito dell’acquerello del Guzzone, il non plus ultra dello smaltato, dell’elegante da salotto. Pittura fatta coi guanti, di una civetteria aristocratica, la quale usa il kolkl per le occhiate, il carminio per le labbra e la polvere d’oro per i capelli. Un misto di abilità giapponese e di moineria parigina quanto volete, ma sovente maliardo come un profumo, che dà alla testa pur deliziando.8

Il che fa il paio con ciò che, sempre sul “Capitan Fracassa” ed a firma dello stesso Uriel, si leggeva a proposito di Leto:

Tutto quanto la mente di un artista può immaginare d’allegro e concepire di bizzarro in una stanza che conduce dalla voluttà delle danze all’allegria del convito.”9

Probabilmente, studiandone le frequentazioni culturali e gli esiti figurativi più maturi, scopriremo che Guzzone, invece, fu ben più che un pittore tecnicamente abile. Seppe, per lo meno, apprezzare i maggiori esponenti della pittura francese.

Per dimostrarlo, basta ricordare che fece realizzare due ritratti della moglie dal parigino di Gaspard-Felix Tournachon (Parigi, 1820 – 1910)10, meglio noto con lo speudonimo di Nadar, pittore che ospitò la prima mostra degli impressionisti e fotografo ritrattista di universale fama.

Insomma, sembrerebbe che il nostro artista in parte abbia seguito le idee del suo tempo ed in parte le abbia rifiutate (o non abbia avuto il coraggio di seguirle).

Vedere in che misura sia avvenuto è un ottimo motivo per un’indagine.

Una certezza, però, ce l’abbiamo già da ora: come la quasi totalità degli uomini, egli è stato spesso frainteso, o dai giudizi frettolosi dei colti, o dalla retorica laudativa degli incolti.

L’inventario, perciò, è come la punta d’un iceberg. Bisogna immergersi nell’acqua gelida per esplorarne le forme invisibili. D’altra parte, ho sempre ritenuto che, se gli iceberg sono già interessanti di loro, ancor più interessanti diventano se rapportati al cielo di sopra ed al mare di sotto. L’appena defunto Guzzone aveva vissuto sotto il cielo del suoi tempi ed aveva radicato i sentimenti nella Sicilia nativa.

E la Sicilia, come tutti i luoghi, è un modo di vedere la vita.

2

Francesco Hayez e la novella storica

Ci è arrivato un altro inventario da casa Guzzone, purtroppo incompleto.

Probabilmente, fu redatto dalla stessa mano del primo. E’ l’elenco, ancor più lungo del primo, dei mobili, degli attrezzi da lavoro e dei libri. Lo riportiamo in nota.11

Questo secondo elenco, s’è possibile, ci pare addirittura più interessante del primo.

Innanzitutto, colpisce la collezione di costumi, destinata sicuramente ad abbigliare i modelli per i suoi quadri di ispirazione storica.

Lo sforzo documentativo viene coronato poi con un catalogo di modelli antichi e moderni e con svariate fonti letterarie.

Sappiamo, così, che quello che egli considerava il suo capolavoro, La morte del Petrarca, aveva avuto una complessa gestazione, fatta non soltanto di bozzetti, come si evince dal primo inventario, ma anche di uno studio sulla biografia del poeta.

Lo stesso metodo di lavoro indicano le tante guide dei luoghi ed i preponderandi libri di storia civile e religiosa. In più, gli unici filosofi presenti sono Pascal e Vico, come dire il tormento religioso e la storia.

Oltre ad una sincera fede, quindi, si può ipotizzare che egli dipingesse le sue scene pensandole come storie destinate a commuovere.

Insomma, c’era in lui una certa mentalità letteraria, coi bei colori al posto delle belle parole.

Ciò, fra l’altro, è attestato dai libri di poesia (in prevalenza, bisogna ammetterlo, di gusto scolastico).

O forse, addirittura, c’era una sensibilità melodrammatica, come indicherebbe la collezione di spartiti di opere famose.

Viene, perciò, spontaneo il considerare l’opera di Guzzone come un proseguimento di quella Francesco Hayez (Venezia, 1791 – Milano, 1881), indiscusso punto di riferimento della pittura romantica italana, demolita da un ingeneroso Giulio Carlo Argan, critico che ha dominato la manualistica d’arte degli ultimi trent’anni del XX° secolo. E certamente le riserve che sono state fatte su Guzzone riecheggiano quelle di Argan su Hayez, colpevole di avere:

“…il tipico comportamento dell’intellettuale che, non volendo compromettersi né rimanere neutrale fa cadere dall’alto un riferimento dotto che pochi iniziati raccolgono e che lascia, si capisce, il tempo che trova. E si tradisce: non rivive il fatto storico nel furor del fare pittorico (come Delacroix), ma lo colloca sulla scena teatrale. Fondale, quinte, costumi; illuminazione ben regolata tra fondo e ribalta; distribuzione equilibrata dei personaggi, ciascuno per la sua parte… Tutto è teatro, tutto incredibilmente falso…12

Il particolare di cui non tiene conto il critico, però, è il fatto che la moderna percezione dell’opera lirica è molto lontana da quella ottocentesca.

Direi di più: nell’Ottocento melodramma ed Italia erano due nomi per indicare un’unica, intensa emozione. Come ha scritto Giulio Ferroni, la teatralità, a quel tempo, più che falsa, appariva espressiva:

Dati gli elementi tecnici e spettacolari che concorrono alla costruzione dell’opera in musica, essa presenta inevitabilmente qualcosa di schematico, di ripetitivo, un livello di artificiosità superiore a quello di ogni altra forma artistica: tutto vi appare innaturale, a cominciare dal fatto che i personaggi si incontrano e scontrano cantando, per arrivare agli intrecci, quasi sempre complicati, pieni di assurdi eccessi e di situazioni macchinose. Ma proprio da questa innaturalezza scaturisce la possibilità di esprimere le passioni più assolute e sconvolgenti; e la stessa lingua convenzionale dei melodrammi ottocenteschi, ricca di forme auliche, di modi retorici consunti o banali, riesce a sostenere la forza espressiva del canto assai più di quanto riuscirebbero a fare forme linguistiche troppo tese a una ricerca di originalità.”13

Così, come nel Novecento la pittura espressionistica forzò le forme, certa pittura dell’Ottocento forzò i gesti.

Potrei aggiungere che la cosa si ripetè con quei grandi capolavori di arte figurativa che furono i migliori fotogrammi dei film muti (opere che ancora attendono una seria sistemazione critica).

Quindi, molto più fruttuosa dell’ironia facile, sarebbe l’eterna domanda che ci si deve porre davanti ad un quadro: è adeguata la tecnica ad esprimere l’emozione che ha generato l’ispirazione?

Vista così, la letterarietà (di cui lo stile melodrammatico fu l’estremizzazione) era – e, forse, non poteva essere altrimenti – la caratteristica naturale italiana, anche nella pittura.

Già c’era l’esempio della lingua, che andava forgiandosi sul modello manzoniano.

La passione degli eventi, cioè la storia, poteva appartenere casomai alla rivoluzionaria Francia.

Ecco perché Guzzone curava specialmente la sua tecnica. Era, cioè, prima di tutto un pittore, come Vincenzo Monti era stato prima di tutto un poeta. Questa attenzione alla perfezione figurativa è attestata dalla presenza nella sua biblioteca di manuali di architettura e di anatomia, oltre che dalle guide dei posti e dei musei visitati.

Poi c’era da pensare allo sbocco commerciale di tanto impegno. E questo aspetto del lavoro veniva affrontato con i contatti con gente d’oltremanica, come la presenza di una grammatica e di un dizionario inglese lasciano capire.

Insomma, secondo i canoni del buon imprenditore, egli dipingeva con un occhio alle vendite, il che ne fa una figura esemplare della mentalità borghese del tempo, sulla quale andò formandosi la recente nazione italiana.

E tutto questo non vi sembra che basti per avviare un’indagine sulla sua vita?

3

Caramanico, la massoneria ed i campanili

Sebastiano Guzzone nacque a Militello nel Valle di Noto (secondo la dizione delle delibere dell’epoca), il tredici settembre 1856, nell’ottavario dei festeggiamenti in onore di Maria SS. della Stella.

A quel tempo, tale data non dovette apparire priva d’importanza, visto che lo zio, don Rosario Guzzone, rivestiva l’ufficio di viceparroco della chiesa del SS. Salvatore, ma era schierato con la chiesa della Madonna della Stella, la rivale di sempre.

L’odio fra le due comunità durava da secoli e col tempo alle motivazioni religiose si erano aggiunti gli odi politici e le ambizioni personali.

Tutta la classe dirigente (o aspirante tale) della cittadina, infatti, si appoggiava all’una o all’altra fazione, per comandare o per emergere.

Il più antico scrittore che ne aveva fatto cenno era stato il secentista don Pietro Carrera. Egli aveva narrato che, fino al 1500, l’unica parrocchia funzionante era la chiesa di San Nicolò. Santa Maria della Stella era assunta al grado di parrocchia soltanto sotto don Blasco II Barresi e sotto suo nipote Giovan Battista Barresi.

In conseguenza di ciò s’era aperta fra le due comunità una lotta per la preminenza, che aveva portato ad una “briga grande”, causa di violente “inimicizie”, capaci di indurre seicento famiglie ad andar via.14

Nel 1710, poi, era venuto un tentativo di superare la secolare diatriba, istituendo una Collegiata, che riunisse le due chiese e ripartisse equamente gli incarichi.

Se non che, quando le cose sembravano aver preso la giusta piega, per la delazione di un canonico, certo don Giuseppe Malacrìa, tutto era finito con insulti e bisticci.

La Collegiata, infatti, risultava illegittima, in quanto nata senza previo permesso delle autorità superiori.

Ne erano seguiti fatti incresciosi, il più grave dei quali era stato l’assalto all’arciprete di San Nicolò, don Paolo Sciacca, mentre passava in processione davanti alla chiesa di Santa Maria della Stella, durante la festa del Corpusdomini del 1781.

Il 28 luglio 1787, quando la violenza aveva ormai toccato limiti intollerabili, Ferdinando di Borbone, fatto davvero notabile, dato che passò alla storia come un Re piuttosto amletico, almeno coi numeri da apporre accanto al nome – Ferdinando III di Sicilia, Ferdinando IV di Napoli ed infine, dal 1816, Ferdinando I delle Due Sicilie -.

In verità, l’operazione era stata voluta dal vicerè massonico Caramanico, per appropriarsi dei beni ecclesiastici, improduttivi per il dilagare della manomorta.

Erano state, perciò, soppresse entrambe le parrocchie e si era stabilito che a Militello dovevasi tributare un unico culto al SS. Salvatore, a cui per sede veniva assegnata la chiesa di San Nicolò.

Santa Maria della Stella, invece, aveva visto mutare il suo nome in quello di Immacolata Concezione ed era stata ridotta a semplice cappella privata.15

La soluzione non era risultata ottimale, perché aveva sortito due risultati negativi. I devoti di San Nicolò erano diventati subito devoti del SS. Salvatore, insuperbiti dalla sostanziale vittoria, visto che la loro chiesa era l’unica che continuava a funzionare. I mariani erano rimasti mariani, indispettiti e clandestini.

E proprio quella di parrocchiani clandestini era la condizione di don Rosario e dell’intera famiglia Guzzone, il 13 settembre del 1856.

Perciò, fu probabilmente con qualche lieve fastidio che il piccolo Sebastiano venne battezzato nella chiesa del Salvatore.

La certificazione fu scritta dallo stesso zio:

Il 14 settembre 1856 io reverendo sac. Don Rosario Guzzone cappellano curato di questa Arcipresbiteriale e Chiesa Madre insigne Comunia SS. Salvatore, solo Patrono e Protettore della città di Militello val di Noto ho battezzato un bambino nato ieri alle ore 21 circa da Giuseppe Guzzone e Maria Sangiorgi sposa. Gli fu imposto il nome di Sebastiano. I padrini furono: Nicolò Pillirone fu Giuseppe e di Mariastella Gulinello e la sua consorte Mariastella Sangiorgi fu Sebastiano e di Giuseppa Incardona. In fede.16

Nello stesso giorno si adempirono gli oblighi civili, registrando il neonato al Comune:

Avanti a me Vincenzo Jatrini è stata dichiarata la nascita di un bambino di sesso maschile nato ieri il 13 settembre del 1856 alle ore 21 da Giuseppe Guzzone di anni 32 e da Maria Sangiorgi, domiciliata a Militello. Gli hanno imposto il nome di Sebastiano.17

Fortunatamente per il buon don Rosario, però, la condizione di parrocchianoclandestino non era destinata a perdurare fino alla fine della sua vita.

E’ stato trovato un intero carteggio che attesta il suo fruttuoso impegno per la riapertura della parrocchia di Santa Maria della Stella.

Di conseguenza, egli fu cooperatore nella Chiesa Madre SS. Salvatore soltanto fino al 1874.

Poi, finalmente, con immaginabile gioia:

Divenne vice Parroco della riaperta parrocchia di S. Maria, per il cui ripristino spese non poco del suo patrimonio.18

Questo perché, subito dopo il tre agosto 1875, non restava senza positiva risposta la delibera della Giunta Municipale, dove si scriveva che:

Essendo legalmente costituita l’adunanza il sig. Presidente dichiara aperta la seduta ed espone ai congregati che Militello fin da tempi remotissimi aveva dedicato il suo culto alla Vergine sotto il titolo della Stella che si aveva prescelto ad unica principale patrona. Questo stato di cose durava fino al 1788 quando con atto arbitrario ed illegale e sottoindicati pretesti, spenta la Parrocchia della chiesa di Santa Maria e con essa il titolo della Stella, si impose il novello titolo di Concezione.

I devoti di questa chiesa in tutti i tempi hanno tentato rivendicare i dritti che le furon tolti epperò il cessato governo borbonico conseguente all’atto di soppressione facea orecchie da mercante, e solo nel 1848, temporaneamente si vede la chiesa nell’esercizio dei dritti parrocchiali, senonché la restaurazione borbonica tornava ad estinguere tutto ciò che in Sicilia nell’epoca del rivolgimento politico si era attuato.

La riscossa del 1860 portava Garibaldi Dittatore in Sicilia e un di lui Decreto faceva ritornare lo stato delle cose tale quale si trovava nel 1848. Potevano questi cittadini usufruire di quella disposizione e ripristinare senz’altro la parrocchialità della chiesa, ma consigliati di prudenza se ne astennero aspettando che tempi migliori sarebbero venuti a dar loro ragione, e certo non s’ingannarono, dacché i rettori della chiesa spinsero regolare domanda di ripristinazione dinanzi la Sacra Congregazione del Concilio, la quale con due rescritti uniformi, uno del 22 Agosto 1874 e l’altro del 26 Giugno decorso dichiararono la esistenza della Parrocchia di Santa Maria della Stella a mente del deliberato del 1715.

E a conoscenza di tutti… quei rescritti siano in via di esecuzione tanto per la parte chiesastica quanto per la parte civile per cui questo Municipio con apposito deliberato domanda al Governo che fosse imbastito l’exequatur Regio ai rescritti in parola per gli effetti civili.

Ciò posto sembra all’esponente che sia ben giusto essendo la Chiesa ripristinata in tutte le giurisdizioni e prerogative anteriori alla soppressione domandare regolarmente ed in via gerarchica che Maria SS.ma della Stella fosse dichiarata com’era unica principale Patrona di questa Città di Militello…19

Il nuovo incarico mise il prete nel cuore degli affari e del potere cittadino. La chiesa del SS. Salvatore era stata una roccaforte borbonica, così come all’ombra del campanile di Santa Maria della Stella aveva congiurato la borghesia carbonara.

Ora, non sappiamo fino a che punto ciò fu effetto del Risorgimento; ma, al contrario di quanto dice la vulgata nata da una cattiva interpretazione del romanzo di Tomasi di Lampedusa, non è vero che si cambiò tutto per non cambiare niente.

La gestione degli affari pubblici passò ai professionisti, magari vincitori di un concorso; venne fuori l’Italia – o, se volete, l’Italietta – degli avvocati, dei medici, dei professori, dei funzionari.

Anche il denaro si adattò ai tempi nuovi, passando dalle mani di aristocratici fannulloni a quelle più attente dei commercianti e dei massari.

E, nonostante l’abito talare, a quest’ultima categoria apparteneva proprio don Rosario.

4

I potenti siciliani: preti, professionisti e massari

La casa in cui Sebastiano Guzzone vide la luce era posta nel quartiere di Sant’Antonio Abbate, in un luogo più specificatamente denominato Tre punti. Si presentava con un grande portone che immetteva nell’ampia stalla a pianterreno. Al suo fianco sinistro stava un bel sedile in pietra e l’entrata che dava sulle scale per salire ai piani superiori, contornata dall’immancabile vite rampicante (a vitusa, come la chiamano i militellesi).

Era questa la tipologia architettonica comune nelle abitazioni dei massari benestanti; e, probabilmente, l’estrazione sociale degli inquilini veniva ribadita dalla stessa collocazione dell’edificio, posto tra il popolare quartiere di San Pietro e gli assi viari su cui si affacciavano i palazzi nobiliari (le attuali via Porta della Terra, via Baldanza e via Umberto I).

Tutt’intorno, da un lato c’era un susseguirsi di ballatoi – i baddraturi –, dove sedevano le comari a sferruzzare ed a spettegolare; dall’altro, partiva la serie di balconi dalle inferriate panciute e dalle mensole – i cagnoli – antropomorfe, da dove i vossia localisi affacciavano a godersi feste e processioni.

La famiglia Guzzone si trovava a metà strada tra ballatoi e balconi.

O, meglio, era una famiglia che progrediva col progredire dei tempi.

Ne era l’anima don Rosario Guzzone, che, come s’è detto, era un uomo di Dio, ma nella cui anima le rarefatte arie della religione si appesantivano nelle concretissime transazioni economiche.

Si sono trovati due suoi voluminosi carteggi, uno con gli appunti delle prediche domenicali ed uno fatto di atti notarili, di ricevute di pagamento, di trattative per un vantagioso matrimonio.

Prendo a caso una carta. Decine e decine di altre sono praticamente uguali, per cui il suo contenuto ha un valore generaliter. La trascrivo perché ha il pregio di restituirci la mentalità dell’epoca.

L’anno è il 1878:

Io sottoscritto domino diretto dei lenzi enfiteutici dello exfeudo Rasinech acquistato dal Barone Filippo Paoli di Scordia per atto rogato notaro Attard il giorno 14 Settembre 1873 qui reg.° al N.° 730 li 24 detto, ricevo dal Sac. Vice Parroco don Rosario Guzzone e Vincenzo Cuttone tarì diciotto e grana uno pari lire sette e centesimi sessantasette, compresa la rata di donna Giuseppa Guglielmi, vedova Basso La Bianca dovuti sopra fondo in detto ex feudo, contrada Francello, Forbice e Piano della Paglia, maturata in Agosto ultimo 18settantasette, ed a saldo del passato, onde dico O. 18.1

Matteo Basso20

Ancora, questa volta nel 1895, carità cristiana ed interessi economici creano una relazione tra don Rosario e due monache.

Qui il denaro non è, come si dice, lo sterco del diavolo. Il denaro, sicilianamente, è un inodore lascito di Dio:

Noi sottoscritte nella qualità di eredi della nostra consorella Suor Arcangela Campisi riceviamo dal Rev. Viceparroco D. Rosario Guzzone e di lui nipote don Salvatore lire centosessantasei e centesimi sessantacinque in base alla scritta privata del sedici luglio 1894 in forma di transazione, e per la prima rata scaduta nel mese dicembre scorso, e per loro cautela confermiamo come sopra L 166.65.

Militello li tre Marzo 1895.

Suor Zenobia Greco

x Lucia Frazzetto21

Vedremo più avanti che Salvatore Guzzone era tutt’altro che pio, quando si trattava di difendere le sue proprietà.

Ma, le monache, evidentemente, dovevano interessare molto il nostro don Rosario. Esse avevano e davano guadagno. Bisognava coltivarne l’amicizia. Prima o poi, la cosa tornava utile, come si vede in una lettera di suor Benedetta Modica, superiora delle Monache del Collegio di Santa Maria della Carità di Scordia:

Le sottoscritte monache pregano l’Ordinario di Caltagirone di voler concedere la direzione di Padre spirituale al degno Sac. Don Rosario Guzzone di Militello, mancando in questo comune un numero sufficiente di sacerdoti. Il detto gode buona fama ed è molto noto anche a Scordia.

Scordia, 12 gennaio 1870.”22

In tanto maneggio, quindi, crebbe la fortuna del casato. Dalla categoria dei massari i Guzzone finirono per passare a quella dei proprietari.

