Rocambole Garufi: Le siciliane Attioni spectaculose di mons. don Camillo e del Sen. Peppone Bottazzi, Romanzo (PDF del libro, scaricabile gratuitamente)

Peppone e don Camillo, ormai arzilli vecchietti, scendono in Sicilia e animano la vita dell’Italietta pazzerella e cialtrona di Fine-Secolo…

Seconda Edizione riveduta e corretta

ISBN : 978-88-97966-17-3

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Prefazione

di Santo Fortunato

Per chi ha vissuto solo dalla seconda metà del secolo scorso l’oggi è tempo di emozioni leggere. Fuori dalla mente la ragione che non fa più quadrare i conti. Nell’anima un deliquio senza sussulti, senza nostalgia. piangersi addosso o riderci su,le contraddizioni che ci sono rimaste, riempiono il perimetro del quotidiano che ha ripreso la sua ciclicità senza più l’infinito del viaggio che inizia.

La vita, una necessità da sopperire, bisogna viverla ormai senza traguardi? Se così fosse avremmo scelto l’indecoroso pianto sul passato: il più è fatto, tanto vale ciondolare melanconicamente tra il perseverare della memoria, con buona pace della dignità.

Oppure scavare nelle nostre vecchie emozioni, ribaltandone magari il senso, può essere un esercizio ancora vitale? Certo, il sorriso, anche amaro, resta un elemento dignitoso di ripartenza per chi la memoria vuole assorbirla, piuttosto che usarla come un vicolo o le pareti di una stanza senza aperture. Per camminarci dentro a passare il tempo.

Salvatore Garufi “compone” nel romanzo quest’aria. La parola tesse nell’ordito letterario la sua corposità musicale. Vola le quinte di un localismo pretestuoso per lasciar posto a scenari assonanti. Apre le piazze e le chiese del paese per respirare il suo fiato universale. Cuce le isole dell’arcipelago culturale in un quadro grazioso di una prospettiva rivoluzionaria.

Attraversa, la parola, le ideologie decomponendole in transitu e rimettendole nello spirito dell’ideale umanistico, artigianalmente, senza la sicumera della scienza a ritrovare un’epistemiologia vigorosa, levata dai letti informatici.

Che ci sia di nuovo la possibilità di un viaggio e del suo infinito?!

I

L’arrivo di don Camillo in paese

Il 20 dicembre 1996, quando sorella notte calò la mannaia, etiam fratel vento scese dalle stelle, mentre dalle stalle saliva zia polvere (che, si sa, come Dio è in tutti i luoghi). Probabilmente, comincia così ogni rivoluzione degna di questo nome.

Di colpo, da una lontana ed invisibile breccia di Porta Pia, irruppe e s’udì l’urlo delle falangi in battaglia, il sonare delle tube, l’incalzare dei cavalli (scalpitanti sugli elmi a’ moribondi), i pianti e gli inni e delle parche il canto.

Purtuttavia, nell’ampia oscurità, che pareva contenere tutto l’enorme mistero dell’universo, venne per gli occhi un forte incantamento (e, se vogliamo, una dolcezza al core), poiché lessi la cabala di grandiose significazioni nel vento che tarantolava le imposte di case che s’aggrappavano su nell’aria, deformate da antiche atrosi; oppur, nel vento che infremitava le lampade e le ombre lunghe sulle vie; o, ancora, nel vento che prese a far batter le ali (come fossero galline agonizzanti) ai manifesti scollati sui muri.

Ovviamente, mi piacque fermarmi a meditare proprio sui manifesti. In semplicità, fumando la mia merit blu. Vi fabbricai una metafora dei dicembri del paese: quelle carte erano vive ed erano morte. Strepitavano, ma più nulla avevano da far leggere. Erano già corpi morti, quei manifesti. Sentivo i gemiti e gli strazi di voci già morte e fatte cadaveri. Domani, se non c’è sciopero, lo spazzino se li porta via, come ogni anno fa la Befana con le feste. E, poi, chi ci pensa più?