In data 22 maggio 1883, infatti, venne redatto un atto di compravendita ad uso interno della famiglia:

Fra il Signor Sacerdote Rosario Guzzone e i signori Salvatore, Sebastiano Guzzone e la loro genitrice” presso il “Notar Salvatore Marletta Castorina Residente nel Capo Provincia Capo Distretto CATANIA con l’Ufficio in via Garibaldi casa propria 2° piano N. 325, 327 e 329 (…) Da una parte il Sacerdote Padre Rosario Guzzone del fu Sebastiano, proprietario, nato e domiciliato in Militello oggi qui ritrovatosi. E dall’altra parte la Signora Maria San Giorgi del fu Sebastiano,, vedova del fu Giuseppe Guzzone, proprietaria nata e domiciliata nello Comune di Militello anche qui oggi ritrovatasi. Il Signor Salvatore Guzzone figlio del detto fu Giuseppe, possidente anche nato e domiciliato in Militello ad oggi qui ritrovatosi il quale interviene a quest’atto tanto nel nome proprio che quale procuratore speciale, espressamente nominato al di lui fratello Sebastiano Guzzone Pittore, residente in Roma…”23

Anche il nostro pittore, quindi, smentendo il luogo comune che vuole l’artista con la testa fra le nuvole, qui dimostrerebbe che si prestava a qualche piccolo raggiro per salvare la roba. Il fatto che don Rosario vendesse ai parenti le proprietà era un modo per salvarle dai suoi creditori e dal fisco. Vedremo più avanti, infatti, che in quegli anni la famiglia ebbe parecchi grattacapi economici.

E una conferma di questa situazione ci viene da un’altra lettera del 1882, di Sebastiano a Salvatore, dove si evince che in quanto a risparmio (per esempio, sulle spese mediche), a difesa degli interessi ed a fiducia verso il prossimo, lui ed i familiari avevano posizioni identiche:

Caro fratello.

Ho ricevuto ieri una lettera scritta da Mariastella e dallo zio.

Riguardo al male che soffre il caro cugino Mario Cuttone sono dolentissimo. Qui in Assisi non posso avere buone informazioni, perché un piccolo paese e dove i medici sono del valore di quelli del nostro paese: ma questi giorni di pasqua che dovrò essere un poco di giorni a Roma mi informerò con qualche buon medico, intanto pregate a Pippino che mi scrivesse tutti i particolari della malattia, che si faccia scrivere una relazione particolareggiata, che dalla parte ove trovasi il cancro; così mi potranno i medici dire qualche cosa. Lo Zio me lo scrisse più volte tempo addietro e difatti io, la metà del mese di Novembre scorso, che mi trovavo, pei miei affari, in Parigi; ne parlai di questo male ad un medico, ma non sapeva darmene un giudizio, prima di tutto perché non poteva vedere il malato, secondariamente perché, facendogli leggere la lettera dello zio, vi erano due o tre notizie che non bastavano a niente.

Sento quanto mi hai scritto del denaro dato a Capuana, a Scirè e per il catasto e per la vigna. Vorrei avere ancora tue notizie di quello che fai in campagna. Intanto ti acchiudo un regolamento sulla amministrazione della nostra famiglia; che tu, d’accordo collo Zio, colla Mamma e con Maristella, ve la leggerete e farete quanto vi è scritto, per bene di tutta la famiglia. Voglio che quanto vi sta scritto in esso regolamento lo approviate scrupolosamente, e lo metterete in opera appena vi giungerà, con questa lettera. Perciò ti prego a rispondermi subito. Io sono buono, come spero di voi.

Sebastiano Guzzone

Dicci allo Zio che mi scrivesse come va quel denaro speso per la chiesa gli è stato riconosciuto dal governo? Prende i fruttati? Bisogna che me ne scriva precisamente.

Regolamento sulla amministrazione di nostra famiglia

Una cassetta tenuta in comune, tra lo Zio, la Mamma, Tutù e Maristella, con due chiavi differenti una alla altra. Una la tenga lo zio, un’altra la tenga la Mamma, Tutù e Maristella. Questa cassetta non può essere, naturalmente, aperta, che col consenso di tutti quattro di famiglia.

Vi si devono depositare tutti i denari della casa. Tutti i denari che provengono dalle campagne. I denari che vengono dallo stipendio dello Zio, e da altri suoi proventi. I denari che vengono dai fruttati, del denaro speso per la chiesa. I denari che possonsi riscuotere prestati dallo Zio ad altri.

Il denaro di questa cassa deve servire unicamente per i bisogni di casa nostra, e guai se non si usa per la sola casa nostra! Servirà a pagare i frutti del denaro che lo Zio ha preso in prestito. Servirà anche a poco a poco a pagare il capitale. Servirà a pagare le tasse. Servirà alla coltivazione e alla bonifica delle campagne.

Tutto quello che s’incassa, deve essere notato indispensabilmente in un apposito registro, che deve tenere assolutamente la Mamma.

Vi si deve notare: incassato tanto: per tale vendita o tal’altra cosa: il giorno tale, il mese e l’anno: dalla persona tale per questo o per quell’altro oggetto. Viceversa, vi si deve notare speso tanto per questa o per quell’altra cosa.

Il denaro da questa cassa comune non deve essere preso che col consenso della Mamma, dello Zio, di Tutù e Maristella. Per le spese straordinarie e di rilevanza, oltre ad esservi il consenso di tutti voi, deve esservi il consenso mio assolutamente.

Per la Chiesa voglio che non si deve spendere assolutamente un centesimo.24

Ovviamente, tale atteggiamento non era una caratteristica esclusiva dei Guzzone. Anzi, rappresentava la mentalità imperante nella provincia siciliana dell’epoca. Famiglia e proprietà sono state due deità che hanno ispirato molti romanzi ambientati nell’Ottocento.

Insomma, in quegli anni anche l’Evangelo era diventato borghese!

E questo, forse più della letteratura, questo ce lo fa capire la corrispondenza della gente spicciola. Non sarebbe male uno studio su questo genere di scrittura allora tanto praticato.

Per adesso, mi accontento di riportatare un’esemplare pagina di un Gaetano Modica di Scordia – parente di suor Benedetta, già amica di don Rosario – pervenuta proprio a don Rosario.

Lì vedremo che il peggior delitto di un iniquo sig. Cristofaro era stato quello di avere dato via il patrimonio:

Scordia, 17/1/1870

Carissimo Amico

Con grande piacere ho ricevuto la vostra seconda lettera del giorno 16 stante e credetemi che soffro nello scorgervi in dissidio con questo santo cristiano, che in tutte le sue intraprese comincia bene e finisce male.

Non dimenticate il nostro detto volgare, ma figlio della più assennata esperienza: chi ha più sale condisce la minestra.

E poi, caro il mio amico, la pace si compra.

Voi avete tutta la ragione e se qualche disaccorto si fosse regolato con maggiore garbatezza, son sicuro che voi gli avreste ben volentieri accordato il vostro favore.

Ma che volete, io disapprovo i litigi, molto più con gente tale, e vi replico che la pace si compra, e non sono che pochi mesi che ho sacrificato circa onze 400, con questo ingrato, iniquo sig. Cristofaro. Ma ho comprato la pace.

Il Signore mi renderà ciò che mi si ha fatto perdere. Né tralascio raccomandare alla sua clemenza questo sciagurato, che con un patrimonio sì vasto è pieno di debiti. Iddio lo perdoni!

E voi che siete tanto saggio e prudente son sicuro che perdonerete questo spirito falso.

In tutti i casi io son per voi.

Intorno alla mia diletta Eloisa, che posso dirvi? Due anni sono passati e sta da una signora di A. e non volle accondiscendere, l’anno scorso si dimandò da un ricco negiziante di Catania, e si turbò abbastanza.

Adesso che voi mi dite esservi un giovane civile, assennato e di molta convenienza, io, all’uopo, ne farò nuove e fervide inchieste e se il Signore lo permetterà, s’inizierà lo affare.

Intorno a interessi, voi non ignorate gli esiti della mia famiglia, della quale mi onoro, sperando che i miei amati figli proseguissero sempre nella loro sì bene incominciata carriera, che saranno la gloria maggiore della mia casa, ed è perciò che prontamente non le assegnerò più di onze 60 all’anno, oltre il convenevolissimo corredo.

Voi non ignorate la mia posizione, e conoscete quanto vi ho sempre ripetuto, che l’unica mia diletta figlia, sarà non solo non posposta ai suoi fratelli, ma piuttosto avvantaggiata, ma replico prontamente però in quel modo.

Vi ringrazio sempre della vostra cortesia, e della buona opinione che nutrite per la mia Eloisa. Da canto mio però benedico i miei sacrifici nel farle apprendere tutte le virtù cristiane e donnesche, non esclusa la musica nella quale è tanto progredita. Io la bramo felice, e lo merita, ed il Signore mi auguro esaudisca i miei giusti voti.

E caramente salutandovi, vi prego nuovamente riflettere al vostro affare con (…), vi consiglio aspettare e perdonare e credetemi il vero vostro amico

Gaetano Modica25

Come si vede, siamo nello stesso ambiente di Mastro don Gesualdo e come Gesualdo Motta i Guzzone erano diventati proprietari partendo da condizioni umili.

Ancora in un atto del 26 maggio 1829, infatti, il nonno del nostro Sebastiano (e padre di don Rosario) veniva citato come “Massaro Sebastiano Guzzone Ingulame, campagnolo.26

Non desta meraviglia, dunque, un carteggio in cui si rispecchiano i pensieri del secolo.27

Secondo la tradizione dell’ambiente, don Rosario considerava un affare pure il matrimonio e probabilmente suo fratello Giuseppe aveva sposato Maria Sangiorgi per interesse.

Quest’ultima, infatti, doveva essere un partito molto apprezzato, se l’albero genealogico di Sebastiano Guzzone, trovato fra le carte di famiglia, fu costruito sulle ascendenze materne. Lo diamo, quindi, per accondiscendenza alle piccole vanità delle famiglie ottocentesche:

Giuseppe Medulla, l’8/5/1645, sposa Antonia La Russa.

Dai due nasce Antonio Medulla, che, l’ 8/4/1665, sposa Stella Maria Barone (nata da Vito Barone e Caterina La Russa).

Nasce Bartolomea Medulla, che, il 18/8/1709, sposa Giuseppe Mancuso.

Nasce Antonia Mancuso, che nel 1735 sposa Domenico Vitali.

Nasce Gaetano Vitali, che nel 1742 sposa Alfia Gulinello.

Nasce Palma Vitali che nel 1794 sposa Leone Incardona.

Nasce Giuseppa Incardona che nel 1828 sposa Sebastiano Sangiorgi.

Nasce Maria Sangiorgi che nel 1855 sposa (celebrante don Rosario Guzzone) Giuseppe Guzzone (nato da Sebastiano e Giuseppa Placenti).

Nel 1856 nasce Sebastiano Guzzone.28

Oltre a Sebastiano, nacquero poi Salvatore e Mariastella, i quali furono i veri continuatori della politica da formiche di don Rosario, per la morte prematura del fratello maggiore.

Lo furono a tal punto che nel 1893 andarono in lite per questioni ereditarie con donna Gaetanina Baldanza, vedova di Sebastiano.

E questa volta i discendenti dell’antico massaro erano ormai diventati possidenti:

“(…) Baldanza Reina Gaetanina di Vincenzo, possidente () contro Guzzone Mariastella e Salvatore fu Giuseppe, sorella e fratello, possidenti ()”29

5

La sicilia dei notabili: Salvatore Majorana Calatabiano

Al momento in cui Sebastiano Guzzone veniva alla luce, cioè ancor sotto il dominio borbonico, a Militello e nell’intera Sicilia c’era stato – ed era in corso, come si è potuto già intuire – tutto un ribollire di cambiamenti politici e sociali.

Capiamo che quest’idea non può dirsi universalmente condivisa, perché disgraziatamente parliamo di anni mal studiati.

Fa eccezione Francesco Renda, del quale un passaggio ci sembra illuminante:

Il Mezzogiorno borbonico ottocentesco si differenzia in modo sostanziale dal Mezzogiorno borbonico settecentesco. In questo ultimo, i regni di Napoli e di Sicilia sono uniti e convivono utilmente per oltre settant’anni sotto re Carlo III e sotto il di lui figlio Ferdinando III. In quello ottocentesco, Napoli e Sicilia sono, invece, in perenne conflittualità, fino al reciproco annientamento.”30

In un contesto simile, quindi, sul Regno delle Due Sicilie avevano furoreggiato numerose tormente politiche, prima con Ferdinando; poi, con Francesco I, dal 1825 al 1830; ed, infine con Ferdinando II (tenendo conto del fatto che l’ultimo Borbone, Francesco II, fu Re per un tempo troppo breve).

Durante questi perturbamenti c’erano state istanze costituzionaliste avanzate – da parte degli uomini più progressisti – e, per paradosso, le istanze autonomiste erano venute dal baronaggio – postosi in difesa di privilegi che mal si conciliavano con i concetti centralistici affermatisi dopo la Rivoluzione francese -.

Proprio a Militello, fra i progressisti aveva spiccato la figura di Vincenzo Natale (Militello, 1781 – 1855), che dal ’12 al ’14 era stato segretario nel parlamento siciliano e dal ’20 al ’21 in quello di Napoli.

Egli aveva, inoltre, espletato il mandato di deputato nella Palermo del ’48 ed aveva diretto il giornale “L’Osservatore”.

Nei suoi discorsi parlamentari il Natale era stato, ovviamente, pugnace combattente nella lotta filo-centralistica:

Quale sarebbe la causa di tanta miseria, di tanta desolazione, se non è in massima parte questo mostro della feudalità? I baroni di Sicilia hanno formato fra di loro dai più remoti tempi una lega infernale. Essi, nuotando sempre nelle dovizie e nel lusso, si sono resi immuni dai pesi pubblici. I proprietari, che sono essi, non pagarono mai alcun dazio; tutte le imposte sono sempre ivi gravitate sopra generi di consumazione, sopra la bocca del povero (…) I baroni di Sicilia rassomigliano perfettamente ai di lei antichi tiranni, dei quali non vi erano sulla terra tiranni più atroci, più sospettosi, più intrapendenti e sottili, come porta l’acume nazionale, a trovare dei ripieghi a loro favore.”31

Dalla stessa famiglia politica del Natale era sorto poi l’astro di Salvatore Majorana Calatabiano (Militello, 1825 – Roma, 1897), che:

Attivo nella rivoluzione del 1848, partecipò alla redazione di periodici, principalmente all’”Unione italiana”. Dopo l’esperienza rivoluzionaria si ritirò a Militello. Nel 1850 si laureò in giurisprudenza a Catania. In questo periodo tenne un insegnamento privato di scienze sociali ed in seguito l’avvocatura. (…) Nel 1860 venne nominato delegato dalla Dittatura a Militello e successivamente ispettore provinciale provveditore agli studi. Nel 1865 vinse il concorso a professore di economia politica nell’ateneo di Messina, ufficio da cui si dimise per l’elezione alla Camera nel 1866. Fu deputato ininterrottamente fino al 1879. Nel marzo 1876 venne chiamato da Agostino Depretis a ricoprire il Ministero dell’Agricoltura, industria e commerico, incarico retto fino al dicembre 1877, quando il ministero venne soppresso. Il Ministero fu nuovamente ricostruito nel 1878 ed affidato da Depretis nuovamente al Majorana, che lo resse fino al 1879. In quell’anno Salvatore venne nominato senatore.32

Alla carriera politica va aggiunto il suo ruolo di intellettuale.

Infatti:

Nel settembre 1874 per iniziativa di un gruppo di uomini di Destra, soprattutto toscani, tra i quali Peruzzi, Ricasoli, Cambray-Digny, Bastogi, Busacca, Torrigiani, e di un gruppo di aderenti alla Sinistra, soprattutto meridionali, tra i quali Ferrara, Majorana-Calatabiano, Magliani, Mancini, fu fondata a Firenze la Società Adamo Smith, che si propose “di promuovere, sviluppare, propagare e difendere la dottrina delle libertà economiche, quali furono intese dal suo precipuo fondatore, Adamo Smith, poi svolte ed applicate dagli economisti e da’ governi che l’hanno adottata.” La Società ebbe come organo il settimanale fiorentino “L’Economista”.33

In una personalità tanto ricca, perciò, la famiglia Guzzone non poteva non cercare amicizia e protezione.

Cominciò don Rosario, che:

Si avvalse delle sue amicizie dentro e fuori la Sicilia e specialmente di quella del senatore don Salvatore Majorana Calatabiano, col quale era in intima corrispondenza, sebbene di idee politiche contrarie, e coi fratelli Blandini, Vescovi di Noto e di Agrigento.34

Le frequentazioni con Salvatore Majorana Calatabiano tornarono utili soprattutto dopo un avvenimento delittuoso del 1882 – oggi, però, si chiamerebbe eccesso di legittima difesa –, di cui fu protagonista il fratello di Sebastiano, Salvatore (Tutù).

Il fatto lo si apprende da una lettera dello stesso pittore:

Carissimo zio.

Ieri mattina 25, ricevei in Assisi la sua lettera raccomandata e subito di là le risposi con telegramma. Intanto partii d’Assisi ieri a mezzogiorno e ieri sera stavo a Roma. Appena arrivato, ieri sera stesso fui a consultare il Senatore Majorana per questo affare. Egli mi à risposto in prima di tutto di domandare adesso stesso la libertà provvisoria, che l’accordano, visto che lo stato dei feriti non è pericoloso, né grave: quindi domandatela subito. Secondariamente mi consigliava in questo intervallo, avante ottenere la libertà provvisoria tenetelo occulto, in Militello; senz’esser necessario che vada fuori di paese.

Avuta questa libertà provvisoria potrà partire, e sarà allora interogato dal Giudice. Quel che Tutù dovrà dire al giudice sarà, che trovate queste persone che rubavano da noi e che volevano ammazzarlo, per propria difesa gli sparò, come mi scrisse lei nella prima lettera. Non è necessario che io venga, me lo ha detto pure il Senatore, né che lo mandiate fuori; tenetelo occulto in Militello.

L’altro giorno ho spedito d’Assisi una lettera raccomandata con L: 50; ora ve ne spedisco altre L: 40, ma a giorni vi manderò qualche somma, che devo ricevere tra giorni da fuori.

Scrivetemi sempre a Roma, sinché ve lo dirò io.

Non scrivo altro perché temo che parta la posta. Scrivetemi subito.

Io sono buono.

Le bacio la mano unitamente alla mamma.

Vostro… (illegibile)

Sebastiano Guzzone35

Pare che poi la storia sia finita tutto sommato bene, se si eccettua qualche doloroso esborso di denaro e la cappa di ansia che gravò sul nostro artista e sull’intera famiglia. Sul decorso della vicenda ho ancora ritrovato un appunto fra le carte di famiglia, che purtroppo non si sa da chi è stato scritto:

Il processo di Guzzone fu inviato alla sezione di (illeggibile), ma non si è spedito mandato di cattura. Potrà spedirlo la Corte. Io non gliene ho scritto perché altra volta vide qui il S. Guzzone il quale non mi disse nulla e perciò credo avesse adebito altri. Oggi ne ho preso conto dallo Istruttore e mi affretto a rispondere da Tribunale.36

Tante preoccupazioni pratiche si riverberarono sull’attività e sugli esiti pittorici di Sebastiano Guzzone.

Sospettiamo che, per una buona metà degli anni Ottanta del secolo, l’amicizia con Majorana gli fece prediligere determinati soggetti, più consoni all’autocelebrazione della nuova classe dirigente post-unitaria, che all’espressione di sentimenti individuali.

Con questi temi, oltre ad introdursi negli ambienti che contavano, egli dipinse tenendo ben presente le vendite, cioè con la mentalità del borghese, anche se fu un borghese siciliano, cioè con la personalità politicamente duttile e pronta a trar profitto dalle occasioni.

Proprio a causa di tanto senso della concretezza, nell’isola mancò – e manca ancora – il gusto del rischio imprenditoriale, per cui l’interesse per il Guzzone di questi anni va al di là della mera valutazione estetica.

Sono secoli che con la storia i siciliani giocano di rimessa.

I siciliani giocarono di rimessa anche nel 1860, quando un quatrenne Sebastiano li vide applaudire le truppe garibaldine che entravano a Militello.

In testa c’era il Consiglio Civico della città, prontamente riunitosi per un Indirizzo di adesione:

L’anno 1860 il giorno due luglio in Militello.

Riunitosi il Consiglio Civico di questo Comune dietro avviso affisso nei luoghi pubblici, e dietro suono della campana maggiore di questa Chiesa Madre, il Presidente trovato legale il numero ha aperto la seduta.

Ed ha invitato il Consiglio ad eliggere (sic) il Segretario, quindi a votazione fatta a schede segrete dietro lo squittinio (sic) dei signori Dr. D. Salvatore Capuana e D. Giovanni Consolo eletti all’uopo, sono risultati per Segretario del Consiglio Civico il sig. D. Salvatore Majorana Zaffarana, e per Vice Segretario il Sacerdote D. Sebastiano Grillo, con la maggioranza dei voti risultati dallo squittinio.

Ciò posto, il Presidente del Consiglio Dr. D. Vincenzo Vecchio assistito dalla presenza del prenominato Segretario Dr. D. Salvatore Majorana Zaffarana ha proposto.

Il Consiglio ad unanimità ha deliberato di eliggere una commissione di quattro individui dei seguenti consiglieri:

Parroco D. Francesco Caltabiano

Canonico D. Giovanni Platania

Dr. D. Arcangelo Le Favi

Dr. D. Giuseppe Baldanza

Ad oggetto di occuparsi della redazione di detto indirizzo, e presentarlo al Consiglio nella tornata immediata.

Il Presidente

Vincenzo Vecchio

I Consiglieri

Arcangelo Le Favi

Vincenzo Iatrini

Francesco Dr. Lagona

Giuseppe Montalto

Giovanni Consolo

Salvatore Majorana Zaffarana Segretario37

6

Stampe ed arte popolare nella “Firenze del Val di Noto”38

Nella città in cui nacque Guzzone la lunga diatriba campanilistica, almeno, aveva portato il beneficio di moltiplicare per due gli orgogli e la ricerca di prestigio. Da qui la presenza nelle chiese (e nei conventi) di molti manufatti artistici, per cui, già a partire dal Rinascimento, Militello si era posta come una piccola Firenze.

Non ci sembra inutile, perciò, fare una veloce carrellata su quelle che furono le prime conoscenze figurative del nostro artista. Non furono pochi, infatti, i loro riverberi, almeno nelle opere giovanili.

Nei suoi quadri Guzzone ebbe una sua caratteristica grazia (penso, per esempio, a Pastorello malato), di certo ricordandosi del portale di Santa Maria la Vetere e della Natività di Andrea Della Robbia; la sua pulizia chiaroscurale, figlia di un alto magistero tecnico, non sarebbe dispiaciuta a Filippo Paladini; la rigorosa impaginazione lo riportava a Sebastiano Conca e, perché no?… anche ai minori Olivio Sozzi e Vito D’Anna.

Fin quasi alla fine della sua vita, cioè fino al 1889, se si guardano i taccuini, anche quando Sebastiano Guzzone ormai operava en plein air, secondo i nuovi canoni artistici, molto più che ai misteri della natura, fu sensibile alle suggestioni della letteratura verista.

Per questo, raffigurò i sentimenti dell’uomo anche nei soggetti religiosi. Lo incantavano le situazioni e, soprattutto, i grandi spazi architettonici.

Persino con la delicata tecnica all’acquerello, come si vede in uno straordinario Cortile di palazzo Spada, volle rendere la solennità delle colonne e la solidità dei cornicioni.

In fondo, il suo essere siciliano si concretizzava nell’amore per le pietre. O, forse, semplicemente, così manifestava il suo essere militellese, cioè della Sicilia interna, dove in fin dei conti la storia è il ricordo della transitorietà dei poteri.

Per mille singolari congiunture, nell’isola la proprietà terriera era l’àncora del lavoro contro i capricci del mare – cioè, dei commerci e delle imprese -.

Lì, come abbiamo già scritto, la storia raccomandava prioritariamente la prudenza, specialmente sul versante degli interessi economici.

Non c’è meraviglia, quindi, se negli anni di maggiore produzione nelle lettere del pittore si parlava pochissimo di emozioni estetiche, mentre un grande spazio era dedicato al racconto dei successi e soprattutto alla oculatezza delle spese:

Carissimo fratello.

Ti acchiudo lire 50, coi quali comincerai a piantare la vigna come di presenza convenimmo; ti raccomando impiegarle esclusivamente per piantare la vigna, ed a nessuno altro qualsiasi affare. Quando puoi mi comincerai a dire qualche cosa di questi lavori di pianto della vigna di Forbice; queste L. 50 quando le avrai impiegate a tale spesa, me lo avviserai, che vedrò di mandartene altre, basta che quando io verrò in Militello nella estate, a Dio piacendo, vegga tutto piantato il terreno di Forbice.

Ti abbraccio di cuore, non che alla sorella, e bacia le mani alla Mamma ed allo Zio. Io sono buono. Mi scriverai quando avrai ricevuto questa lettera.

Consegnerai la qui acchiusa lettera al cugino Angelo o Peppino, e gliela metterai nell’envelop.

Tuo aff.mo fratello

Sebastiano Guzzone39

In ciò, naturalmente, la famiglia lo capiva perfettamente. E lo capiva anche la città.

Nel periodo immediatamente precedente la sua nascita, quando imperversò il riformismo illuministeggiante, c’erano stati soprattutto progetti di pubblica utilità, realizzati a vantaggio di quella borghesia così bene esemplificata da don Rosario e parenti.

Non si era elevata, perciò, la poesia dei palazzi baronali, ma si era distesa la prosa di acqua, luce, strade ed orologi.

Questo, ovviamente, fino alla soglia degli Anni Quaranta, cioè fino a quando le fibrillazioni rivoluzionarie, che erano culminate nel ’48, avevano avvelenato i rapporti tra governanti e governati.

Pare, comunque, che il primo ad accorgersi della predisposizione al disegno del piccolo Sebastiano sia stato il suo maestro elementare, come racconta don Mario Ventura:

Un aneddoto interesante da ricordare, e che fece conoscere appieno come il Guzzone avesse sin da piccolo il bernoccolo del disegno, fu tramandato dalla bottega del (…) Sinatra.

Il Guzzone frequentava la quinta classe elemetare sotto il maestro don Paolo Medulla, Sacerdote e pedagogo rigoroso. Un giorno, dopo aver terminato il compito di italiano, il piccolo Guzzone guardava attentamente i lineamenti dell’insegnante e lo disegnò seduto nella cattedra, quando meglio potè farlo in quella tenera età. Il disegno piacque molto al Medulla, che avendolo mostrato a don Rosario, lo invogliò ad inviarlo senza mettere tempo a Roma, togliendo così ogni dubbio dalla sicura riuscita del giovanetto.40

In verità, don Rosario, prima di decidersi al gran passo di mandarlo a Roma, volle affidare il nipote agli incisori di immagini sacre Salvatore Grande e Francesco Sinatra, cosa che non fu senza conseguenze.

Dell’ultimo, purtroppo (ammesso che non si tratti di uno dei tanti svarioni in cui è incorso don Mario Ventura), non siamo riuscito ad avere alcuna informazione. Un po’ più fortunata, invece, è stata la ricerca di notizie sul primo, dato che, in una mostra del 1986 sulle Immagini devote di Militello nei secoli XVIII e XIX, tenutasi nel militellese Museo “San Nicolò”, è stato esposta una stampa da clichet di legno attribuibile a lui:

“…La tecnica era già presente in paese e locali possono essere anche altri clichets, quale quello di grande finezza con il SS. Salvatore attribuito tradizionalmente a Salvatore Grande, di cognome non tipicamente militellese, la cui firma, non segnata sul clichet, è però presente in una stampa da questo tirata.41

In ogni caso, nell’Ottocento a Militello (e nella provincia siciliana), se si eccentua l’opera di qualche decoratore, quella delle stampe era la principale attività figurativa quasi colta.

Su di essa, perciò, il giovanissimo pittore dovette inizialmente costruire il suo ideale bagaglio di immagini. Non a caso:

Le stampe di artefici oscuri ci sanno dire ciò che niun rame del Raimondi e del Mantegna sarebbe in grado di rivelarci; esse sono state appese per secoli alle nude pareti delle officine urbane, delle rustiche capanne; e degli operai e dei contadini rispecchiano l’umile esistenza, le gioie, i dolori, le virtù e i vizi, le aspirazioni e gli scherzi: tutto insomma. Dalle stampe che si acquistavano sul mercato apprendeva il popolo quel po’ di scienza di cui gli illetterati erano capaci.42

La loro tecnica quindi aveva una secolare tradizione:

L’uso della carta stampata con immagini di santi risale al sec. XIV e precisamente all’introduzione della carta in Occidente, intorno al 1350. In precedenza venivano usate medagliette in stagno o piombo: si continuava in questo modo un uso che risale, per limitarci a tempi più vicini, all’età greco-romana, in cui i contadini facevano incidere su tavolette di bronzo o di rame (fulacteria) particolari invocazioni o scongiuri apotropaici, che poi venivano appesi alle porte, agli alberi o alle vigne.43

Senza scordare che, parallellamente alla stampa su carta, c’era quella, fiorentissima nella vicina Caltagirone, su terracotta.

Oggi, la felicità del collezionista di tradizionali espressioni estetiche popolari è rappresentata dalle statuine presepiali dei Vaccaro-Bongiovanni, da quelle su una sola faccia e dagli stampi di mostarda, dove motivi di decorazione naturalistica convivono con immagini veriste.

A Militello, invece, la tradizione era rappresentata proprio dalle stampe su carta e l’artista più antico di cui si tramanda il nome fu Emanuele Fagone (1799-1859). Si attribuiscono a lui anche i Ritratti di parroci presenti nella sacrestia della chiesa di San Ncolò-SS. Salvatore.

Sua, ancora, è una Madonna della Stella dipinta su vetro, attualmente ubicata nella sacrestia della chiesa omonima.

Comunque, se Guzzone era troppo piccolo quando Fagone morì, quasi sicuramente conobbe l’incisore Nicolò Culosi (1802-1876).

Per fortuna, molte immaginette sacre, sue e del Fagone44, sono visibili nei musei “San Nicolò” e “Sebastiano Guzzone”, potendo testimoniare un raggiunto livello dignitoso, seppur dai gusti semplici.

Come, poi, tutto ciò si riverberasse dalla, e nella, pittura ce lo dice un Sant’Alfonso de’ Liguori sorridente e paterno del 1832, che oggi si trova nei depositi del Tesoro di Santa Maria della Stella.

Purtroppo, il tempo e disgraziati eventi hanno quasi del tutto cancellato la firma dell’autore (Biagio Sa…o); ma l’immagine dovette piacere molto, perché venne ripresa nella produzione degli incisori, in particolare in quella del Culosi.

La prima opera del Guzzone di cui resta notizia è, perciò, una vera e propria immaginetta sacra, nello stile e nel gusto della collocazione. Si tratta di una Madonna della Stella che egli dipinse a tempera, a mo’ di capezzale, sulla parete sovrastante il letto della sorella Maria. Si conserva nel Museo “Guzzone”, grazie a un distacco (disgraziatamente non perfettamente riuscito).

In ogni caso, il piacere della vignetta dovette essere preponderante nelle iniziali prove figurative, se è vero che, come con i soliti errori ha attestato don Mario Ventura:

Con rapidità e precisione ritraeva una roccia muschiata, il getto di un mulino ad acqua, una caricatura, una dama al teatro, un on.le a Montecitorio, un animale domestico, un panorama che lo interessava.45

Evidentemente, in questo brano il nostro sospetto sugli errori del buon canonico viene dal fatto che fino al 1869, anno in cui Guzzone si trasferì a Roma, questa città non era la capitale d’Italia.

Era, quindi, impossibile che ci fossero onorevoli, a Montecitorio.

Nell’autunno del 1869 ci fu quindi la decisione di mandare il giovane Sebastiano a Roma, presso lo studio del pittore Filippo Casabene (? – 1878).

Probabilmente, tale scelta venne vissuta dal vero capofamiglia, lo zio don Rosario, con la mentalità di un concreto investimento (anche se ne va pure sottolineata l’apertura mentale).

Il nuovo maestro, fra l’altro di ascendenze catanesi, era Conservatore delle opere d’arte in casa Borghese; in più, esercitava il mestiere di restauratore e copista.

E ben presto con lui l’allievo colse il suo primo vero successo.

Casabene si era letteralmente specializzato nel copiare Guido Reni (in particolare, l’Aurora) ed in quei giorni lavorava su una Beatrice Cenci appartenente alla Galleria Barberini, ma in restauro presso la Galleria Borghese.

L’opera era di gran pregio nella tecnica del disegno e negli impasti del colore, tanto che da alcuni veniva attribuita al Reni e da altri al Cagnacci.

L’allievo aveva il modesto compito di preparargli la tavolozza.

Un improvviso malore, però, costrinse il restauratore ad assentarsi ed a quel punto Guzzone fece una copia del dipinto, che riuscì tanto perfetta da ingannare i visitatori e lo stesso Casabene, il quale, addirittura, arrivò a riconsegnare la copia al posto dell’originale.

Soltanto quando, guardando il retro, si scoprì l’inganno, il ragazzo rivelò il tutto, meritando i complimenti del direttore della Galleria Barberini.

7

Il periodo accademico: con Sebastiano Conca ed il suo ambiente

(1871 – 1877)

Appena due anni dopo il suo arrivo a Roma, Sebastiano potè iscriversi all’Accademia di San Luca, risultando sempre fra i primi, come ci attestano i diplomi:

Regio Istituto di Belle Arti – Diploma

Guzzone Sebastiano in seguito ad esame è ammesso alla scuola libera di nudo in questo Istituto.

Roma, addì 10 dicembre 1874.

Il direttore Il segratario

Prof. G. Prosperi A. Ansen46

E l’anno dopo:

Regio Istituto delle Belle Arti di Roma – 1 dicembre 1875, Scuola libera di nudo.

In seguito all’esame di concorso è stato ammesso alla scuola libera del nudo il sig. Guzzone Sebastiano di Militello Val Catania.

Il segretario Il direttore

A. Ansen F. (G.?) Prosperi“47

Purtroppo, nel pieno dell’impegno per lo studio, gli arrivò pure la notizia della morte del padre:

Oggi 12 maggio 1872 nella sua abitazione sita in strada Tre Punti (Marche) è morto Giuseppe Guzzone di Sebastiano e di Giuseppa Placenti di anni 48 marito di Maria Sangiorgi48

Perciò nel 1873 il giovane ritornò per breve tempo a Militello. Di quei giorni ci resta una lettera al Casabene, in cui descrive le emozioni di una visita a Catania:

Fui a Catania verso l’Ave Maria (…) e rimasi incantato nel visitare la via Etnea e la Villa Bellini, che erano illuminate a giorno, una folla di gente passeggiava tranquillamente godendosi il fresco della sera. Alla villa ricca di busti di uomini illustri catanesi, per altro assai ben fatti, si eseguiva un concerto musicale nella spianata principale ed era un piccolo vero incantesimo, altro che Pincio! Bravo ai nostri catanesi! Tutto era ordinato bene e faceva piacere a vedere. Lei bisogna che la riveda ora Catania, emula in vero le più belle città d’Italia, merita proprio rivederla.49

Dopo questo viaggio non sentiremo più parlare di Giuseppe Guzzone, se non come riferimento anagrafico negli atti notarili. Un destino comune a molti mariti, il suo, a partire dal San Giuseppe dei Vangeli. Lo dico a proposito del ruolo cosiddetto secondario che nei secoli avrebbero avuto le donne.

Molto presenti, invece, sono le testimonianze di grandi soddisfazioni personali, sia a scuola, che nella vita di società:

Giovedì quattro corrente all’Accademia si effettuò la distribuzione delle medaglie. Intervennero il Ministro della Pubblica Istruzione che consegnò con le proprie mani le medaglie e i diplomi a tutti gli alunni premiati. Erano presenti tutti i professori dell’Accademia, uno dei quali tenne il discorso e incoraggiò gli allievi studiosi. Tra gli invitati si notavano molte personalità dei ministeri e dell’esercito. Un professore siciliano chiamava il premiato che veniva presentato al Ministro il quale gli dava il diploma e la medaglia tra gli applausi degli astanti. Io ho preso medaglia e diploma. Mi sembra più grande di quella avuta l’anno passato.50

E ancora:

Associazione dei Benemeriti Palermitani

Alto protettore Sua Maestà il Re d’Italia

Diploma

Questa R. Associazione, intenta sempre a promuovere l’incremento e il perfezionamento delle Scienze, delle Lettere, delle Arti e delle Industrie, conferisce al sig. Sebastiano Guzzone pittore il titolo di Membro corrispondente per i suoi meriti artistici.

Palermo, lì 14 luglio 1876

Registrato al N. 1101 lettera G

Il Presidente Il Segretario

A. Bandiena A. Luisi51

A questo punto, però, bisogna dire che sulla validità degli insegnamenti impartiti nell’Accademia di San Luca sono stati avanzati forti dubbi. Per esempio, su molti di quelli che probabilmente furono gli insegnanti di Guzzone, lo storico primonovecentesco Basilio Magni dette giudizi addirittura devastanti:

Il periodo accademico, o sia l’arte del primo Impero, s’inizia col secolo XIX e dura insino al 1860 in circa (…) Senonché dove l’arte accademica si mostrò più sfacciatamente fu nella pittura. In tutta la storia dell’arte è questo il breve periodo in cui più essa intristisce; tantoché non rivelando più il bello, avrei richiamata in vigore la risoluzione del Conciliabolo dell’anno 754 sotto l’imperatore Copronimo, in cui fu dichiarata illecita l’arte della pittura. L’imitazione superficiale e servile dell’arte classica antica senza ringiovanirla d’una nuova idea, d’un sentimento moderno e senza un soffio di vita, mancando la forza di creazione: lo statuario, il teatrale, una maniera di fare uniforme, studiata e compassata, anziché naturale, non suscettiva di progresso o mancante d’anima: disegno liscio e rotondo per mancanza della scienza dei piani fondata sulla parte ossea dell’anatomia; positure forzate, contorni taglienti, pieghe accomodate sul fantoccio, mancanza assoluta di chiaroscuro, qualità suprema dell’arte, bandita con l’ostracismo dato dagli accademici ai barocchi, in cui valsero tanto, credendo di aver fatto tutto e bene solo col rivendicar l’arte dagli eccessi del barocchismo, per ricondurla alle pure tradizioni dell’antico; colorito di odiose e intollerabili tinte intere; una strada comune da percorrersi, spenta ogni individualità, forma tutto quel che si esprime col vocabolo accademia.”52

Per fortuna, in tempi più recenti, con Angela Ottino Della Chiesa, la valutazione si è fatta meno drastica:

La critica romantica e la storiografia successiva, sin quasi ai nostri giorni, ripetendo con lecita ignoranza luoghi comuni superficiali e retorici, hanno fatto dell’arte neoclassica la propria testa di turco sulla quale è meritorio tirare nelle baracche della fiera. Senza riflettere, fra l’altro, che essa è l’espressione spontanea di un’età tra le più complesse della storia europea, quella in cui siamo nati.

Per la sua genesi e per le sue forme l’arte neoclassica ci appare innanzi tutto come il risultato di una reazione alle ultime e meno valide espressioni del barocco e del rococò, aiutata da un contemporaneo e profondo mutarsi dell’ambiente, del costume, del pensiero e del gusto di quella società in grembo alla quale era chiamata a fare le sue prove.53

Questo fino a quando in maniera più corretta, guardando agli anni tra il 1855 ed il 1877, lo storico Corrado Maltese ha chiarito che ci fu un tentativo di stabilire un “momento unitario dell’arte italiana”,54 per cui il giudizio su di essi dovrebbe radicalmente cambiare. La formazione della nazione italiana, infatti, implicava l’idea di una cultura e di un’arte nazionale. Qualsiasi studio che non ne tiene conto cade nell’anacronismo, che dei pregiudizi è il più insidioso. Valutare l’Accademia secondo i paramentri delle poetiche successive è una sciocchezza. Sarebbe come se una blatta imponesse il suo concetto di bellezza a Greta Garbo.

Per realizzare l’unità artistica d’Italia, l’Accademia fu un ottimo strumento, anche se non mancarono i momenti dialettici, dato che:

Quel principio e quel momento si pongono come nuclei di condensazione di fatti pur diversi, e indicano legittimamente la formazione di un tessuto diramato ma omogeneo. Vi si riconoscono di certo andamenti differenziati, tipici dei diversi centri, nel Mezzogiorno, nell’Italia centrale e nel Nord. Ma gli aspetti localistici, i suggelli di regionalità, cedono in parte il passo ad aspetti e suggelli nazionali (…) In queste novità ha il suo rilievo quella che si potrebbe definire una maggiore mobilità, sia sull’area nazionale sia sull’area europea (soprattutto francese).55

Si completava, così, un deciso cambiamento di mentalità in Italia ed in Europa. Era il coronamento di un’evoluzione voluta dai nuovi protagonisti dell’economia, cioè da quegli stessi borghesi che nella Sicilia agricola provenivano dalla classe dei massari.

Abbiamo visto come un simile processo c’era stato anche nella piccola e decentrata Militello, quando le opere architettoniche atte a trasmettere la magnificenza dei signori e degli istituti ecclesiasticiavevano lasciato il posto agli interventi di pubblica utilità.

Non sembri, allora, né fuor di luogo né troppo ardita – lo diciamo en passant – la proposta di una rivisitazione critica degli sbocchi della Rivoluzione industriale. Io sospetto che essa stessa fu un effetto, più che una causa. La razionalizzazione dell’economia, di cui era stata espressione, aveva avuto origine in un aumento degli orizzonti e delle figure imprenditoriali.

La rivoluzione, insomma, partiva da lontano; anche se aveva avuto un’accellerazione dopo la scoperta della stampa e dopo lo sfruttamento del Nuovo Mondo.

Ecco perché, senza rifare la storia del Seicento e del Settecento, pensiamo che i nuovi concetti di arte espressi nelle accademie abbiano rappresentato gli incunaboli dell’organizzazione culturale di massa.