I dicembre sono proprio così, da noi. Crolli, se vuoi, col fracasso di un tetto di lamiera; ma, la tua, non è per nulla una morte eroica, che meriti il ricordo e l’ardua sentenza dei posteri. Ti fai fregare da una morte cosumata secondo consolidate abitudini. A dicembre, i vecchi vanno via a grappoli e subito la loro assenza diventa smenticanza, la loro assenza non si nota più.

Ma, i vecchi non furono sempre vecchi e perciò con loro vanno via pure le donne, i cavalieri, le armi, gli amori, le cortesie, le audaci imprese ed i tanti drammi che fecero inorridire e commuovere il cielo e la terra.

A malapena resta (qualche volta, non sempre) una traccia sbiadita ed estranea, un po’ di bava di lumaca, che si può vedere nella desolata piazza Matrice, magari a mezzanotte, l’ora canonica dei fantasmi, quando (dicunt, in partibus fidelium) un cane, certo l’anima inquieta di un morto, la attraversa mestamente da un capo all’altro.

Fra tutto questo po’ po’ di roba, io non sapevo che pensieri, e che speranze, e che cori, e quali torme di cure fossero nella mente di don Camillo, quella notte. Non so neppure quale allora gli appariva la vita umana ed il fato. Sospetto semplicemente che dopo un chilometro di strada (tanta era la distanza dalla stazione alla piazza), fatta a piedi, suo dì tardo traendo e con in mano il peso di un valigione, riflettesse più che altro sui piaceri del cibo e del riposo.

Arrivò, il nostro prete, quando il cane, dopo aver dimorato una gran pezza in mezzo alla strada, a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse il cuore di staccarsene, imboccava la salita che porta in piazza Sant’Agata, caracollando e tossendo e sputacchiando.

Sentendo i passi tardi e lenti di un chierico con nel corpo decenni di tortellini, ravioli e cotechini, la bestia tornò sulle sue zampate ed aveva occhi di bragia. Anche don Camillo si fermò a fissarla… perciò i due ristettero come un gruppo scultoreo collocato ai bordi di un presepio napoletano.

La scena naturalmente non apparteneva all’ordine delle cose immutabili. Quella bestia possedeva tempi brevi di cattiveria, come le bestie, appunto. Il suo primo intento, quello di attaccare, durò un niente, il frullo d’ali d’un passero pieno di tic, il tempo di sincerità nel discorso di un politico.

Essa, perciò, si fermò, come a sedere e mirare. Si fermò lì, immota, a sembianza di un dolce demone sognante in perplessità.

– Gesù – disse don Camillo, scrutando ansiosamente il cane, – non sarai mica tu che mi appari sotto le sembianze di un cane?

– E chi me lo farebbe fare, don Camillo, se sto qui dentro al caldo? – rispose l’ironica voce di un Crocifisso, da dentro la valigia.

– Ah, già! Che sciocco! – ammise don Camillo.

II

Parrocchiani innamorati

Intanto, altrove, s’inverava qualcosa di nuovo, anzi d’antico, e intorno nascevano le viole (quelle dell’amore e non i vegetali). Nascevano nella canonica, poco lontano, proprio dove stava per arrivare don Camillo, guidato dal suo naso, che scovava le chiese come un levriero la volpe.

L’incedere, in verità, era lento, dato che quell’uomo di Dio combatteva contro la sua tonaca, che gli si gonfiava fra le gambe, qual vela quando il vento è a prua.

Nella stanza erano in tre (o forse in due): un somaro e due briganti. C’erano Pasquale (il somaro) e Lucia Montegatta (sua sorella), più Amalia Leonardi (sorella di don Vittorio Leonardi, il parroco). In un’altra stanza stava Mazzacanagghia, mezzo parrocchiano e mezzo sacrestano.

Avevano appena finito di rassettare l’ambiente destinato a don Camillo ed ora Pasquale, Lucia ed Amalia cantavano in coro, pe’ fa la vita meno amara (e, sia detto per inciso, Pasquale ci provava con Amalia, che ci stava).

Mazzacanagghia era di là, a far cosa non ci è dato sapere. Per quanto concerne don Vittorio, invece, sembrerà incredibile, ma era scappato alla stazione, perché aveva scordato di andarci all’orario giusto per prelevare don Camillo dal treno.