In quest’ottica, appare spiegabile il bisogno di sostituire l’estro individuale delle botteghe artistiche di una volta con un più ampio insegnamento delle tecniche nelle scuole. E proprio a Roma, Federico Zuccari nel 1593 aveva dato il via ai cambiamenti, fondando un’Accademia “per elevare gli artisti al di sopra del semplice artigianato.

Già nei suoi primi anni di vita, per sua fortuna, la nuova istituzione aveva potuto contare sull’efficace sostegno papale. Poi, all’inizio del Seicento, essa era stata intitolata all’evangelista San Luca, protettore dei pittori. Nel 1605, addirittura, Papa Paolo V aveva decretato la festa di San Luca, dove veniva concessa la grazia ai condannati scelti dagli accademici. La scuola era, quindi, entrata sotto il patronato del cardinale Francesco Barberini, nipote del Papa.

A continuarne il prestigio, l’Accademia nei secoli aveva contato sulla presenza di artisti di primissimo piano, tra i quali, tanto per citare i maggiori, si possono ricordare il Domenichino, Gian Lorenzo Bernini, Domenico Guidi, Pietro da Cortona, Sebastiano Conca, Charles Le Brun, Antonio Canova e Vincenzo Camuccini. Fino a quando, appena un anno dopo l’arrivo del nostro Sebastiano, cioè nel 1872, raggiunto finalmente il sogno di Roma capitale, essa fu trasformata in Accademia Reale.

Ogni studio sulla pittura dell’Ottocento italiano, però, deve per forza cominciare col neoclassicismo, il cui antesignano fu Pompeo Batoni (1708 – 1787), che ebbe la cattedra nell’Accademia di San Luca. Egli realizzò un nuovo tipo di pittura monumentale, sostituendo le stravaganze compositive del barocco con una impaginazione severa. Dipinse scene bibliche, come la famosa Agar nel deserto, e mitologiche, con un gusto che, attraverso mille mediazioni, arrivò fino al nostro Guzzone.

Ma, il teorico dello stile neoclassico fu senza dubbio Raffaello Mengs (1728 – 1779). Egli, insieme al critico tedesco Gioacchino Winckelmann, vide la perfezione della bellezza nei resti della figurazione classica, che fra l’altro andavano imponendosi all’attenzione della cultura, dopo le scoperte di Pompei ed Ercolano. Fu perciò pittore di rovine, anche se notevoli risultarono i suoi ritratti di personaggi illustri.

E, sempre a proposito di rovine, non si possono tacere le acqueforti dei Bibbiena – in chiave magniloquente – e poi di Bartolomeo Pinelli (1781 – 1835) – che trovarono “l’ispirazione il soggetto il carattere (…) nella sua Roma: nell’austera virtù dell’antica Repubblica, nel fasto dell’Impero, e, fratello spirituale di G. G. Belli, nel frastuono della Roma papale, massime trasteverina56 -.

Gaspare Landi (1756 – 1830), ancora, lodato dallo scrittore Piero Giordani – lo scopritore di Giacomo Leopardi -, fu amico di Antonio Canova e nel 1810 presidente dell’Accademia di San Luca, risultò notevole nella ritrattistica. Anche se questo genere di pittura poté assurgere al livello di rappresentazione della tragedia storica soltanto con la Morte di Marat di Jean Louis David (Parigi, 1748 – 1825), che proprio a Roma dipinse quello ch’era destinato a diventare un vero e proprio manifesto della figurazione di storia, Il giuramento degli Orazi. L’influenza della sua opera, fra l’altro, ci viene sottolineata dalla virulenza critica dei nemici:

Il francese Jacopo Luigi David (…) che si formò a Roma, fu il malfattore principale della corruzione e convenzione dell’arte nella prima metà del nostro secolo, col suo idealismo e fare statuario e gelido da non destare alcun affetto ne’ cuori.”57

E come pittore del genere storico ebbe fama (ed andrebbe recuperato dal gusto dei moderni) anche Vincenzo Camuccini (1771 – 1844), autore di una apprezzabilissima Morte di Cesare. Come altrettanta rivalutazione meriterebbe Andrea Appiani (1754 – 1817), artista che dipinse il Trionfo di Napoleone, con un’ispirazione parallella a quella tanto impegnata sul versante civile del poeta Giuseppe Parini.

Simile alla critica dei neoclassici al barocco, fu la critica dei nazareni, i più importanti dei quali a Roma furono Tommaso Minardi (Faenza, 1787 – Roma, 1871) e Francesco Coghetti (Bergamo, 1802 – Roma, 1884), la cui firma si trova in un diploma di Guzzone, quell’anno classificatosi primo fra gli allievi dell’Accademia. Egli, inoltre, dipine affreschi di ispirazione religiosa e si caratterizzò per il prevalere delle tinte chiare, un po’ a scapito del chiaroscuro.

Minardi, dal canto suo, “fu assai valente nel disegno, o sia nell’esatto contorno geometrico dei corpi, nell’intendere la diversità dei piani (…) Fu altresì immaginoso e forte compositore, come dimostrò in vari soggetti della Divina Commedia, nella Disfida di Barletta, e nel gran dipinto a tempera della Propagazione del cristianesimo e Missione degli apostoli in una sala del palazzo del Quirinale.”58

Per questa caratteristica la pittura del Minardi può essere collegata con molta produzione di Sebastiano Guzzone, dato che ambedue furono ottimi illustratori dei momenti letterari, più che dei momenti storici.

Ed esiti letterari ebbero pure Filippo Agricola (1795 – 1857), che nei suoi Dante e Beatrice, Boccaccio e Fiammetta e Tasso e Eleonora dimostrò qualche sudditanza a Raffaello, e Francesco Podesti (1800 – 1895), autore di alcuni affreschi in Vaticano, che però riuscì meglio nei ritratti di piccole dimensioni.

Per quanto ci riguarda, l’importanza di Podesti è data dalle frequentazioni che certamente ebbe con Sebastiano Guzzone. Infatti, egli risulta tra gli invitati di riguardo, insieme a Salvatore Majorana Calatabiano, a Francesco Di Bartolo, a Nino Costa, a Pio Ioris, a Giuseppe De Sanctis (tutti nomi che ritroveremo più avanti), in occasione del carnevale romano del 1885, quando il pittore militellese viveva l’emozione del successo.

Il punto di riferimento maggiore della scuola purista che si affermò a Roma nella prima metà del secolo fu il tedesco Federico Overbeck (Lubecca, 1789 – Roma, 1869). Egli oppose al classicismo un sentimento fortemente intriso di cristianesimo e la riproposizione di una tecnica che guardava agli esempi del XIV e del XV secolo fino al Beato Angelico, escludendo persino Raffaello, ritenuto un modello imperfetto (per cui anche a lui, oltre che ai contemporanei pittori inglesi, calzerebbe l’appellativo di preraffaellita).

Molto presente nella città fu anche l’opera di Giovanni Augusto Domenico Ingres (1780 – 1867), del quale, per fermarci agli echi che se ne trovano in Guzzone, si possono citare Apoteosi di Omero, La Vergine dinnanzi all’Ostia e La Sorgente, tutte opere conservate nel Museo del Louvre. Ed, insieme a questa, nei suoi anni di formazione il siciliano senza dubbio avrà apprezzato le cromìe e le raffigurazioni sentimentali dei pittori del romanticismo, dei quali il più attivo a Roma era il già citato Francesco Hayez.59

A tanta schiera di maestri guardarono gli allievi provenienti da tutte le regioni d’Italia, in particolare:

Moltissimi furono i giovani siciliani che, invasi dal sacro furore dell’arte, lasciarono la loro terra per ampliare le loro cognizioni e andarono a studiare a Napoli, Roma o Firenze, presso le Accademie o presso famosi artisti per desiderio personale o perché economicamente incoraggiati dai Consigli Municipali del tempo. Ci sono il parallelo riscontro letterario del Verga: Eva, il protagonista maschile, il pittore siciliano Enrico Lanti trasferitosi a Firenze, afferma: “Il mio paese mi pagava una pensione allo scopo di aumentare il numero dei suoi grandi uomini.”

Nella capitale la frequenza con i conterranei serve a Guzzone da continua osmosi per la sua attività artistica… Anche Giuseppe Sciuti viveva in quel tempo a Roma e il vittoriese Giuseppe Mazzone vi sostava parecchio e rifiutava l’insegnamento di pittura presso l’Accademia di Belle Arti…60

Delle opere di Sebastiano Guzzone realizzate negli anni accademici, sono reperibili a Militello innanzitutto due disegni a matita: un Messaggero degli Dei61 nel Museo “Guzzone” e un Nudo virile62in collezione privata. Ambedue sono Studi da statue, nei quali l’esattezza della descrizione anatomica si coniuga mirabilmente con la grande perizia negli sfumati chiaroscurali.

Nella stessa città (Museo “San Nicolò”), inoltre, si trovano un’Immacolata, olio su tela,63 e un SS. Salvatore del 1877, olio su cartone, dove il Redentore ha lo “sguardo rivolto a sinistra. Capelli lunghi scendono sulle spalle. Veste una tunica bianca e mantello verde. Sulla mano sinistra regge il mondo. Un raggio di luce fa da aureola.64

Appartiene forse allo stesso periodo, ancora, uno schizzo a penna conservato nel Museo Civico, in cui vengono delineate alcune figure di Sante65, probabilmente in vista della composizione di una pala d’altare.

Ed, infatti, un bozzetto per pala d’altare è un Martirio di Santa Caterina,66 che si trova nello stesso luogo. Trattasi di un olio attribuibile a Guzzone, probabilmente collocabile nella seconda metà degli anni Settanta del Secolo, dove si apprezza soprattutto la caratteristica morbidezza della pennellata, oltre che l’espressione languidamente sentimentale.

Impregnato di stile accademico appare, infine, un dipinto presente nei depositi della Chiesa di Santa Maria della Stella, il Ritratto del Vescovo Morana, di evidente influenza accademica. Esso è una perfetta raffigurazione del decoro ecclesiastico, realizzata, come s’è detto, secondo canoni ancora neoclassici. Tutto è giocato sulla semplicità delle campiture di colore e su un disegno chiuso e perfetto. Il pittore, però, esprime già la sua individualità artistica nell’estrema morbidezza dei chiaroscuri. C’è pure il gusto di evidenziare l’eleganza degli abiti, esaltata dal prezioso anello che spicca su una mano molto curata, che, in tutt’uno con l’espressioneaustera del viso, fa del prelato una presenza piuttosto mondana.

8

Le istanze classiciste di Cesare Maccari

Il 17 giugno 1877, Sebastiano Guzzone scrisse allo zio una lunghissima lettera, che significò la svolta più importante della sua vita. Grazie ad essa, infatti, potè lasciare il cavaliere Filippo Casabene e la stantìa ufficialità dell’Accademia, per dedicarsi finalmente all’attività di pittore al corrente delle novità che venivano dal realismo e dalla pittura all’aperto degli impressionisti. L’importanza dello scritto è data, fra l’altro, dalla notizia delle sue intrecciate amicizie con Salvatore Majorana Calatabiano e col pittore Cesare Maccari (1840 – 1919). Questo, al di là di qualche pettegola ingenerosità nei confronti del Casabene ed al di là del bempensantismo ruffiano esibito per metterlo in cattiva luce davanti a don Rosario:

Il sig. Cavaliere al quale si porta tanta fiducia da noi, si nella professione che nel carattere e nel suo agire, ci ha dato per il contrario prove, le meno soddisfacenti. Nella pittura il suo modo e la sua scuola sono apertamente opposte alla pittura che si vuole oggi. Oltre ciò, mi accorgo che questo è un pittore che per lo più ha passato la vita nel restaurare e copiare i quadri antichi. Le quali cose sono dannosissime per più ragioni e recano il vizio della maniera e della perdita del gusto. Di conseguenza la nessuna stima dell’artista per i pochi buoni frutti che ne potrà avere nell’arte. È per questo che io non posso nutrire alcuna fiducia nella sua maniera, perché in tal modo anche se si facessero quadri e lavori ammirabili, non sarebbero apprezzati. È per questa ragione che lui si lamentava con me e ne dava conto di questa sua lagnanza a Vossia, che io non sento più i suoi ragionamenti nell’arte perché essi tendono a quello che la scuola universale della pittura biasima.

Per detta ragione la famosa Accademia di S. Luca composta da professori tutti di quel sistema condannato dai medesimi progressi dell’arte venne dal presente governo chiusa. Nel 1874 frequentai per alcuni mesi l’ultima classe del nuovo Istituto, dove come le scrissi allora, il direttore di esso volentieri mi ammise. Ebbene, il nostro Casabene sentendo i progressi della Scuola nuova un giorno mi fece forti rimproveri e pressioni per abbandonare quella classe, la cui frequenza mi sarebbe stata assai utile. Mi impedì di poter arrivare a prendere due premi di studio destinati a noi studenti e ancora di frequentare lo studio del celebre Maccari, che è l’amico del ministro Majorana e al quale egli mi aveva raccomandato. Anzi desidera quest’ultimo che io vada dal detto pittore per apprendere con più larghezza e modernità di idee. Anche nel 1873 frequentai la suddetta classe spettandomi di diritto e conseguito il primo premio del corso antecedente, ma disapprovandone il Casabene non potei avere alcun vantaggio. Nell’aprile dello stesso anno 1873, andavo a fare gli studi nella villa Borghese, i quali erano per me necessari ed importanti poiché servivano per sapere bene colorire e che lo stesso valente Maccari mi ha tanto raccomandato di non trascurare, specialmente quelli dell’aperta campagna. Ebbene io in quell’anno li avevo cominciati ed il Casabene non vedendoli di buon occhio, colse l’occasione per farmeli troncare. Avevo avuto tre giorni di febbre, cosa non straordinaria nei giorni di primavera per il forte odore di fieno e per l’umidità dell’erba, stando per terra molte ore, applicato a un paesaggio o ad altro soggetto.

Ebbene quel nostro amico le scrisse che i cattivi compagni mi portavano alla rovina, che io diventavo una testa sventata chiunque incontrava dei conoscenti mi dipingeva nei colori più neri, questo fatto eccitava il riso dei buoni credenti sul mio conto e con grandissimo mio dolore. Questo stesso che ho narrato e che avveniva quattro anni addietro vuole ripeterlo oggi. Egli convince la moglie e tutti e due l’ho in permanenza all’orecchio con i loro rimproveri. Mi alzo presto alla mattina appena spunta il sole, per fare appositamente questi studi, e tutti e due gridano al perditempo, alla testa guasta, agli amici della fossa.

Io non ho cattivi compagni, ma un giovane (Augusto Pollak?) buono mio coetaneo con cui abbiamo fatto gli studi assieme all’Accademia, con il quale ci siamo voluti sempre bene. Egli è studiosissimo e stimato come uno dei più valento giovani artisti di Roma. Lo stesso ministro Majorana suggerito da abili maestri mi consigliò un mese fa di abbandonare questo vecchio maestro, e fare la pittura che si vuole e così aggiungeva potrò arrivare ad eseguire qualche soggetto da mandare alle grandi esposizioni. Per suo riguardo sembra a me che non si debba sacrificare il mio avvenire. Anche lo stesso Maccari ha fatto elogi di me, dopo avergli fatto vedere disegni, olii ed acquerelli eseguiti dopo questi studi moderni. E specialmente è rimasto abbastanza meravigliato dopo avergli mostrato il Ritratto del monaco Celona e per questo il Ministro ha preso questa attitudine nel consiglio datomi.

Il Maccari pensando al mio caso diceva che era un delitto farmi seguire una scuola decaduta per rovinare il mio promettente avvenire.

Ad onore del vero debbo riferire che il Casabene si è approfittato delle lettere di elogio fatte a lui in antecedenza per i premi da me conseguiti in questi otto anni. Ma non bisogna sottovalutare la mia innata tendenza artistica e la mia buona volontà. Questo non fu certamente tutto merito suo. Egli vedendo la piena fiducia della nostra famiglia, non ha fatto mai conto del mio malumore e delle mie rimostranze, anzi appoggiato dalla buona fede di Vossia, ha commesso molte stoltezze, credendo di aver fatta sempre ragione da Vossia e fare passare me per uno sventato.

Io ricordo bene che scrissi tanto a Vossia quanto a don Gaetano Modica quattro anni addietro, che non volevo più stare in questa casa, che oltre ai motivi di non poter più studiare la sera per i figli della padrona di casa che venivano a seccarmi ogni momento, e maggiomente per i Casabene marito e moglie, che prendevano qualsiasi pretesto per tormentarmi con rimproveri ed insulti finché non fu loro aumentato il prezzo della pensione mensile.

Nel 1874 mi presentai al concorso Stanzani per la pensione gratuita di quattro anni, il pittore Casabene conosceva questa mia necessaria utilità nel fare esercizi sopra le teste al naturale, poiché il fare un ritratto in otto ore era uno degli esperimanti del concorso ed egli da maestro interessato non mi fece fare nulla. Anzi debbo dire che, mentre si faceva l’esperimento della testa al naturale, mi fece dei discorsi così scoraggianti perché vi era presente un giovane che aveva delle sicure probabilità di riuscita. Ed io feci l’esperimento con pensiero di abbandonare il concorso. Lui volle che io eseguissi l’ultimo esperimento, ma fu acerbamente rimproverato da tutti i suoi conoscenti e gli furono mosse serie rimostranze per non avermi fatto fare alcun esercizio. Mentre io, come dicevano, cominciando dallo stesso Casabene avrei potuto vincere sicuramente per il primo il detto concorso, se fossi stato ben diretto. Soffrii tanto dispiacere a causa della voluta negligenza di questo Maestro. La moglie stessa fece a Casabene aspri rimproveri per la sua ignavia. Tante volte mi ha consigliato di fare delle copie e specie l’Aurora del Reni, che come lui diceva se ne vendevano quanto se ne facevano.

Da vero egoista non mi ha pagato mai il lavoro che ho fatto e se mi ha dato qualche cosa non era che la minima parte, d’altronde non bisogna meravigliarsi perché questa è la comune sorte degli allievi apprendisti.

Il Casabene è uno sparlatore degli ecclesiastici e specie del Cardinale Panebianco, pur essendo suo intimo amico e benefattore. È un uomo che tradisce e manomette la verità, si fa sempre ragione, a me diede una prova che mi ha fatto perdere la fiducia in lui. Condotta da un suo amico al suo studio una agiata famiglia romana per visitarlo, vi era tra i componenti una giovane figliola, che aveva molta inclinazione per il disegno. Saputo ciò, su due piedi pensò di sua spontanea volontà di fare cosa gradita a quei famigliari di additarmi a loro come suo provetto allievo da poter dare lezioni gratuite alla loro figliola. Quelli naturalmente accettarono e mi invitarono nella loro casa per farmi vedere i disegni della loro figliola. Ed ecco che questo Cav. Casabene poco dopo arriva a dirmi: “caro amico hai perduto la testa!” Io non ho risposto niente. Meno male che erano presenti altre persone che avevano sentito tutto e volle farmi fare una gran brutta figura. Le mie orecchie sono tormentate da mattina a sera dalle sue parolacce e dagli eccessivi e sconcludenti rimproveri. Non si può dire una parola in sua presenza, la più semplice di questo mondo, non si può frequentare un amico, una casa, non si può accennare un qualsiasi argomento che egli non vi intraveda una congiura ai suoi danni.

Un anno dopo che andai via dalla casa di Renzi, facevo un piccolo ritratto a matita del nipote di quest’ultimo. Un giorno, finito di pranzare, andavo a completare il lavoruccio per consegnarlo. Il Casabene appena se ne accorse mi chiamò dalla finestra come un demente, mi rimproverava con grande impeto, dicendomi che andavo dai Renzi per tradirlo.

Così per aver passato un po’ di vernice su un suo quadretto, mi disse che glielo avevo rovinato. Da quando tiene in casa un misero passerotto, non vuole che si apra né finestra né porta per paura che voli via ed ancora per altri ridicoli motivi. Mentre lui una mattina era uscito, la moglie per far prendere aria alla stanza aprì il finestrone dello studio. Il passero, pur avendo le ali mozze fuggì. Che perdita irreparabile!!! Per questa ridicolaggine, appena arrivato a casa, e saputo la triste nuova, pur trovando la signora Marietta assai angustiata, questo pazzo diventò un diavolo. Andò in escandescenze straordinarie, morsicandosi ambo le mani, gridando come un ossesso, dicendo mille improperi a me e alla moglie, che gli avevamo fatto scappare il suo povero passero.

Insomma, non glielo toglieva nessuno dalla testa che questa – sicilianata – fosse venuta da me. Arrivò a ricusare il cibo e fare delle scenate indegne con la signora anche di notte, tanto che questa voleva lasciarlo e andarsene. Non si può dormire. La signora lo aveva fatto, come si suol dire, cristiano, perché era venuto a Roma con la dote della moglie, e ivi si mantiene con la stessa. Egli non aveva nulla e ora fa di tutto perché la moglie se ne vada. Ha fatto ridere ed indignare di sé tutti quelli della casa. Quando è calmo e gli si domanda un consiglio, escogita cento pensate non scegliendone mai una appropriata, mettendo più confusione. Non si è fatto il Precetto pasquale, non va mai a Messa neppure la domenica e feste. Mangia carne il venerdì, non si vergogna di tenere relazioni con una svergognata, con grandissimo dolore della moglie. Esaminato per sommi capi non vi è di che imparare, piuttosto seguendo lui si potrà avere fiducia nelle vie del vizio. Alzai la voce quattro anni addietro e fu soffocata dalla disapprovazione di Vossia. Da allora la mia vita non è stata che una continua sofferenza. La prudenza non è giovata a nulla. Minaccia la moglie e me. Io non ho più intenzione di stare con lui in questa casa, perché per mio conto ho perduto ogni fiducia in lui.