Per l’intera giornata, infatti, era stato coi nervi tesi, don Vittorio. Sospettava che non fosse stata una laudevole e commendevole azione l’aver chiesto l’aiuto di un prete manesco e reazionario, tanto lontano in anima et in corpore dallo spirito innovativo, dialogante e gentile del Concilio Vaticano II.

Però, il flagellum Dei che scendeva a tenzonar contro di lui, disgraziatamente, veniva dal sol dell’avvenire duro e puro, o (se volete) dalla cortina di ferro romagnola, dove urla il vento e bussa la bufera. Trattavasi, praticamente, dell’ex comunista Peppone Bottazzi, ora senatore P.D.S., che nei circoli operai della Bassa padana e fra i seguaci di Manitu usavano chiamare Parla-coi-pugni.

Più avanti la situazione sarà chiara nei dettagli. Per adesso, mi basterà dire che, perso proprio su questi pensieri, per tutto il tempo don Vittorio aveva misurato la chiesa, lentamente, con incedere elegante (tipo: non si sa da dove vien, né dove vaaa…). Soltanto a mezzanotte meno dieci s’era battuto la mano sulla fronte, urlando:

– La stazione!

– La stazione che? – aveva chiesto MAzzacanagghia, che stava spolverando i candelabri davanti al quadro di San Gaetano.

– Il treno arriva alla stazione!

– Interessante – aveva ghignato il sagrestano. – Adesso il governo ci fa pure la carognata dei treni che arrivano alla stazione!

Si mise le mani ai fianchi e guardò il prete con aria sfottente.

  • Quindi, che dite di fare? La Rivoluzione, o ci accontentiamo di uno sciopero?

Don Vittorio non aveva risposto neppure ed era corso a prendere la macchina. Purtroppo, si era diretto alla stazione prendendo per via Baldanza, e poi su per via Roma e quindi per la circonvallazione. Don Camillo, invece, secondo informazioni ricevute in treno, era sceso esattamente dal lato opposto: giù, per tutta la via capitano Niceforo e subito dritto dritto per via Umberto I. Le vie del Signore, purtroppo, sono infinite e non sempre si incontrano.

Gesù, che tutto vede e a tutto provvede, si divertì più di tutti, perché, oltre a godersi lo spettacolo dei due preti che non s’incontravano, potè sorridere sul rinnovarsi del gioco dell’amore, che fiorisce per durare in eterno e sfiorisce poco dopo il matrimonio.

Lucia e Amalia, infatti, accompagnavano in coro Pasquale, che cantava e sembrava Nerone quando cantava e che guardava Amalia come Nerone guardava Roma che bruciava. Di contemporaneo c’era soltanto la chitarra (la quale, tuttavia, sempre uno strumento a corde è, come la lira).

Or avvenne che, quasi sulle ultime parole di quell’aura poetica, la greve prosa irruppe sulla scena sotto le spoglie di Mazzacanagghia, che per un attimo ristette sulla soglia, a guatare, col cuore di un saracino e gli occhi di Lucrezia Borgia.

– E ci mancava! – esclamò Mazzacanagghia. – Ih ih! Oh oh!… Sapete solo ballare, ridere e trippare!

Amalia arrossì fino al bianco degli occhi.

– Bella educazione! – disse Lucia. – Non mi hai chiamato per dare una mano? Se sapevo che, invece, c’era un funerale, non venivo!

– Per dir le cose giuste, mi spiego?… – saltò su Pasquale, grillo parlante col corpo di Pinocchio. – Amalia chiamò solo me.

Poi, a Lucia:

– Tu ti sei appizzata dietro, come una sanguisuga… Mi spiego?

– Guarda un po’! – si lamentò questa. – Venni perché c’era lavoro di femmina da fare.

– Io, invece, venni per fare lavoro di mascolo, mi spiego? – disse il fratello.

– Altolà! – lo apostrofò Amalia.

– Attia, Vastasu! – lo apostrofò pure Mazzacanagghia.

Una dolce cinesina in un film intramontabile dette guarentigia che l’amore è una cosa meravigliosa. Ma, le allusioni, signori, restano sempre delle volgarità e non piaccion mica.