In un’altra lettera scritta nel giugno del 1877 accennai che ogni risoluzione contraria alla mia significava che non potevo più in tal maniera stare a Roma tutti i giorni angustiato e malinconico in questa casa di matti.

Queste difficoltà impediscono buoni passi nella perfezione dell’arte. Chi non è dell’arte non comprende le esigenze di una buona preparazione per la sicura riuscita della medesima. Studiando solo ed avendo uno studio potrò formarmi, senza dubbio in maniera migliore. Questo passo più che maturo è utile ed è stato l’oggetto delle mie continue riflessioni, individuando ogni fase, che senza dubbio sarà a mio grande vantaggio.

Appoggiandomi a un tronco già vecchio non avrò nessun andamento nella mia buona riuscita. Concludo pregandola vivamente di annuire al mio desiderio per non precludermi la via dell’arte, così uscirò felicemente da questa critica situazione. Questo è il momento in cui desidero un appoggio sicuro. Quella mia è una penosa età, quando cadute le illusioni della giovinezza si presentano il vero dell’esistenza per la prima volta nel mio animo in tutta la sua austera realtà. Se in questo brusco trapasso non mi sovviene una virile speranza corro il rischio di restare inghiottito per sempre da una dannosa neghittosità.67

Meno di un anno dopo, il 20 gennaio 1878, il povero Casabene moriva in un ospizio di pazzi. Guzzone era già andato via da casa sua e poteva perciò osservare le convenienze siciliane, spedendo allo zio una lettera molto smorzata nei toni, senza più traccia del fiele sparso prima:

Questo avvenimento mi ha molto addolorato pensando che egli fu uno dei miei primi amici che conobbi e nei primi anni fu il mio benefattore. In seguito per il progresso della mia arte non avendo in Lui quello sviluppo richiesto di cui si è in seguito fortunatamente riparato, dovetti lasciare il suo primo avviamento alla pittura, per seguire quello richiesto dalle esigenze odierne. Pregherò il Signore che lo benedica e gli conceda eternità beata.68

E don Rosario non era da meno, scrivendo, con un ritardo di tre mesi, alla vedova:

Con massimo dispiacere ho inteso la funesta notizia della morte del Cavaliere, ciò mi ha molto afflitto l’animo. Non trovo espressioni come significarle questo dolore essendo stato esso per me e per il mio nipote un amico. Ho celebrato più Sante Messe per l’anima sua, la gratitudine mi obbliga almeno a fare questo. Prego il Signore perché la rassereni e si confaccia alla sua divina volontà.69

9

Il periodo galante: Bellezza e Morte in John Everett Millais e nei pre-rfaffaelliti

(1877 – 1885)

Abbandonato il Casabene, Sebastiano Guzzone andò a vivere ed a dipingere al n. 33 di via Margutta.

Fu un periodo ricco di successi commerciali. Finalmente indipendente, poté introdursi in un ambiente che godeva delle frequentazioni della classe politica italiana, dopo l’avvento della Sinistra al potere – di cui non secondario rappresentante era Salvatore Majorana Calatabiano -.

In quegli anni venne scritta una lettera da Giuseppe Cuttone (un cugino che studiava giurisprudenza a Roma) all’eterno don Rosario, che mi pare davvero straordinaria, per descrivere l’ambiente:

Stimatissimo zio,

Le mandai due giornali, uno riporta un breve articolo in lode di Sebastiano per un ritratto che è una meraviglia, ammirato da tutti, l’altro descrive in succinto la sontuosa festa da ballo, che si ebbe nelle feste di carnevale al circolo artistico a cui partecipò il su lodato cugino e volle portare anche me. Vi furono i più alti personaggi dell’aristocrazia romana. Ministri, ambasciatori e membri delle loro famiglie. Fra gli altri notai molti forestieri spagnuoli, francesi, inglesi, ed americani, mi ricordo anche di aver visto l’ambasciatore giapponese. Non parlo degli artisti, che ve ne sono moltissimi. Un ricco buffet era a disposizione degli intervenuti, la sala maggiore era addobbata in modo meraviglioso da non saperla descrivere. È stata la seconda volta che ho visto il cugino vestito elegantissimamente come tutti gli altri, non le dico quanto cortese e ineccepibile, nei tratti e nelle buone maniere.

In tale occasione l’hanno presentato al Ministro di Grazia e Giustizia, il quale pregò il cugino di fare visitare le stanze del Circolo alla sua gentile figliola. Mi accorsi in tale occasione che Sebastiano ha delle magnifiche amicizie ed ottime relazioni e ancora giovane è assai quotato in arte e molto benvoluto da tutti per il suo affabile carattere.70

In generale, però, i risultati artistici che restarono dopo tanto fermento hanno avuto giudizi contrastanti. Personalità allora ammirate, poi sono state fatte letteralmente a pezzi.

Per esempio, Guglielmo De Sanctis (1829 – 1911) oggi è giudicato un mero epigono dei puristi. Eppure, come si evince dalle Memorie che scrisse, egli apprezzò i nuovi temi pittorici introdotti da Tommaso Minardi, per superare il “falso classicismo straniero ed il fittizio purismo overbeckiano”.

Egli, fra l’altro, fu fra i primi ad apprezzare il quadro La morte del Petrarca di Sebastiano Guzzone:

Nelle biografie di Messer Francesco Petrarca si legge come egli fu trovato cadavere nella sua stanza di studio, col capo chino appoggiato ad un libro in attitudine di chi per stanchezza è vinto dal sonno. Così è descritto e così fu rappresentato a colori dal chiarissimo pittore siciliano Sebastiano Guzzone. Di questo pregiato dipinto già lodato in Roma, da artisti di ogni scuola ed ora esposto a Venezia, viene riprodotto il disegno affinché sia dato ad ognuno per poter giudicare della commovente espressione del soggetto, il quale a mio avviso non poteva attuarsi con maggiore semplicità e chiarezza.71

Ed, ancora, si deve ricordare Mariano Fortuny y Marsal (Reus, Catalogna 1838 – Roma, 1874), che Guzzone conobbe ed ammirò probabilmente negli anni dell’Accademia (e non, come scrive don Mario Ventura nel periodo di via Margutta, quando lo spagnolo era già morto). Il Fortuny, fra l’altro:

Dopo un viaggio in Marocco (1860) fu a Parigi dove incontrò P. Gavarni e J.-A. Meissonnier, che ebbe su di lui una grande influenza. Sostenuto dall’organizzazione mercantile di Goupil, il suo stile elegante ma superficialmente virtuosistico, ebbe uno straordinario successo, sia con i dipinti di soggetto storico (specialmente scene galanti in costume) sia coi temi esotici o folcloristici…72

Altrettanto ingeneroso mi pare il giudizio corrente su Cesare Maccari:

Vorremmo (…) disilludere completamente i lettori sulla bellezza e grandezza dei freschi di storia romana che Cesare Maccari (…) dipinse al Senato e che ci perseguitano riprodotti in tutte le storie di Roma e in tutte le antologie, sonore coreografie in cui la pittura come arte non esiste. Ma, il Maccari giunse ad affrescare la cupola di Loreto facendoci rimpiangere persino i Nazzareni!73

Ahimè, sic transit gloria mundi!

Ai tempi della visite di Sebastiano, invece, egli poteva annoverarsi fra i migliori di Roma, perché:

Per mantenersi produsse opere da cavalletto con soggetti esotici, sentimentali e scene di antica vita romana, molto richieste dai mercanti d’arte,74

Una vera e propria amicizia, invece, fu quella per Francesco Di Bartolo, uno dei più interessanti incisori italiani dell’Ottocento, autore, fra l’altro, di un Ritratto di Salvatore Majorana Calatabiano.75

Guzzone ne fa accenno in una lettera allo zio, dell’agosto 1882, probabilmente riferendosi ai guai giudiziari del fratello Salvatore:

Carissimo zio e famiglia.

Ricevei in Assisi il 7 agosto la lettera a firma di Maristella, data 4 agosto unitamente a quella di Pace. Come ricevei questa lettera, scrissi subito al prof. Di Bartolo di Roma, con lettera ben acconcia sull’affare pregandolo di scrivere all’avvocato suo fratello in Catania per raccomandare immediatamente al Procuratore di Catania questa nostra (illeggibile). Il Professore sullodato mi scrive in Assisi, in data 10 agosto, che di ritorno questa lettera ricevo in Roma questa mattina. Mi scrive queste parole.

L’istesso giorno che ricevei la tua lettera, diressi lettera a mio fratello Salvatore l’avvocato che abita rimpetto la Chiesa di S. Teresa in Catania.

Però io credo che parrebbe meglio se i tuoi avranno qualche consiglio si dirigessero a quel mio fratello e lo informassero meglio di come vanno le cose fin oggi, ciò che non ho potuto fare io con la lettera narrandoci solamente lo accertato del giorno prima. Ben inteso che mio fratello è avvocato criminale se ce ne sarà bisogno.

Ecco tutto ciò che ho potuto fare, l’avverto pure che prevenni nella mia lettera al mio fratello che se i tuoi anderanno a trovarlo di farci tutto ciò che lui potrà.

Abbiati una stretta di mano dal

Tuo aff.mo amico

F. Di Bartolo

Dunque se ritornerete in Catania potrete consultarlo liberamente, o da Militello potrete scriverci lettera. Io credo che già avrà fatta la raccomandazione al Procuratore Generale.

Scrivetemi nuove di questo affare e cooperatevi più che potete.

Io sono buono, spero così di Voialtri, e vi saluto a tutti

Sebastiano Guzzone76

Invece, per ciò che riguarda la relazione tra Guzzone e la ricerca pittorica coeva, penso che le sorprese non mancherebbero, se la critica dedicasse qualche studio all’ambiente romano degli anni Ottanta del secolo. Sui suoi esponenti si potrebbero scrivere molti libri innovativi, dato che non hanno goduto di giudizi equilibrati, capaci di evidenziare le continuità e le discontinuità, sia rispetto ai predecessori, sia nei confronti dei francesi (oggi troppo ammirati e mummificati).

Molti nomi ci vengono dai taccuini dello stesso Sebastiano Guzzone:

Belliure, Ioris, Galbani, De Sanctis, Mazzoni, Gallegas, Pocchietti, Resio, Machiati, Silvela, Caceres, Campos, Fazzoni, Serra, Ferrari…77

I ricordi dei più, come spesso accade agli uomini, sono stati stritolati dal macinacaffè del tempo. Restano pochi artisti a cui si riesce ad associare l’opera, a volte avendone una gradita sorpresa.

Non è male, così, sperare in una maggiore conoscenza di Giuseppe Mazzone (e non Mazzoni, come scrive il Ventura), pittore nativo di Vittoria; e di Giuseppe De Sanctis (1858 – 1924), del quale nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma si conserva un dipinto del 1909, La Marna.78 Altrettanto potrebbe dirsi di Giuseppe Ferrari (1840 – 1905), che fu autore religioso e notevole ritrattista. Suoi sono un Cristo a Getsemani79e un Ritratto d’uomo del 1896,80 ambedue conservati presso la Galleria Nazionale.

Le due personalità più interessanti citate nei taccuini, però, sono senza dubbio Pio Ioris (1843 – 1921) e Luigi Serra (1846 – 1888). Il primo fu:

In contatto con il mercato internazionale, diverse volte passato da Parigi, dove ha modo di conoscere De Nittis, Meissonier, Gerome.81 Dal che derivò una pittura nella quale “le scintillanti e seducenti esteriorità coloristiche sono corrette da una sincera e talora acuta osservazione del vero.82

La sua amicizia con Sebastiano Guzzone dovette essere una grande amicizia, se nel 1894, quattro anni dopo la morte del nostro artista, ne spediva alcuni quadri al fratello.83

Riguardo a Luigi Serra, è stato scritto:

Pittore eclettico, ma anche eccentrico, di temi sacri, storici e allegorici (…) nonché di scene di genere (…) e di vedute di città, Serra congiunge (…) composizione ieratica neo- quattrocentesca con la corporeità delle figure, oggetto di un rigoroso studio dal vero (…) A questa attenta indagine Serra si era soprattutto applicato per rendere il bel paesaggio umbro con la collina d’Assisi delineata sullo sfondo.84

Su quest’ultima osservazione varrebbe la pena di soffermarsi un po’, dato che Guzzone condivise con lui il gusto di soggiornare ad Assisi. Forse molte volte stettero insieme, come mi fa sospettare una foto in cui egli sta con amici artisti.85 In ogni caso, il riferimento alla cittadina umbra fu presentissimo in tutto il suo carteggio ed in Umbria riuscì a vivere momenti di serenità:

Carissimo Zio e famiglia.

Sono da molti giorni che sto in un piccolo paese, ora sono tornato ad Assisi.

Per l’affare del resto del denaro ve lo manderò come torno a Roma, poiché mi disse la persona che entro dicembre mi avrebbe dato il resto.

Riguardo ai pacchi postali che mi scriveste: potete mandare due o tre paja di mutande (causi di tela) un poco di olive nere, qualche bottiglia di vino assolicchiato, qualche sopprezzato.

Io sono in ottima salute come spero di tutti loro e saluto tutti i parenti e gli amici.

S. Guzzone

I pacchi postali dirigeteli qui in Assisi (umbria) poiché spesso sto qui a dipingere.86

In un’altra lettera, invece, vien fuori un particolare divertente, cioè una sua imbarazzante dimenticanza:

Gentilissimo Signor Guzzone,

Perdoni se l’importuno con la presente, ma io che abborro dei preamboli, le dico a prima giunta il motivo che m’induce a scriverle e così le prometto d’esser breve.

Quando Ella partì di Assisi non poté pagare il vetturale Alessandro Buzzi, non avendo in tasca che un biglietto grande che non trovò lì per lì a cambiare. Giunto in Roma non ha più mai rammentato, tale minuzia e Buzzi non se ne lagna affatto, ma anche involontariamente può uscirgli di bocca questa di Lei dimenticanza, che intesa da persone volgari, può essere interpretata in diverse maniere, ed io che serbo di Lei sempre grata memoria, non desidero che si pronunci il suo nome se non per lodarlo.

Mi affido interamente alla di Lei avvedutezza e prudenza, sicuro che non saprà mai alcuno quel che io oggi le scrivo. Inviando a Buzzi il denaro, e con ogni cautela, acciò che egli non possa supporre che alcuno le ha fatto rammentare quella piccolezza, colga qualunque combinazione atta a persuadere che Ella se ne sia rammentato per puro caso, perché a me spiacerebbe assai che si sospettasse il vero.

Se mai Ella avesse volontà di rispondermi, diriga (sic!) la lettera a Paolina Mariani, sua amica in un’altra busta nella quale vi sia il mio nome. Precauzione forse inutile perché Paolina è tanto delicata da non cercare mai neppure di sapere chi mi ha scritto. Caramente spero che l’avrò lasciata in ottima salute. In fretta, la riverisco.

E. Siena87

Di capitale importanza furono, poi, i rapporti coi pre-raffaelliti inglesi.

In uno dei suoi più belli acquerelli, Amleto che rifiuta i doni di Ofelia, allora acquistato dal commerciante d’arte monsieur Brebant (che poi volle che fosse replicato ad olio), come con la solita topica ci informa don Mario Ventura:

La testa di Amleto è il ritratto del più distinto attore inglese di quell’epoca (1880), quella di Ofelia è il ritratto di una certa Signorini (sorella del pittore omonimo) che aveva anche posato per il ritratto di una piccola ciociara88

La topica, ovviamente, sta nel fatto che il disattento biografo scrive di una certa Signorini, non rendendosi conto di essersi imbattuto nella sorella di uno dei pittori dell’ambiente romano dell’Ottocento, Giuseppe Signorini.

Proprio da questo contatto può venir fuori una migliore descrizione di ciò che succedeva nei primi decenni di Roma capitale.

Come nel resto d’Europa, anche da noi in basso veniva formandosi il movimento operaio e in alto si assestavano i modelli capitalistici. Per di più, i due mondi erano variegati al loro interno: da un lato, c’era la contrapposizione tra anarchici e marxisti; dall’altro, si confrontavano i protezionisti (a difesa del grande capitale legato alle nascenti industrie del Nord) ed i liberisti puri (più attenti agli interessi della borghesia agricola del Sud), fra i quali spiccava Salvatore Majorana Calatabiano. In quest’ultima battaglia, purtroppo per noi siciliani, non ci sono dubbi su chi ha vinto.

Perciò, il nostro artista militellese dipinse i sentimenti della piccola borghesia, languidi e vagamente patriottici, poi finendo per risolvere il tutto con le preziosità cromatiche, le quali alla fin fine escludono sempre il dramma.

In siffatti termini questi anni possono essere definiti il periodo galante di Sebastiano Guzzone.

Infatti, ebbe molti echi dentro di lui la frequentazione di uno stanzone in via Margutta, dove si riunivano gli artisti dell’Accademia di Giggi.89 Dietro questo nome c’era il poeta romanesco Luigi Zanazzo, che, come vedremo, collaborò con Guzzone nel carnevale romano del 1885.

Lì veniva spesso Giovanni, detto Nino, Costa (Roma, 1826 – Bocca d’Arno, Pisa, 1903), anche lui formatosi all’Accademia di San Luca, ma che si era volto alla nuova pittura verista, dipingendo la campagna romana in compagnia di artisti del calibro di Jean-Baptiste-Camille Corot (Parigi, 1796 – 1875). Egli:

Nel 1859 si stabilì a Firenze e i suoi paesaggi, costruiti a macchie tonali, ebbero un importante influsso nel gruppo dei macchiaioli, in particolare su Fattori. Dopo diversi viaggi in Francia e in Inghilterra, tornò a Roma, dove dopo il 1870 fu attivo promotore di associazioni pittoriche puriste (la Scuola Etrusca, 1883), aggiornate sulle recenti tendenze preraffaellite.90

In verità, Costa viene ricordato pure come fondatore della scuola In arte libertas, ma non c’è dubbio che le indicazioni della Scuola etrusca sono una delle chiavi per decifrare la pittura della sua generazione. Ripeto: la borghesia al potere voleva, come dire?… costruire gli italiani; ma, a differenza dei francesi, gli italiani trovavano l’identità nazionale nei fasti del passato, nel presente c’era poca grandeur di cui andare orgogliosi.

Da noi c’era stato Pietro Giordani ed il purismo letterario ad indicare i grandi modelli trecenteschi; c’era stato anche lo stesso Giuseppe Mazzini, che aveva cominciato la carriera di agitatore politico scrivendo il saggio Sopra il monumento di Dante. I nostri intellettuali – e, perciò, anche i pittori – finirono per coniugare il bisogno di testimoniare la modernità con l’amore per la tradizione. Era la nostra specificità.

Anche altrove, in modo diverso, succedeva qualcosa del genere. Per esempio, nella Prussia che si avviava a diventare Germania Johann Gottlieb Fichte, coi famosi Discorsi alla Nazione tedesca, poneva un sentire filosofico a base dell’identità teutonica.

Insomma, finita l’era delle grandi dinastie, irrompevano le nazionalità (con il bacillo delle catastrofiche degenerazioni novecentesche).

E, per quanto ci riguardava, che colpa avevamo se in Italia non c’era che letteratura?

Tornando al nostro Sebastiano Guzzone, si può quindi ripartire con alcune delle pochissime parole interessanti che su di lui sono state scritte, quelle di Carmelo Dionisio:

Ma quale pittore fu Guzzone? Ecco fu – tanto per cominciare – acquarellista principe, e come tale fece sulle prime cose graziosissime, fin troppo indulgenti a certa moda di allora.91

A confermarle, abbiamo alcuni titoli (confortati dai sopravvissuti clichet per la stampa, ora nel Museo “Guzzone”): Presentazione della sposa (costumi veneziani del secolo sedicesimo), Il premio al vincitore della giostra, Ciociara, Amleto che rifiuta i doni di Ofelia, Il primo nato, La funzione nuziale, Il traditore schernito, Scena galante.

Queste opere ebbero premi e acquisti prestigiosi. Sappiamo, per esempio, che Guzzone partecipò a ben due mostre alla Royal Accademy di Londra e a due mostre della stessa Accademia di Manchester. In quest’ultima città, per esempio, venne acquistato l’acquerello Amleto che rifiuta i doni di Ofelia.

Guardando le immagini si capisce il motivo di tanto successo, poiché si scopre che, pure quando, come in Scena in giardino, egli recepì le novità della nuova pittura en plein air, lo fece in una versione mondana.

La sua ispirazione, come ho detto, era più letteraria che storica. Era esattamente ciò che nella borghesia europea ci si aspettava dai nostri artisti.

Molto intenso, perciò, fu il suo rapporto con la committenza straniera, in particolare col gallerista parigino Brebant, conosciuto nel 1878, quand’egli si recò nella capitale francese ed a Londra, per far conoscere i suoi quadri, soprattutto gli acquerelli.

Vendette tutto e chiuse col mercante d’arte un contratto triennale.

Restano, così, alcune lettere, dove si evince la coscienza da parte dell’artista del valore, anche venale, del suo lavoro:

Carissimo Zio e Famiglia.

Ho ricevuto con ritardo la vostra lettera raccomandata, perché mi trovavo da parecchi giorni in un paese vicino Roma per dipingere.

Sento quanto mi scrivete tutti, e due nelle lettere e sento anche la lettera del Padre Scirè.

Per portarvi una testimonianza di quello che vi scrivevo in più lettere avante a questa, che io non potevo e sino ad oggi anche non posso disporre di somme per i noti pagamenti: che eccovi una lettera che io ricevei il 6 maggio da Parigi sul riguardo dei quadri che gli aveva spediti, che sino ad oggi stiamo trattando per la vendita; leggetela. Ma non voglio che la portiate a farla leggere a chicchesiasi persona. Nella lettera troverete che sono due quadri uno per L: 5,000 e l’altro per L: 1500 che egli si sta adoperando per venderli. Se vedo che si ritarderà la vendita di essi; vedrò per quanto mi sarà possibile di aver denaro d’altra via. Questo fatelo sapere al Padre Scirè, poiché dal tempo poi, che io promisi al suddetto Scirè di impegnarmi per tale restituzione, credo che non siano 7 mesi e trattandosi di non poche lire; bisogna che abbia non poco d’altra pazienza, e che avrà il suo denaro.

Gli bacio le mani non che alla Mamma ed abbracci il fratello e la sorella.

Obblig.mo

Sebastiano Guzzone92

E in allegato:

Sig.re Guzzone

J’ai reçu la caisse contenent votre tableau avec quel votre aquerelle (…) je peu vous vendre le tableau aussi que l’aquerelle a un pris que vous ne voulez : 5.000 f. l’huile et l’autre 1.500 f. »93

E’, inoltre, documentata la notizia su di un probabile allargamento delle vendite nel mercato americano:

Carissimo zio

Ricevei l’ultima tua lettera il 17 aprile, alla quale, non ho potuto rispondere per quello che in essa mi scriveva, a causa che aspettava alcune notizie di Francia riguardanti alcuni affari per Nuova York, America; che sino ad ora non ricevo; e quindi non posso ancora prendere decisioni, riguardo al venire in Sicilia.

Io sono in buona salute, come spero di Vossia e della famiglia, e baciandole le mani, non che alla Mamma, abbraccio il fratello e la sorella.

Abbisogno risposta.

Sebastiano Guzzone94

Un discorso a parte, infine, si deve fare sui piccoli disegni a matita. Purtroppo, quelli arrivatici sono pochissimi. Consistono, per lo più, in studi per opere di maggiore respiro, oppure in apunti per fermare sulla carta un’ispirazione.

Il loro pregio, però, mi pare che stia proprio in questa loro natura. Innanzitutto, si apprezza la bellezza del disegno, capace di costruire volumi straordinariamente pieni, con uno sfumato di perizia rinascimentale.

Ma, non meno ammirevole è la capacità di raffigurare, oltre ai tratti somatici, il carattere ed i sentimenti del personaggio.

In particolare, nel Museo Civico di Militello si conservano tre opere di vaga ispiazione quattrocentesca, una Testa virile, una Testa di ragazzo ed una Testa di vecchio.

10

Il carnevale romano: il liberty di Ernesto Basile

(1885)

Nella seconda metà dell’Ottocento, anche nell’architettura si tentarono audacie innovative.

Di quel fermento, qualcosa arrivò persino in Sicilia, se pensiamo che presidente del Circolo Artistico di Palermo fu un artista di dimensioni europee, Giovan Battista Filippo Basile (1825-1891).

Aggiungeremmo che le novità arrivarono persino nello sperduto paesino d’origine di Guzzone, dato che il Basile vi venne per i suoi legami di affetto con la famiglia militellese dei Tineo.

Per l’esattezza, egli aveva potuto completare gli studi classici ed il corso universitario di scienze fisiche e matematiche, grazie al generoso sostegno del prof. Vincenzo Tineo (1791-1856), figlio del celebre Giuseppe95 e secondo direttore dell’Orto Botanico di Palermo.

In verità, i maligni pensavano che Basile fosse il figlio naturale di Vincenzo Tineo e non quello legittimo del povero custode dell’Orto Botanico, il che ci porta ad un dubbio: o il paesaggio coniugale era variegato anche a quei tempi, o resta poco variegato quello dei maligni.

I viaggi del Basile a Militello non restarono senza conseguenze. Infatti, per accontentare le richieste di Salvatore Majorana, nel 1887 egli assunse il compito di realizzare nella cittadina un Teatro Comunale.

Era un enorme motivo di orgoglio cittadino, dato che l’architetto aveva già avuto modo di percorrere tutti i gradi di una prestigiosa carriera.

Basti dire che nel 1878 gli era stato dato l’incarico del progetto della Sezione italiana all’Esposizione Universale di Parigi ed il successo era stato tale che il governo gli aveva conferito le due Commende di San Maurizio e della Corona d’Italia e quello francese, oltre a chiamarlo a far parte della Giuria internazionale per le Belle Arti, lo aveva decorato con la Croce di ufficiale della legion d’onore.96

Purtroppo, però, le cose andarono in modo tale che alla fine si poté soltanto vedere quanta devastazione può portare la faziosità politica.

Più specificamente:

Verso il 1875, con l’intento di trasformarlo in un pubblico teatro, il Comune di Militello acquista dal senatore Salvatore Majorana Calatabiano il fabbricato dei trappeti Pollina (…) Secondo il progetto estimativo del Basile (presentato il 5 agosto 1888) la mera somma occorrente per la costruzione del teatro ammonta a £. 76.597,62, rappresentando una piccola spesa in considerazione del gran monumento d’opera d’arte (…) che si sta edificando in Militello, e che fu sempre l’aspirazione di questa cittadinanza militellana.

Ma, per quanto strano possa sembrare, con l’intervento prestigioso di Giovanni Battista Filippo Basile inizia la parabola discendente di un sogno a lungo accarezzato ma mai realizzato. Basile infatti morì nel 1891, i suoi rari viaggi a Militello, dove peraltro si dovette occupare di altri progetti di opere pubbliche, probabilmente non gli permisero di seguire meglio la direzione dei lavori della costruzione del teatro. Lasciò al comune cinque disegni per i quali vennero acquistate altrettante cornici coi rispettivi cristalli per esporli alla pubblica ammirazione in una sala del palazzo comunale (…) Nel 1903 si parla già di provvedimenti per la censuazione del fabbricato, per il fatto che il teatro lasciato in abbandono, senza tettoia, corre pericolo di demolirsi interamente e che risulta oneroso l’annuo canone enfiteutico di £. 550 da pagarsi agli eredi di Salvatore Majorana. Nel dicembre del 1906 nell’interesse della pubblica incolumità si decide di provvedere alla demolizione delle parti pericolanti e nel 1915 ad appaltare i lavori di demolizione del primo piano in quanto per il deterioramento della consistenza della muratura i mezzi perimetrali del teatro avevano perduto la primitiva solidità statica minacciando di rovinare con evidente pericolo dei passanti (…) Nel 1919 infine il regio commissario del Comune ordina la stima e quotizzazione del locale e dei manufatti del teatro (…) per poterlo vendere o concedere in enfiteusi ai privati.97

La spiegazione del fallimento sta nel fatto che, dal 1892 al 1915, arrivarono al potere i fratelli Benedetto (1854-1935) e Tommaso Cirmeni (1835-1910), nemici giurati dei Majorana Calatabiano.

E subito Tommaso, tanto per mettere in chiaro le cose, costruì il suo palazzotto accanto all’area del teatro e cominciò a brigare contro il poco che era già stato costruito.

Fatto sta che il figlio di Giovan Battista Filippo Basile, Ernesto (Palermo, 1857 – 1932), destinato a diventare uno dei maestri internazionali del Liberty, finì per entrare anche lui nell’orbita di Salvatore Majorana Calatabiano, come il suo quasi coetaneo Sebastiano Guzzone. E, come Guzzone, nella metà degli anni ottanta egli viveva a Roma, professore di Architettura nella Scuola degli ingegneri ed Architetti, con un curriculum già allora di tutto rispetto:

Nel primo concorso pel monumento nazionale al Re Vittorio Emanuele in Roma 1882, il progetto di lui, presentato in collaborazione col padre suo, ottenne la medaglia d’argento. Nel concorso per il Palazzo del Parlamento (1884), il Basile vinse il secondo premio, il primo non essendo stato conferito. Nel primo concorso pel Palazzo di Giustizia in Roma (1884), fu tra i primi cinque dichiarati di pari merito ed ugualmente premiati. Nei concorsi successivi per lo stasso edificio (1885-86-87), dopo vari scarti la lotta fu costretta fra lui e il prof. Calderini; al Celderini venne affidata la esecuzione dell’opera, al Basile il primo premio stabilito nel programma. Nel 1885, il Governo gli affidò il progetto e la direzione dei lavori pel monumento nazionale ai Caduti nella battaglia di Calatafimi.98

L’incontro e la collaborazione tra Sebastiano Guzzone, Ernesto Basile ed il pittore Salvatore Franciamore di Mussumeli avvenne a partire dal 12 gennaio del 1885, quando vennero chiamati gli artisti delle varie regioni, per scenografare dei carri carnascialeschi, da far sfilare durante il Congresso delle maschere italiane, che doveva tenersi a carnevale, quindi dal 10 al 16 febbraio.

Cominciate le riunioni, vennero all’uopo stanziate delle somme e si stabilì che per ogni carro si formasse una commissione con personalità residenti a Roma, ma provenienti dalla regione rappresentata.

Così, i nostri tre artisti, nella prima riunione operativa del 15 gennaio, formarono la commissione siciliana, presieduta dal comm. Laganà, direttore generale della Società Generale Navigazione Florio, il che non meraviglia, dati gli strettissimi rapporti tra Ernesto Basile e l’armatore palermitano Ignazio Florio, già abbondandamente indagati dagli storici99 (quasi per niente, invece, quelli che lo stesso ebbe col Majorana; e soprattutto quello tra Majorana e Florio, dato che ambedue furono liberisti in materia di dazi doganali).

Alla fine della riunione, il nostro Sebastiano, accettando l’incarico di realizzare il progetto artistico anche a nome degli altri due, poteva scrivere

Chiamati con apposito invito dalla fiducia del comitato del carnevale, a rappresentare la parte artistica della commissione Siciliana per la formazione di un carro, noi ben volentieri accettiamo l’incarico, trattandosi di una cosa riguardante l’onore ed il prestigio della nostra amata Sicilia.100

Il risultato, poi, ce lo comunica il nostro don Mario Ventura:

Rimasero tutti soddisfatti del progetto redatto dal nostro Guzzone (…) L’insieme consisteva in una Conca d’oro (…) Il carro era trainato da tre pariglie di bianchi buoi con le corna dorate e guarniti di ricche gualdrappe infiorate (…) Rappresentava, insieme all’aquila, la regale Palermo. Detta Conca reggeva una figura slanciata di donna biancovestita che alcuni dicevano rappresentasse la Sicilia libera dal giogo borbone, poiché tutti i costumi dei partecipanti erano del tempo dei Vespri siciliani.101

Il gran successo di pubblico che ebbe il carro confermò la bontà della scelta della commissione. L’allestimento siciliano vinse il primo premio ed ebbe una buona eco sulla stampa, come confermò il “Fanfulla della domenica”:

Grande chic come linea artistica, come ricchezza di carro, come eleganza dei costumi. Vi sono le palme, i Titani vinti, dell’oro e dell’azzurro; la maschera siciliana che fa le svenevolezze alle signore e i cavalieri dei Vespri che conquistano subito il cuore delle donne buttando sui balconi ventaglini cinesi, ombrellini giapponesi, bomboniere fantastiche con tanta violenza di entusiasmo che le signore applaudiscono tutte.102

E più avanti:

Come ieri manifestammo la prima impressione che il carro dei siciliani fu il migliore oggi non esitiamo a confermare la stessa opinione. La novità del soggetto il valore artistico attrassero subito la nostra attenzione e noi dobbiamo congratularci con gli egregi pittori Sebastiano Guzzone, e Salvatore Franciamore nonché col giovane architetto Basile, tutti siciliani per aver dato sì bella prova del loro talento artistico.103

Fu perciò con legittimo orgoglio che Sebastiano potè inviare allo zio due grandi fotografie del carro, con questa lettera di accompagnamento:

Vi ho mandato ieri in un pacco a mezzo posta due grandi fotografie del carro della Sicilia, che ho fatto io unito ai miei due amici siciliani. Il costume dei personaggi è del Trecento come ai tempi dei Vespri. Ai piedi del carro siamo fotografati io, il presidente del Comitato comm. Laganà, Basile, e Franciamore. Sopra il carro è il presidente della camera di commercio di Messina, che tiene in mano un tamburello ricchissimo da me dipinto, che abbiamo dato in omaggio alla regina l’ultimo giorno del carnevale nella via Corso a Roma.104

Sappiamo che la Regina gradì il regalo, stando alle parole del marito, Umberto I, nella primavera successiva, mentre visitava una Mostra degli artisti residenti a Roma,come risulta in una lettera del pittore allo zio:

Nell’attuale esposizione del circolo artistico che venne inaugurata dal Re, presenti molti ministri e ambasciatori, sua Maestà mentre visitava le opere esposte, quando fu davanti al mio quadro, chiese al presidente di volerne conoscere l’autore. Il presidente mi presentò al Re, il quale mi strinse la mano e si rallegrò con me domandandomi da quanto tempo ero stabilito a Roma. Al che risposi da quando avevo compiuti i tredici anni e precisamente dal 1869. Sua Maestà si congratulò assai e aggiunse di ricordare di aver visto altri miei quadri e del tamburello regalato dai Siciliani alla Regina nell’ultimo giorno di carnevale aggiungendo: “La Augusta Consorte lo conserva gelosamente insieme alla tarantella in una vetrina del suo appartamento privato.”105

La Tarantella a cui Guzzone si riferisce era uno spartito, acquerellato da lui stesso, che conteneva una canzone composta appositamente per il carnevale, con musica di G. Marè e parole di Giggi Z., al mondo Luigi Zanazzo, già incontrato come animatore dell’Accademia di Giggi.

Purtroppo, tanto successo ebbe poi uno sgradito strascico di contenzioso economico. Basile e Franciamore, infatti, espressero qualche perplessità sui costi del carro carnascialesco. Si pensi che soltanto in dolci, confetti e fiori si era spesa la favolosa cifra di diecimila lire di allora.

Ma, il conto davvero spaventoso era quello del fornitore di colori, Dario Sanguinetti.

E proprio con quest’ultimo non ci sentiremmo di mettere la mano sul fuoco che non ci sia stata un po’ di cresta sui prezzi.

Il sospetto ci viene dal fatto che, inoppugnabilmente, i Guzzone erano da tempo in rapporti di affari con lui. Lo dimostra già l’incipit di una lettera del 1881, scritta dallo stesso Sanguinetti, dove si usano toni toni piuttosto bruschi:

Carissimo Guzzone

Poche righe in tutta fretta.

Mi dicono da Roma che lo scultore Bartoli non si è più curato di vendere qui pochi sacchi di sommacco che ancora erano rimasti a magazzino perciò la prego a volersene curare un poco lei perché non vada a male.

Un negoziante al quale parlai del sommacco mi chiede con urgenza i campioni e i prezzi. Scriverei direttamente a suo fratello e zio per averle ma non lo posso fare perché non ricordo l’indirizzo, perciò prego a farlo lei. Scriva subito che per mezzo di posta indirizzino al mio magazzino a Roma un campione per ogni macinazione di sommacco, cioè uno al naturale, uno a mezza macina e uno a macina intera. Spieghi loro come non devono fare per la spedizione di detti campioni sapendo che la posta riceve fino a 300 grammi. Se quello nuovo è già tagliato dico che lo mandino di quello perché del vecchio non ne vogliamo. Contemporaneamente scrivino a me il prezzo dato sul piroscafo a Catania e indirizzino la lettera a Livorno. Quanto si potesse avere a poco prezzo io vedo che sarebbe bene che ne fissassero una certa quantità ad es. da 4 a 500 quintali per tenerlo a disposizione per ogni richiesta e di tale piccola quantità nemmeno chiesi di venderla bene inteso che vorrebbero comprarla della qualità migliore. Ella capirà caro Guzzone che in commercio non si può offrire della mercanzia che non si ha a disposizione…106

11

Viaggio di nozze a Parigi e le fotografie di Nadar

Una lettera del 1879, spedita dall’amico scordiense Gaetano Modica, ci è parsa sorprendente.

Stupisce il fatto che lo scrivente, il quale aveva visto crescere il nostro artista ed aveva antichi rapporti di amicizia con don Rosario, usi un tono che appare quasi timoroso. E per non sbagliare lasciamo che sia il lettore a giudicare:

Mio carissimo amico

Pria di tutto ti prego di sapermi compatire se or che sei già uomo, e virtuoso artista, ed onorevole cittadino, ardisco tuttora darti del tu.

Che vuoi, ti ho visto nascere, scorsi la scintilla del tuo genio, molto, mi cooperai pel tuo meglio, e quindi mi lusingo averne il diritto. In ogni modo perdonami.

Ieri sono stato in Militello ove quella mia disgraziata sorella soffre cotanto pei suoi acciaccati figlioli, ed ebbi occasione vedere il tuo buon zio e famiglia, i quali tuoi parenti sono tutti buoni e mi rapportano tante ottime cose sul conto tuo e sono gratissimi a tutto quel bene che loro hai fatto sinora.

Non puoi credere le calde preghiere che pel tuo meglio rivolgono al Cielo la tua ottima madre, e la buonissima tua sorella, che si è fatta un fiore di bellezza. Lo stesso pratica il tuo buon zio, il quale, non so perché, nol trovo ilare e contento come una volta, ma spesso pensoso si giace pensieroso ed oppresso. Forse la tua lontananza ed il benedetto male nervoso che soffre tuttora. E sa che tu verrai per carnevale egli che tanto ti ama, certo si rimetterà dallo abbattimento in cui adesso si trova.

Io nel passato settembre era sul punto di passare da costà, ma qui mi rimasi, ove Iddio ci volle in questo infelice anno di tutto privare. Non cereali, non olio, non sommacchi, e niente di bene. Insomma ogni benestante in questo anno soffre e pena, e beato tu che ne sei lontano. Non parlo poi della povera gente che si muore di fame, non trovando in questa le risorse della gente di città.

Godi della tua situazione, fa quel bene che puoi, e lodo immensamente le largizioni alla tua famiglia massime in questo benedetto anno in cui tanto si stenta.

Nella speranza di abbracciarti in settembre venturo se il Cielo non sarà anche crudele ti stringo con sincero affetto la mano e pronto ai tuoi cari comandi ti auguro felicissimo anno nuovo e tutte le benedizioni di Dio.

Credimi il tuo aff.mo amico vero

Gaetano Modica107

A confermarci nella sorpresa, ancora, c’è uno scritto sul retro di una lettera di Sebastiano, dove ritorna il tono timoroso. È di una grafia grossolana, presenta delle cancellature e qualche vistoso errore di ortografia e di sintassi; tutte cose che, insieme alla sigla posta a firma. ci fanno pensare che si tratti della brutta copia di una lettera del fratello Salvature (Tutù):

Carissimo Fratello

Ti abbiamo mandato due lettere un l’ultimo di maggio e l’altra 13 di giugno. E si nora (sic!) non abbiamo avuto alcuna risposta; ora ho pensato di venire in Roma io stesso con Modica perché voglio se piace a te mettermi in collegio per così seguitare a studiare ciò; che piace anche a te.

T.108

E non ci aiuta certamente a cambiare parere una risposta di Sebastiano a tante preoccupate sollecitazioni:

Carissimo Zio e Famiglia

Questa mattina ho spedito un telegramma nel quale annunziavo che verrò in Sicilia, a Dio piacendo, in questi giorni; viaggio che ora mi è di svantaggio ma che lo intraprendo per le notizie che mi da (sic!) riguardanti la salute della Mamma.

Ma io venendo a Catania resterò, tutto, 8 o 10 giorni in Catania perché non bramo vedere alcun paesano ne (sic!) che anche lo sappiano. Non aggiungo che probabilmente rinnovellandosi le nuove delle poco prospere cose della casa, debbo ritornarmene con irrequietezza e bili (sic) a Roma.

Scriverò di nuovo il giorno che arriverò a Catania, ove dovendovi la Mamma farvi i bagni, ci troveremo tutti la (sic!).

Gli bacio le mani unitamente alla Mamma ed abbraccio Tutù e Maristella

Tuo obblig.mo nipote

Sebastiano Guzzone109

Come si vede, egli non si rivolgeva più allo zio col tono sottomesso di qualche anno prima. Anzi, sembrerebbe che volesse starsene lontano, ignorando l’ambiente di origine.