Infatti, Pasquale cercò di riparare:

– Che dissi? Se ci sono pesi da portare, che cos’è? Non è lavoro di mascolo?

– Ah! – s’acquietò Amalia.

Però, memore dei doveri femminili nei bui e lunghi inverni del paleolitico, pensò immediatamente a come riattizzare il fuoco e disse:

– Veramente, ne mancavano scecchi alla fiera!

– Che? Che? – chiese Mazzacanagghia. – Dici scecchi per dire gli scecchi, che poi sarebbero gli asini, o dici scecchi per dire Pasquale?

– Parlò Marilena Morrò! – sopravvenne Lucia, che sempre sorella era.

– Ccà!… Manco tuo fratello è Alèn Delòni! – rise Mazzacanagghia, che, seppure fissato con Lucia, sempre maschio coi pantaloni era, pronta all’assalto garibaldino, per la Patria e per il Re e perché Dio lo vuole!

Pasquale squadrò tutti e, dato che c’era, anch’egli volle dir la sua sui fatti suoi:

– Io non capisco che cosa ha più di me ’sto Dilìn Dilòn!

Poi, dopo una pausa di pensosa incertezza, aggiunse:

– Mi spiego?

Al che Mazzacanagghia, opportunista com’era Paolo Rossi (il calciatore, non il filosofo; e neppure il comico) sotto porta:

– Di ciò che hai tu, lui non ha niente, per sua fortuna… e tu non hai niente di ciò che ha lui, per tua disgrazia!

– Minchia! – esclamò Lucia. – Dicesti offesa, per caso?

Quindi, sorrise col sorriso di Gano di Magonza e rifinì con un:

– Mi spiego?

III

Quando don Camillo arrivò in canonica trovò lo studio di don Vittorio con la porta aperta ed affollato come il Sahara dalle due alle tre di un pomeriggio di luglio. Mazzacanagghia e compagnia cantante, infatti, se n’erano andati di sopra, a chiarire la simiglianza di Pasquale con Alain Delon davanti alle straordinarie focacce siciliane (con segale, olive nere, pomodoro secco e tanta tanta cipolla).

Lo studio era una cosa spartana spartana. C’erano una libreria con sopra un giradischi ed una scrivania con sopra un telefono ed un registratore, che fuggivano cartesianamente, a linee rette. Al confronto, i legni da carpenteria erano roba chic.

Le tavole ed i cassetti poggiavano su strutture in ferro, modello tubi Innoccenti. Negli anni sessanta dicevano che questo era lo stile svedese (ma, per noi la Svezia era un sogno sopratutto se si parlava di donne).

In un angolo, poi, era stato buttato un salotto, dove i mobili stavano lì, più che altro, unendo le solitudini. Vicino alle poltrone tossicchiavano polvere un tappeto copto a dominante rossa, un tavolinetto col ripiano di vetro ed una fitta plebaglia di carte della curia vescovile.

Sparse lungo le pareti, rantolavano ancora otto sedie sopravvissute dalla stanza da pranzo di un pio benefattore morto trent’anni prima. Erano solenni e cialtrone, più di un candidato al parlamento, con le spalliere alte e cornute, preziose di intagli e scomodissime.

– Comincia male! – disse, perciò, don Camillo al Crocifisso, mentre appariva sulla scena.

Fece un catarroso sospiro e volle uscir a riveder le stelle, traendo fuori dalla valigia la Sacra Immagine.

– Gesù, sarete stanco! – continuò. – Ma non ve la prendete se non abbiamo trovato il parroco alla stazione. Che possiamo farci? Sono pretini giovani… complicati!

Guardò per l’intero orizzonte, stringendo le palpebre, cercando il punto giusto per appendere il Crocifisso e farsene sovrastare.

– Va be’, santa pazienza!… – disse al Crocifisso. – Ora vi debbo sistemare… Vi lascio la vista della finestra.

– Siamo alle solite, don Camillo! – lo rimproverò il Crocifisso. – Io, che ho moltiplicato i pani ed i pesci ed ho mutato l’acqua in vino, avrei bisogno di una finestra, per vedere ciò che succede fuori di qui?