La spiegazione potrebbe trovarsi nel fatto che nel 1879, e per tutti i primi anni Ottanta del secolo, in casa Guzzone ci furono grossi problemi.

Magari c’erano debiti che non si potevano onorare; c’erano sementi ed innesti che non si potevano comprare; c’erano malattie e malannate che non davano pace.

E, a coronamento di tutto, c’era la vicenda giudiziaria di Salvatore che dava angustie.

E’ vero che, probabilmente, Sebastiano cominciava a raccogliere buoni frutti dal suo lavoro. Ma, evidentemente, era anche diventato il punto di riferimento della famiglia, sostituendo di fatto lo zio.

Avrà quindi subito il peso ed il fastidio delle nuove responsabilità. Per cui, non riuscendo a star dietro a tutte le richieste economiche, si sarà sentito stretto, oppresso da troppe necessità prosaiche:

Carissimo Zio e famiglia.

L’altro giorno ho ricevuto la sua lettera raccomandata nella quale mi scrive per l’affare Capuana e per l’affare di Tutù.

Io gli ho scritto una lettera nei giorni orsono, nella quale gli dicevo che momentaneamente non potevo ajutarli, né per l’affare di Capuana, né per l’affare di Tutù, non avevo e tuttora non ho denari per mandarvi, per causa che mi si ruppe quel quadro per la strada di Roma a Londra, quindi mancandomi tal denaro non posso ajutarvi: non è colpa mia. Questo quadro rotto che dopo ho aggiustato l’ò rispedito a Londra, ora vedremo che risposta avrò di là. Come potrò vi manderò denaro e verrò anche un poco di tempo in famiglia.

Intanto pregate Capuana se vuole attendere ancora per favore, perché come ho detto da parte mia non posso ancora mandare denaro.

Regolatevi più che potete per l’affare di Tutù, fate tutto quello che più potete per lui; perché se io non sono in Militello, ci siete voi, ed è lo stesso.

Bacio le mani a Lei ed alla Mamma, ed abbraccio il fratello e la sorella e saluto gli amici.

Sebastiano Guzzone110

In questi stessi anni egli strinse i rapporti col già incontrato Sanguinetti. All’attività di pittore affiancò quella di commerciante. Con quanto successo non sapremmo dire, se i debiti di famiglia continuavano a perseguitarlo:

Carissimo Zio e famiglia.

Speditemi più presto possibile la carte per ipotecare il Fondo che voi crederete (come abbiamo fatto l’anno scorso con Sciannaca) e così mi daranno il denaro per il sac. Scirè. Sono ritornato in Roma da Assisi 10 giorno sono, e questa mattina ho potuto conchiudere quest’affare.

Le difficoltà che ho incontrato queste due volte sono perché i fondi sono lontano da Roma, altrimenti l’avrei fatto ad assai di più.

Io ancora non ho conchiuso quell’affare dei quadri, che già ve ne ho scritto i prezzi, per ragione che vorrebbero un ribasso che non devo accordarlo: ma attenderò delle altre occasioni prossime.

Ricevei quella carta esecutiva dallo Scirè in Assisi.

Non ho scritto prima perché non avevo a potervi scrivere niente di conchiuso per questo affare.

Ho ricevuto anche da Sanguinetti una lunga lettera al riguardo del sommacco. Leggetela e mi scriverete quello che ne pensate.

Per i campioni che egli scrive di 300 grammi sono borsette che ci va un pugno di sommacco e si spediscono con la posta per una spesa di qualche due soldi (a questo punto c’è un disegno del sacchetto) Si spediscono legati e basta: potete dirigerle a me 28 S. Giacomo.

Io sono in buona salute così spero di voi tutti. Bacio le mani a Lei ed alla Mamma ed abbraccio il fratello e la sorella.

Seb. Guzzone111

Tanti pensieri venivano da creditori puntuali come le tasse e magari da qualche nuovo affare, per cui occorreva aver del denaro a disposizione.

E’ strano come in Sicilia i pensieri non siano l’eterea prerogativa dei filosofi, ma un sinonimo di preoccupazioni. Non mi pare perciò per nulla disdicevole il tono ed il contenuto di lettere che non ci si aspetterebbe scritte da un artista.

Sebastiano Guzzone era molto religioso e quindi non fuggiva davanti alle responsabilità. Era molto attaccato alla famiglia, inoltre. Il che gli conferisce una kierkegaardiana dimensione etica.

Ecco perché ad un certo punto decise di prendere in mano la situazione.

Per raddrizzare i conti, stilò un vero e proprio regolamento su come tenere la cassa comune, come s’è visto precedentemente. Diventato capofamiglia, del capofamiglia prese pure i modi bruschi.

In questo ruolo anche il suo rapporto con la pittura si fece un po’ venale. C’è una lettera del 1881, in cui a garanzia di un impegno col barone Alfonso Reina indica puntigliosamente il valore dei suoi quadri:

Carissimo Zio.

Ho ricevuto con grande piacere la sua pregiata lettera dell’11 corrente gennajo, per la quale mi fa conoscere le ultime risoluzioni di Sua Ecc. il Barone Reina pel quale le accludo una lettera che la prego di presentarla a sua Eccellenza. Come pure le do alcune notizie riguardanti la mia posizione, che potranno servire da guida a sua E. il Barone. Naturalmente non posso darle nella più grande precisione; i miei calcoli saranno approssimativi e se erro, però, spero non andare nell’esagerazione: non volendo apparire finanziariamente più di quello che sono sicuro che sua Eccellenza ha anche riguardo a me, da me immeritato, estraneamente agli interessi. Dunque io posso calcolare in lire 20.000 rata parte, i beni paterni, materni e dello zio. Dallo studio mio, in collezione d’oggetti d’arte rustichi lire 25.000, ed in quadri miei esistenti L: 15.000. In somma di denaro variamente impiegato e parte presso di me l: 20.000. Quadri spettanti la signora C. L: 8.000; altri mobili di casa credo in L: 3.000. Questo francamente quanto vossia potrà fare consegnare al Sig. Barone pur sempre che non deluda con questo, quanto si converria adeguatamente il partito.112

Purtroppo, un anno dopo la disponibilità finanziaria non c’era ancora, se il barone scriveva queste parole:

Riv.to Sig. Guzzone,

Trovami in trattative con la Sig. Giovanna Pollina per la compra della sua quota di fondo Catalfaro indiviso con me e con D. Giuseppina Ristagno e come tale ho di bisogno del denaro.113

Per fortuna successo e prestigio dovevano arrivare, prima o poi; e con essi il sospirato benessere. Il periodo galante, se non il massimo dell’arte, gli dette almeno un minimo di tranquillità.

Nel 1885, infatti, poteva considerarsi un artista arrivato, esponendo nel prestigioso Salon di Parigi:

Mi onoro di informaevi che dopo la chiusura del “Salon” ho raccolto per voi dieci articoli di giornali concernenti le vostre opere.114

Così, nel 1888 Sebastiano potè pensare al matrimonio.

Matrimonio combinato, s’intende, come si conveniva a un buon massaro. E, per colmo di soddisfazione, andò ad impalmare Gaetanina Baldanza, una nipote del Reina:

Con atto del sei maggio milleottocentoottantotto () Ricevuto da questo Avv. Notaro Tommaso Cirmeni appare che la dote di lire venticinquemila e cinquecento appartenenti alla signorina Gaetanina Baldanza giusta la rispettiva a questa assegnata dal padre D. Vincenzo Baldanza e dal Cav. D. Giuseppe Baldanza e dalla madre Giuseppina Reina in Baldanza, che la Gaetanina Baldanza col consenso dei genitori suddetti assegna a se stessa per come meglio e più dichiaratamente leggasi…115

Il resto non fu silenzio, ma una preghiera che seppe tradursi in capolavori pittorici.

12

Il periodo meditativo: la proto-metafisica di Jean François Millet

(1886 – 1890)

La fruttuosa ragnatela di influenze da cui scaturì l’unicità artistica di Sebastiano Guzzone è stata indicata – per la prima volta priva di paesani innamoramenti – dallo storico dell’arte Franco Grasso:

Quasi dimenticato è Sebastiano Guzzone (Militello val di Catania 1856 – Firenze 1890); studiò all’Accademia di San Luca, a Firenze osservò attentamente i macchiaioli, a Parigi gli impressionisti. E tuttavia la sua pittura non appare né eclettica né contraddittoria, ma procede da una puntuale resa veristica ad una più sciolta fluidità, che però non distrugge i valori plastici necessari alle meditate composizioni storico-romantiche e all’approfondimento psicologico dei ritratti. Un mercante parigino conclude un contratto triennale con l’artista ventiduenne; i suoi acquerelli sono ammirati a Londra nel ’79; la stampa parigina loda l’Interno della Cattedrale di Assisi esposto al Salon dell’85; la Morte del Petrarca ottiene la medaglia d’oro all’esposizione nazionale dell’87 a Venezia. L’ultimo suo dipinto è un Autoritratto (coll. Eredi Guzzone, Militello) che nella posa e nella morbidezza delle stesure rivela il carattere malinconico del pittore.116

Molto generiche, invece, appaiono le parole del localistico Alfredo Entità, che conseguentemente fu un critico facile agli entusiasmi:

Presente in mostre nazionali di maggiore interesse, viene più volte premiato e lodato dalla critica. Stimolato a manifestare un suo linguaggio, va a Parigi a contatto di quel rinnovamento pittorico. Qui accentua la già ricca tavolozza acquistando rinomanza specie di delicato acquerellista. Tiene studio a Roma e a Firenze ma è spesso a Londra e a Parigi dove lascia molte opere. Nel 1887 viene premiato a Venezia con medaglia d’oro per la Morte di Petrarca(…) La Scena in giardino degna di un Corot, uno soprattutto degli autoritratti e alcuni ritratti di famiglia, sebbene veristi, sono opere altamente meritorie.117

Più aderenti ai reali valori, infine, mi sembrano le parole scritte nel 1991 da Salvatore Di Mauro:

Il pittore intraprende due strade: la prima è quella tradizionale, legata all’ambiente accademico, ai soggetti storico-romantici molto resistenti ancora nella pittura dell’Ottocento. La seconda, invece, quella del realismo, o per meglio dire, quella che veniva dai fermenti della scuola napoletana o da quella fiorentina. Non poteva quindi il nostro pittore non avvertire il sentore delle novità che si manifestavano al di fuori del suo ambiente; la frequenza poi dell’ambiente parigino si manifestava efficacissima.

L’influsso coevo della letteratura verista meridionale è presente in molta parte della sua produzione, non bisogna tuttavia dimenticare che il pubblico, soprattutto italiano, non era certo avvezzo alla modernità; quindi notiamo che l’artista asseconda con molta indulgenza, a volte, questo gusto del pubblico pur sempre ancorato all’episodio di stretta marca romantica.118

Dovendo adesso parlare noi, purtroppo constatiamo che le opere che ci restano sono troppo poche per contestare, o confermare, i giudizi precedenti. Ed il numero non aumenta di molto se vi aggiungiamo le immagini fotografiche, che in mille modi avventurosi sono state recuperate. Ma tenteremo ugualmente di farne una lettura, perché una ricerca deve pur sempre concludersi con un’interpretazione.

C’è la certezza comunque che con Guzzone siamo davanti a un artista dimenticato non si sa perché. E non speriamo nemmeno che questo scritto possa mettervi riparo. Se dovesse avvenire, sarà stato per puro caso, per uno di quei rarissimi casi di libri letti.

S’è visto. Quel che resta ci è parso sufficiente per individuare tre scansioni nella sua produzione. Le abbiamo chiamate periodo accademico, periodo galante e periodo meditativo.

Come era prevedibile, l’ammirazione generale si è soffermata in maniera pressoché unanime sul periodo galante. E’ il più facile da apprezzare. Incanta la ricchezza delle cromìe, lo splendore delle architetture, il baluginare degli ori, il movimento dei drappi. C’è, insomma, tutto ciò che può dare la frivolezza del ricamo.

In maniera più sfumata, diremmo che esprime sentimenti lievi e vaporanti, dove la vita non è vita ed il gesto è posa teatrale.

Qui c’è il canto dolcemente malinconico della poesia di un Salvatore Di Giacomo:

Nu pianoforte e notte

Sona luntanamente

E la musica se sente

Pe’ l’aria suspira’…

Manca, perciò, l’urlo di un Munch.

Ma, c’è un quadro che potrebbe porsi come una svolta nella produzione del nostro artista, anche se la realtà sociale dei poveri sembrerebbe ancora mera arcadia.

Parliamo di Pastorello malato, acquerello presente nel Museo del Castello Ursino di Catania.

Esso piacque particolarmente ad Enzo Maganuco, vate della critica etnea a metà del Novecento:

Un pittore siciliano del quale già abbiamo detto per averne conosciuta ed apprezzata tutta l’opera, interrotta anzitempo dalla morte, è Sebastiano Guzzone da Militello, che nel 1889 dipingeva il grande acquerello di questa raccolta e che a me sembra, accanto al ritratto della zia d’altra collezione, fra le opere più significative di questo delicato e pur potente artista.

L’acquerello Pastorello malato mostra con chiarezza quali torti abbia da scontare la critica nei confronti dell’800 siciliano; si tratta di un’opera di rara nobiltà in cui l’artista dà misura altissima delle possibilità della tecnica ad acquerello quando sia al servizio di uno spirito capace e geniale.

Questa pittura rugiadosa ci pare aderisca a questo soggetto come il metro anapestico al tempo di marcia e la toccata dell’organo al lampeggiare umano ed imprevedibile degli stati d’animo.119

Per noi, più semplicemente, il pregio di quest’opera sta in una specie di elegante sconsolatezza.

Quel fanciullo, come la Silvia di Leopardi, come il compagno di collegio nell’Aquilone del Pascoli, è l’efficacissima metafora della sensibilità umana uccisa dall’opaca indifferenza della malattia. Un fiore sul selciato, o i rovi che le piogge autunnali colorano prima di farli marcire, non sarebbero meno eleganti, ma non per questo meno tragici.

La stessa dolcezza un po’ melanconica si finisce per ritrovarla anche nei ritratti.

Così, è stato individuato il suo capolavoro nell’ultimo Autoritratto. Ma, certamente notevoli sono pure il pastello Probabile ritratto della figlia del pretore di Assisi Locatelli e l’olio Ritratto della moglie donna Gaetanina Baldanza (1889, ieri nel Museo Civico di Militello ed oggi fra le opere rubate nella colpevole indifferenza dell’opinione pubblica paesana).

In quest’ultimo quadro – del quale trarremo un ingrandimento fotografico -, in particolare, il contorno chiuso del viso, pur ingentilito dalla solita morbidezza dei passaggi chiaroscurali, si scioglie poi in libere pennellate nella figurazione degli abiti.

Sono esiti di una preziosità discreta, che, senza arrivare a distruggere le forme, danno vita ad un’intricata tramatura di colori.

In sintesi, il fascino dell’ultimo periodo di Guzzone, quello meditativo, risiede proprio nel velo di quieta malinconia, che esalta romanticamente la bellezza dei personaggi.

E non a caso nelle altre opere del periodo è predominante la rappresentazione degli interni.

Sono le scene di preghiera o di composta meditazione, che fanno di lui un pittore di prima grandezza.

In esse l’ortodossia cattolica si ripropone come una poetica Metafisica in anticipo sui tempi – chissà se Giorgio De Chirico ebbe modo di vedere il guzzoniano Interno della Chiesa di San Francesco d’Assisi nel suo soggiorno parigino -.

Ovviamente, chiariamo, si tratta di una Metafisica ancora priva della novecentesca inquietudine esistenziale, che fu propria, oltre che dei De Chirico, anche dei Carrà e dei Morandi.

Nei lavori del nostro artista, invece, si fa pittura un sorprendente e suggestivo silenzio e lo spazio si eleva a raffigurazione dell’uomo in colloquio con l’infinito.

Sperando che un giorno siano presentati al pubblico, organicamente inseriti in una grande retrospettiva riparatrice, vogliamo, ancora, ricordare gli acquerelli su cartone Meditazioni di Petrarca su Sant’Agostino e Monaci in coro. Ed ancora Due benedettini del Trecento, Festa in chiesa e La morte del Petrarca.

Con quest’ultima opera, come s’è detto, egli partecipò all’esposizione di Venezia del 1887, vincendo una medaglia; mentre Festa in chiesa, in occasione dell’Esposizione di Palermo del 1891, un anno dopo la sua morte, fu acquistata dal Re e destinata alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Se ne conosce, inoltre, un’altra versione, battuta in diverse aste internazionali, della quale fortunosamente, è stata recuperata l’immagine.

Sono questi gli ultimi due riconoscimenti che ebbe. Davvero poco… o forse molto, se pensiamo che l’epoca odierna non ha orecchie che per il frastuono.

Per fortuna resta la testimonianza scritta di un suo grande ammiratore, Ernesto Basile.

E’ una lettera a Salvatore Guzzone, che si conserva nel Museo Civico (dove c’è anche un cenno al grande pittore Domenico Morelli):

Carissimo Sig. Guzzone,

rispondo prontamente alla sua pervenutami stamani.

Come Le dissi altra volta la Commissione superiore delle Belle Arti ha tenuto qui la massima riserva, né io io potuto sapere fino ad oggi quale sia tra i quadri del suo compianto Fratello quello acquistato o proposto per l’acquisto. Divido però pienamente le sue idee. Se si tratta della scena fiorentina si può discutere sul prezzo offerto; ma se si vuole acquistare il quadro rappresentante Santa Maria la vecchia di Militello bisogna pagarlo molto di più e cederlo a così basso prezzo non è conveniente.

Mi creda con ogni speranza

Suo aff.mo

Ernesto Basile

P. s. Scrissi al Morelli per accettarmi di quale quadro si tratta.120

Eccoci, così ritornati all’inizio di questo libro, cioè all’Inventario stilato pochi giorni dopo la morte di Sebastiano Guzzone, avvenuta a Firenze, per un’influenza trasmessagli dalla moglie (che invece ne uscì viva).

Oggi le sue ossa vanno consumandosi quasi dimenticate nel Cimitero degli artisti della città toscana.

Ma presto, grazie all’iniziativa del Presidente della Regione Sicilia, Nello Musumeci, le reliquie del pittore verranno riportate a Militello, per essere custodite nella Chiesa del Monastero benedettino – una vera e propria piccola Santa Croce locale, che già conserva i resti mortali di don Francesco Branciforti, illuminato Principe dei primi del Seicento, e dove si propone che vengano sistemate le ceneri del senatore e ministro Salvatore Majorana Calatabiano, che del Guzzone fu protettore, oltre ad essere il capostipite di una famiglia prestigiosissima, nella quale nacquero il rettore dell’Università di Catania e deputato Giuseppe, il ministro Angelo e, soprattutto, il genio della scienza moderna, Ettore Majorana. –

Tutto ciò a loro e nostra gloria.

1 Salvatore Silvano Nigro, Presentazione, in Biblioteca di Giovanni Verga, catalogo, Catania, 1985, p. XIX.

2

“(…)

  1. Quadro grande rappresentante la morte del Petrarca;
  2. acquerello a 2 figure con cornice dorata e cristallo;
  3. acquerello ad una figura seduta rappresentante il Petrarca, con cornice dorata e cristallo;
  4. abbozzo, acquerello tirato per tavola rappresentante un vecchio fratellone x L:150;
  5. acquerello d’un Cinciaio (sic!) seduto sotto cristallo semplice;
  6. una testa a pastello su cartone senza cornice;
  7. quadro ad olio, testa di donna con cornice dorata;
  8. figura di una monaca all’impiedi che legge;
  9. quadretto in tela ad olio, figurette di donne di costume fiorentino non terminato;
  10. quadretto in tela rappresentante giardino, scena moderna;
  11. tre tele dipinte ad olio non terminate;
  12. piccolo quadretto di paese su tavola con cornice porporina;
  13. un abbozzo di testa d’un frate su tela con cornice dorata;
  14. un abbozzo d’una figura di vecchio seduto con una statuina in mano con cornice dorata;
  15. un quadretto su tavola rappresentante una donna seduta in cucina di albergo;
  16. n. 4 bozzetti su tela rappresentanti: uno abbate, ispirazione di Bellini, processione della scesa del Crocefisso,, ed un coro di monaci;
  17. n. 44 tavolette, studii;
  18. bozzetto in tela, interno di chiesa con figure;
  19. bozzetto, figura del ‘500 su d’una terrazza con cornice porporina;
  20. n. 32 bozzetti su tela senza telaio;
  21. n. 4 copie, la Fornarina di Firenze, S. Apollonia di Carlo Dolce, Raffaello, una figura della Trasfigurazione e n. 7 tra quadri diversi di poco valore;
  22. quadro rappresentante Giobbe senza telaio;
  23. quadro senza cornice rappresentante la Sibilla del Domenichino ad olio;
  24. bozzetto del Petrarca in piccolo;
  25. n. 2 tele, copie rappresentanti La casta Susanna ed il Cristo trasfigurato da Raffaello;
  26. mezza figura su tavola bozzata;
  27. Crocifisso, scultura del 300 in legno.?

3 Boutard, Dictionnaire des baux-arts, 1826 ; in Fortunato Bellonzi, Il divisionismo nella pittura italiana, Milano, Fratelli Fabbri, 1967, p. 10.

4 Mario Ursino, Scheda su “Marina d’Ischia” di Giacinto Gigante, in Galleria Nazionale d’Arte Moderna / Le collezioni / Il XIX secolo, catalogo, Milano, Electa, 2006, p. 156.

5 Franco Grasso, Leto, monografia supplemento al n. 5 (anno II) di “Kalòs”, Palermo, ottobre 1990, p. 18.

6 Don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone / pittore dell’ultimo ottocento, Catania, Compagnia Industriale Tipografica Editrice Meridionale, 1960, p. 31.

7 In Gino Raya, Ottocento inedito, Roma, Ciranna, 1960, p. 69, dove il Rapisardi in una lettera all’amico Enrico Onufrio scrive: “Il vostro articolo mi è giunto molto gradito, tanto più che voi, indovinando un mio desiderio, avete corretto lo strano apprezzamento di Uriel sulla natura della mia poesia.

8 Uriel, Esposizione degli acquarellisti, in “Capitan Fracassa” di Roma del 16 marzo 1883; riportato in don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone…, cit., p. 98.

9 In “Capitan Fracassa” di Roma del 9 febbraio 1881; riportato in Franco Grasso, Leto, cit., p. 19.

10 Nel Museo civico “Sebastiano Guzzone” di Militello sono presenti due ritratti fotografici di donna Gaetanina Baldanza, moglie del Guzzone, eseguiti da Nadar evidentemente durante una visita della coppia a Parigi.

11

“(…)

  1. Calzette dispari di color diverso l’una dall’altra
  2. 6 maniche di seta a varii colori
  3. Un camice bianco per fratellone
  4. 2 vesti da donna di raso, una bianca ed una verde
  5. Una giubbotta del secolo passato di broccato
  6. Una tenda di tela celeste
  7. 2 mantellini di costume spagnolo
  8. Un abito di monaca non completo
  9. 6 pezze di stoffa attaccate ai credenzoni
  10. 2 comò uno con lastra di marmo
  11. Una consolida con lastra di marmo
  12. 2 divani
  13. 8 sedie imbottite a seta
  14. 2 poltroncine
  15. Una colonnetta con lastra di marmo
  16. 2 credenzieri
  17. Un letto con pagliericcio
  18. Un credenzino con 7 cassuoli
  19. 5 pezze di tela parte bianca altri blù
  20. Un davanzale d’altare con ricamo di margheritini
  21. Una cotta da chierico
  22. Un pezzo di stoffa bianca (marcellina)
  23. Un paio calzoni a maglie per modello
  24. 2 giusta cuori uno rosso e l’altro bianco
  25. 6 camicie semplici dorate una lavorata
  26. 2 tavole una più grande ovale e l’altra che si piega
  27. Una stufa di ferro
  28. Attacca panni
  29. 8 cavalletti per studio di pittura
  30. 8 cassettini per uso di pittura

200 pennelli per pittura involtati in carta

311 tavolette semplici

12 volumi Letteratura italiana di Tira Boschi (sic!)

  1. volumi Annali d’Italia di Muratori

7 “ Il gesuita moderno di Gioberti

2 “ Storia di monsignor Paolo Giovio

47 “ Nel regno dei morti di Carlo 5°

9 “ Biblioteca popolare di Davila

1 “ La donna cattolica

  1. volumi compresi in tre libri dizionario mitologico di Declaustre

1 “ Sansovini Cenni di Venezia

4 volumi Sagra (sic!) Biblia (sic!)

1 “ Comemorazione di Cesare

1 “ Paschal (sic!) opera francese

2 “ Vico Scienza nuova

1 “ Dante Divina commedia

1 “ Giambollare Storia d’Europa

1 “ Il parrocchiano istruito

1 “ Storia di Milano di Covio Ber.mo

1 “ Grammatica inglese

1 “ Guida di Venezia

2 “ Dizionario inglese italano

1 “ Principio di composizione italiana

3 “ Storia fiorentina di Segni Bernardo

1 “ Insegnamenti di architettura di Brizzi

1 “ Atlante di geografia universale

1 “ Catalogo del museo di Gloni (sic!)

1 “ Illustrazione sacra

1 “ Architettura civile di Vignola

1 “ Fascicoli di Michele Bruto

1 “ Bibbia sacra antica figurata (1705)

Volumi dispari costumi antichi e mod.

1 “ Storia non completa

1 “ Meraviglie del corpo umano Descuret

1 “ L’uomo di corte Baldassarre Graziano 1698

1 “ Compedio di storia patria Ercole Ricotti

Letture interessanti di papa Clemente 4/1776

  1. Trattato della pittura di Leonardo da Vinci

1 “ Sossia (sic!) Persa (sic!) libro spagniuolo 1621

1 “ Storia universale sacra e profana di Giacomo Aldione

1 “ Cento lavori scalchi (sic!) in versi

1 “ Cognizione della mitologia 1695

1 volume Poesie toscane di V. da Pelicaia

1 “ raccolta di lettere del Cardinale Bendivoglio (sic!)

1 “ Satire di Giulio Giovinale

1 “ Trattato del governo della famiglia

1 “ Nuova guida dei contorni di Firenze

1 “ Scielta di lettere famigliari di F. Redi

1 “ detto “ “ Annibale Aleari

1 “ Catalogo di Collezione di Notturno

3 “ Biblioteca mista ed economica

1 “ Francesco Petrarca notizie storiche

2 “ La Ventura di Telemaco

11 “ Illustrazione inglese

1 “ Tragedie e poesie di Ugo Foscolo

1 “ Confessione di uno disilluso

1 “ Trattato di igiene di barbiere

1 “ Seconda parte degli opuscoli morali di Plutarco

11 “ Spartiti cioè Muller, Clemente, Capoleti (sic!), La favorita, Barbiere di Siviglia, Anna Bolena, Mosè, Norma, La sonnabula, Lucia, ed I puritani

  1. Cassettini riempiti di pastelli

1 “ Capricci di Battaglia

14 “ Album

58 “ Fotografie per modello.”?

12 Giulio Carlo Argan, L’arte moderna, Firenze, Sansoni, 1970, p. 195.

13 Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana, vol. III, Dall’Ottocento al Novecento, Milano, Einaudi scuola, 1991, pp. 273/274.

14 Pietro Carrera, Frammenti sulla storia di Militello, manoscritto, Biblioteca

comunale “Angelo Majorana” di Militello in Val di Catania.

15 Notizie sulla diatriba campanilistica in Nello Musumeci, La guerra dei Santi a Militello, Catania, Società Storica Militellese, 1979.

16 Foglio 380 N. 270 dell’Archivio parrocchiale della Chiesa Madre San Nicolò – SS. Salvatore; in don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone…, cit., p. 16.

17 Atto di nascita di Sebastiano Guzzone n. 219 14 settembre 1856, Municipio di Militello, anno 1856.

18 Don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., p. 18.

19 Verbale di deliberazione della Giunta Comunale, Museo Civico.

20 In Carte e corrispondenza di don Rosario Guzzone, Museo Civico.

21 In Carte e corrispondenza di don Rosario Guzzone, Museo Civico.

22 Citato in nota da don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit. p. 18.

23 In Carte e corrispondenza di casa Guzzone, Museo Civico.

24 Lettera al fratello Salvatore – Assisi il 1° Aprile 1882, Museo Civico.

25 Lettera di Gaetano Modica, in Carte e corrispondenza di don Rosario Guzzone, Museo Civico.

26 In Carte e corrispondenza di don Rosario Guzzone, Museo Civico.

27 Cfr. Carte e corrispondenza di don Rosario Guzzone, Museo Civico.

28 Carte e corrispondenza di casa di Guzzone, Museo Civico.

29 Foglio d’iscrizione legale n. 283, in Carte e corrispondenza di don Rosario Guzzone, Museo Civico.

30 Francesco Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri, Palermo, Sellerio, 2003, p. 783.

31 In Atti del Parlamento, II, p. 468; cit. in nota in Francesco Renda,, Risorgimento e classi popolari in Sicilia

1820-1821, Milano, Feltrinalli, 1968, p.123.

32 Giuseppe Pagnano, voce “Majorana Calatabiano Salvatore”, in Militello dalla A alla Z, a cura di Nello Musumeci, Biblioteca della Provincia Regionale di Catania, 2003, p. 181.

33 Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, volume sesto, Lo sviluppo del capitalismo e del movimento operaio 1871-1896, Milano, Feltrinelli, prima edizione 1970, prima edizione nell’”Universale economica” 1978, p. 80.

34 Don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., p. 18.

35 Lettera datata Roma 26 Maggio 1882, Museo Civico.

36 Appunto, Museo Civico.

37 Deliberazione del Consiglio Civico di Militello V. N. / nella seduta del 2 luglio 1860 / Regno costituzionaled’Italia / Re Vittorio Emanuele II / Governo del Generale Garibaldi / Dittatore di Sicilia, in Archivio storico del Comune di Militello in Val di Catania.

38 Il grosso delle ricerche di questo e del seguente capitolo sono state condotte e pubblicate in occasione di due nostre precedenti monografie, La Madonna nella figurazione artistica a Militello (1985) e Itinerari pittorici in Santa Maria della Stella (1986). Esse sono poi rifluite nelle voci di mia competenza dell’opera Militello dalla A alla Z, a cura di Nello Musumeci; e nella piccola storia dell’arte a Militello dal titolo Dalla Natività di Andrea Della Robbia ai contadini di Santo Marino.

39 Lettera di Sebastiano Guzzone al fratello – Roma il 6 gennajo 1881,Museo Civico.

40 In nota a Don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., p. 17.

41 Giuseppe Pagnano, Immagini devote di Militello nei secoli XVIII e XIX, Militello, Edizioni del Museo S. Nicolò, 1986, p. 8.

42 A. Bertarelli, Le stampe popolari italiane, Milano, Rizzoli, 1976, p. 3.

43 Luigi Lombardo – Giuseppe Cultrera, Le stampe devote del popolo siciliano, Chiaramonte Gulfi, Utopia Edizioni, 1 ediz. 1986, p. 10.

44 Di Nicolò Culosi è esposto nel Museo Civico un Sant’Alfonso M.A Liguori; di Emanuele Fagone un San Paolo.

45 Don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., p. 20.

46 Diploma, in Museo Civico.

47 Diploma esposto nel Museo Civico.

48 Atto di morte N. 198 di Guzzone Giuseppe fu Sebastiano e di Giuseppa Placenti.Municipio di Militello Anno 1872, in nota a don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., p. 18.

49 Lettera di Sebastiano Guzzone a Filippo Casabene, in Carmelo Dionisio, Il pittore, il tamburello e sua maestà,

in “La Sicilia” di Catania, 10/2/1987.

50 Lettera di Sebastiano Guzzone allo zio don Rosario – Roma, gennaio 1871, in nota a don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., p. 20.

51 Diploma, Museo Civico.

52 Basilio Magni, Storia dell’arte italiana dalle origini al secolo XX, 3^ edizione, vol. IV, Roma, P. Maglione e C. Strini – socc. Di Loescher, 1924, pp. 388/389.

53 Angela Ottino Della Chiesa, L’arte moderna, Milano, Touring club italiano, 1968, p. 9.

54 Corrado Maltese, Storia dell’arte in Italia (1785-1943).

55 Antonio Del Guercio, La pittura dell’Ottocento, Torino, UTET, 1982, p. 45.

56 Giulio Natali e Eugenio Vitelli, Storia dell’arte, vol. III, L’arte barocca; l’arte neoclassica e la romantica, Torino, S.T.E.N., 1909, p. 205.

57 Basilio Magni, Storia dell’arte italiana…, cit., p. 399.

58 Basilio Magni, ibidem, p. 414.

59 Ma, il centro vero di quel movimento fu Milano, dove operò anche lo stesso Hayez e dove si affermò l’arte di GiovanniCarnovali detto il Piccio (1804 – 1873).Altri luoghi importanti furono il Veneto, per la presenza di Domenico Bressolin (1813 – 1899), ed il Piemonte per Massimod’Azeglio (1798 – 1866) e FrancescoGonin (1808 – 1889), quest’ultimo celebre per aver illustrato un’edizione dei Promessi sposi. In Toscana, poi, si distinsero EnricoPollastrini (1817 – 1876) ed Antonio Ciseri (1821 – 1891), mentre in Campania dipinsero i già citati GiacintoGigante ed AntonioPitloo (1791 – 1837). Questi due ultimi esempi dimostrano che il romanticismo rappresentò pure un’epoca di grandi paesaggisti, il che dovrebbe portarci a non riservare la nostra ammirata meraviglia soltanto agli inglesi JosephMallordWilliamTurner(1775 – 1851) e John Costable(1776 – 1837), per non citare la troppo lunga schiera dei francesi.

60 Salvatore Di Mauro, Un acquerello di Sebastiano Guzzone, in “Militello notizie”, anno VI, n. 22, aprile 1991,

p. 12.

61 Museo Civico.

62 Collezione Garufi.

63 Cfr. Scheda, in Archivio del Museo “San Nicolò” di Militello.

64 Cfr. Scheda, in Archivio del Meseo “San Nicolò”.

65 Museo Civico.

66 Museo Civico.

67 Lettera allo zio don Rosario datata 17 giugno 1877, in don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., pp. 22/27.

68 Lettera allo zio don Rosario datata 22 gennaio 1878, in don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., p. 27.

69 Lettera di don Rosario Guzzone alla signora Casabene datata marzo 1878, in don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., p. 27.

70 Lettera di Giuseppe Cuttone a don Rosario (forse 1878), in don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., p. 32.

71 Guglielmo De Sanctis, Italia artistica illustrata, Venezia, 1887.

72 Voce Fortuny y Marsal, in L’universale, arte, cit., vol. I, pp. $14/415.

73 Angela Ottino Della Chiesa, L’arte moderna, cit., p. 67.

74 Voce Maccari Cesare, in L’universale, arte, cit., vol I, p. 696.

75 Opera presente nel Museo Civico.

76 Lettera di Sebastiano Guzzone allo zio – Roma il 14 agosto 82, Museo Civico.

77 Don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., p. 31.

78 Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, inv. 2225.

79 Galleria Nazionale d’Arte moderna di Roma, inv. 2.

80 Galleria Nazionale d’Arte moderna di Roma, reg. pr. 667.

81 Matteo Lanfranconi, Scheda alla fuga di papa Eugenio IV di Pio Ioris, in Galleria Nazionale d’arte moderna – Le collezioni, cit., p. 239.

82 Angela Ottino Della Chiesa, L’arte moderna, cit., p. 67.

83 Avviso di spedizione datato Roma 10 – 3 – 1894 di Pio Ioris a Salvatore Guzzone, Museo Civico.

84 Elena Di Majo, Scheda si L’apparizione della Vergine ai Santi di Luigi Serra, in Galleria nazionale d’arte moderna – Le collezioni, p. 239.

85 Museo Civico.

86 Lettera da Assisi del 3 Dicembre 81, Museo Civico.

87 Lettera a Sebastiano Guzzone, Assisi 11 – 2 – 1882, Museo Civico.

88 Don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit, p. 45 (in nota).

89 Ugo Pesci, I primi anni di Roma capitale, in don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., p. 30.

90 Voce Costa Giovanni, detto Nino, in L’universale – Arte, vol I, cit., p. 281.

91 Carmelo Dionisio, Il pittore, il tamburello e sua maestà, in “La Sicilia” 10/2/1987.

92 Lettera di Sebastiano Guzzone allo zio – Roma il 1 Giugno 1881, in Carteggio e corrispondenza di Sebastiano Guzzone, Museo Civico.

93 Lettera di un gallerista francese a Sebastiano Guzzone – Paris le 3 mai/81, in Carteggio e corrispondenza di Sebastiano Guzzone, Museo Civico.

94 Lettera di Sebastiano Guzzone allo zio – Roma 27 Aprile 1880, Museo Civico.

95 Cfr. In una carrellata dei personaggi prestigiosi dell’Ottocento militellese, in bell’evidenza, è quasi obbligatorio porre il naturalista Giuseppe Tineo (Militello, 1756-Palermo 1812). Era figlio di un dottore in legge, Vincenzo, e i suoi zii furono preti piuttosto reputati per la loro dottrina. L’ambiente familiare, quindi, fin da giovanissimo lo invogliò allo studio. Ben presto si trasferì a Palermo, dove, grazie all’opera illuminata del vicerè marchese Caracciolo e del suo successore, principe di Caramanico, cominciarono a nascere molte istituzioni di pubblica utilità (il primo Camposanto, l’osservatorio, le scuole normali, l’orto botanico). Il nostro Tineo, per la fertilità del suo ingegno, meritò di essere uno dei protagonisti, poiché, oltre ad essere cattedratico all’università, fu il primo direttore dell’Orto Botanico. Incombenza, quest’ultima, davvero difficile, se si pensa che, prima che gli venisse affidata, venne mandato a spese pubbliche nelle scuole di Pavia, dove entrò in contatto coi maggiori professori del tempo.

96 Cfr. Angelo De Gubernatis (a cura di), Dizionario degli artisti italiani viventi, Firenze, Le Monnier, s.d. (1887, pp. 40/43.

97 Salvatore Pio Basso, voce Teatro comunale, in Militello dalla A alla Z, cit., pp. 270/271.

98 Angelo De Gubernatis (a cura di), Dizionario degli artisti italiani viventi, cit., p. 39.

99 Cfr. AA. VV., 1891/92 L’Esposizione Nazionale di Palermo, supplemento a “Kalòs” di Palermo, marzo-aprile 1999; AA. VV., L’economia dei Florio, Palermo, Sellerio, 1991; Giuseppe Giarrizzo, I Florio senza miti, “La Sicilia” di Catania, 7/3/1991.

100 Lettera di sebastiano Guzzone al comitato per il carnevale, in don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit.,

p. 34.

101 Don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., p. 34.

102 Gibus, in “Fanfulla della domenica”, n. 43, del 14/2/1885.

103 Noi, in “Fanfulla della domenica”, cit.

104 Lettera di Sebastiano Guzzone del 27 febbraio 1885, in don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., p. 35.

105 Lettera di Sebastiano Guzzone a don Rosario, in don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., p. 38.

106 Letera di D. Sanguinetti a Sebastiano Guzzone datata Livorno 12/2/1881, Museo Civico.

107 Lettera di Gaetano Modica a Sebastiano Guzzone – Scordia, 29/12/1879, Museo Civico.

108 Retro di una lettera di Sebastiano Guzzone allo zio del 27 aprile 1880, Museo Civico.

109 Lettera di Sebastiano Guzzone allo zio – Roma il 18 luglio 1880, Museo Civico.

110 Lettera di Sebastiano Guzzone allo zio – Roma 30 Luglio 82, Museo Civico.

111 Lettera di Sebastiano Guzzone allo zio – Roma il 3 agosto 1881 / 28, via S. Giacomo, Museo Civico.

112Lettera di Sebastiano Guzzone allo zio – gennaio 1881, Museo Civico.

113 Lettera di don Alfonso Reina, Museo Civico.

114 E. Bonneau (direttore della “Corrispondenza artistica di Parigi”), Lettera a Guzzone del maggio 1885, in don Mario Ventura, Sebastiano Guzzone, cit., p. 41.

115 Atto di dote del6/5/1888, Museo civico.

116 Franco Grasso, Ottocento e Novecento in Sicilia, in Storia dell’arte in Sicilia, Palermo, Edizioni del Sole, p. 182.

117 Anonimo (Alfredo Entità?), Retro di una cartolina commemorativa per il Ritratto del pittore Sebastiano Guzzone, opera in bronzo dello scultore Carmelo Mendola, posta nei Giardini Pubblici, da dove è stata rubata nel corso degli anni Novanta, Museo Civico.

118 Salvatore Di Mauro, Un acquerello di Sebastiano Guzzone, cit., pp. 12/13.

119 Enzo Maganuco, La collezione Zappalà al castello Ursino, “Rivista del Comune di Catania”, anno II, n. 4, ottobre-dicembre 1954.

120 Lettera di Ernesto Basile a Salvatore Guzzone – da Palermo, 13 giugno 1892, Museo Civico.

Copia dell’aurora di Francesco Redi
Il martirio di Santa Caterina
SS. Salvatore
Il primo nato
Amleto e Ofelia
Autoritratto
Ritratto di Augusto Pollack
Ritratto della moglie Gaetanina Balanza
Jeli il pastore
Lettera di Brebant gallerista parigino
Carro carnascialesco
Filippo Casabene, Ritratto del Giovane Guzzone
Cosimo II sorprende la figlia col paggio
Ritratto della moglie
La Tribuna illustrata
Ermes
Festa in Chiesa
OLYFesta in Chiesa 2 MPUS DIGITAL CAMERA
Nadar, fotografie
Giobbe
Fontana
La morte del Petrarca
Pastorello malato
Spartito musicale
Il legislatore
Giovanni Garufi, copia della morte del Petrarca
Ritratto della signora Casabene