– No, no, Gesù! Voi non avete bisogno di nulla. La finestra serve a me. Così posso guardarvi anche dalla strada.

– Sempre pronto a girare la frittata, neh!

Don Camillo si fece raffigurazione ed imagine della puerizia sorpresa con le dita nella marmellata. Per fortuna, fu faccenda di poco tempo, poiché, dopo dieci secondi esatti, s’illuminò d’immenso. Allora, tolse dalla parete ‘nfaccia alla fenesta ca lucìa una Mareggiata del celebre artista Vincenzo Laricchia di Napoli, acquistata dal pio don Antonino Semenìa, per ben trecentomila lire. E lì appese il Crocifisso.

– Eppoi… – disse don Camillo. – Chi lo sa! Hai visto mai che a qualcuno capiti di alzare gli occhi!

– Per scoprire che?

– Per scoprire voi.

– Non ci sperare, figliolo! Questi sono tempi brutti. Oggi la gente, quando guarda in alto, non vede il cielo, ma soltanto cartelloni pubblicitari… e rischia di pensare che un Crocifisso sia soltanto l’ultima trovata di Oliviero Toscano!

– E chi è costui?

– Un artista, uno che fa soldi con le fotografie matte… sono sue le campagne pubblicitarie della Benetton.

– Gesù, non bestemmiate!

– E tu non essere antiquato.

In quel preciso istante don Vittorio era sul punto di bussare per entrare.

IV

Colendissimo lettore, immagina una testa che fa capolino.

– Don Camillo? – chiese la testa.

– Non sono Gina Lollobrigida – rispose don Camillo, con voce robustosa, et calorosa, et forte.

Don Vittorio produsse uno squittìo smorzato ed agitò freneticamente le mani aperte ed accostate, dall’alto in basso e con le palme in giù:

– Parli piano, per l’amor del Cielo!

– E perché?

– Siamo in una canonica, perbacco!

– Lo so, conosco l’ambiente.

– Allora sa pure che questi posti hanno mille orecchie!

– Alto là, amico!… Le canoniche non sono dei… posti, come dici tu. Fanno parte della Chiesa di Dio, altrocché! E chi ci ascolta è… soprattutto Lui!

– Non solo Lui, purtroppo.

– Delle altre orecchie… io me-ne-fre-go!

– Questa qui non mi è nuova… – sussurrò allora il Crocifisso a don Camillo, con una risatella fresca che gli gorgogliava in gola. – L’ho sentita da un tizio pelato, che ruggiva in un balcone di piazza Venezia.

– E’ che uno vorrebbe trattenersi… – disse don Camillo. – Ma, sentendo certe cose! La pazienza scappa!

– A noi dunque, camerata don Camillo! – concluse il Crocifisso.

– Non esageriamo! – si schernì don Camillo. – Al giorno d’oggi, non si usa più.

– Non ci sono più camerati?

– No, quelli ci sarebbero… Ma chi li sente più ruggire? Al massimo vanno a fare le fusa nelle televisioni di Berlusconi.

Mentre la scena tra il Crocifisso e don Camillo andava dipanandosi, don Vittorio se n’era stato a guardare senza capirci na mazza, come sogliono dire a Parigi.

Egli, don Vittorio, non aveva il privilegio di sentire la voce di Gesù e nel moderno concetto positivistico del mondo tutto ciò che non si vede, non si tocca e non si sente semplicemente non esiste. Esso, il moderno concetto, fra l’altro, mi strazia l’anima, se penso che Sharon Stone, bella e bona, non mi ha mai né visto, né toccato, né sentito.

– Come la fa facile! – disse don Vittorio. – Lei che problemi ha? Si porta dietro un Crocifisso e si è tolto il pensiero! Che ne sa, lei, delle responsabilità d’un parroco, dopo il Concilio Vaticano Secondo?

– Nulla! Ai miei tempi si era fermi al Vangelo.

– Invece, mi perdoni, oggi anche la Chiesa vuol giocare il suo ruolo in politica.

– Bene! Noi con chi stiamo?

– Con nessuno… Ma, di sicuro siamo contro la destra reazionaria!

– Ma non eravamo contro i rossi?

– Eh no, don Camillo! La Chiesa non può andare contro la storia… Guardi che, se dovesse tornare in terra, anche Gesù… voterebbe a sinistra!

A tale enormità, don Camillo balzò in direzione di don Vittorio e parve un giaguaro molto appesantito.

– Gesù mio, perché fra le virtù cristiane ci avete messo pure la pazienza? – chiese al Crocifisso ed i suoi occhi speravano in un’immediata riscrittura della legge.

– Chi l’ha detto? – disse il Crocifisso. – Non ricordi come cacciai i mercanti dal Tempio?

– Oh, be’! Allora… – fece don Camillo e gli tornò nel volto il sole che sorge libero e giocondo. Strinse i pugni, mostrò i canini e s’avviò verso don Vittorio.

– Ho detto i mercanti, non i preti – lo bloccò il Crocifisso.

– E quello lì, a voi sembra un prete?

– Ha il suo modo di amarmi, anche se tu non riesci a capirlo… Se permetti, io so comprendere il cuore degli uomini.

Il ragionamento filava, come Berta ai beati tempi. Il nostro don Camillo fu subito stretto in un laccio aereo ed impalpabile, ma solido ed infrangibile.

Rassegnato a gettar la spugna, don Camillo chinò la testa. Ma, lo squittìo di don Vittorio, insopportabile giovine, rinnovò la fiammata:

– Quando avrà finito di far boccacce davanti a quel Crocifisso, vorrei esporle i fatti…

– Gesù! – guaì don Camillo. – Non vedete che costui è una bestia senza senno, né criterio?

– Ammetto che è difficile difenderlo – concesse il Crocifisso.

– Questa non gliela faccio passare… – disse don Camillo e aggiustò la mira sugli obiettivi strategici del naso e degli occhi di don Vittorio.

Fortunatamente, il Crocifisso lo bloccò di nuovo, puntuale come il destino cinico e baro.

– Don Camillo! – ammonì il Sacro Simulacro. – Considera che io ho perdonato San Pietro… Anche lui mi aveva rinnegato!

– Facciamo così, allora… Voi lo perdonate ed io ci vado giù di brutto!

– Se non riesci a perdonare gli antipatici, che merito ne avrai ai miei occhi?

– Dirò dieci avemarie di penitenza…

– Non basterebbero per il mio perdono.

– E certo! Lui, che vi offende, può essere perdonato… Io, che vi difendo, invece no!

– Chi ha più fede ha più doveri, don Camillo. Questo in seminario dovrebbero avertelo spiegato. Sai che, più di ogni altra cosa, mi offende la violenza… specialmente se praticata in nome mio.

. Ecco! Vedete come con le parole mi imbrogliate sempre?… Va bene, sia fatta la vostra volontà!

Volse a don Vittorio un sorriso un tantinino orrido, anche se migliaia di formichine correvano dentro le sue mani.

– Però! – si fermò a considerare meditabondo il vecchio sacerdote, mentre guardava don Vittorio con l’occhio valutativo di Guglielmo Tell prima far partire l’infallibile saetta. – Che peccato! Mica volevo fargli molto male!… Al massimo, due o tre buffetti, così, a mani nude, dati si può dire in amicizia!

Volse speranzoso al Crocifisso gli obliqui rai fulminei.

– Allora, che ne dite? – chiese. – No? Non volete proprio?

Gesù tacque e non vi furono più incertezze. Quel silenzio era un niet, un diniego eterno ed inamovibile. Era uno scoglio dove s’infrangevano le onde del mare e le speranze del naufrago.

– Perciò i peccatori diventano sempre più arroganti! – esplose, allora, don Camillo. – Pare che ci proviate gusto a giocare con una squadra di mollaccioni!

In quel preciso istante, nella pupilla e nel cuore del canuto prelato si dilatò l’immagine di un Crocifisso ancor più triste ed ancor più compassionevole. Da fuori s’udì neniare lenta e dolce sui vetri la pioggia detta assuppaviddanu. In quella stanzetta non dell’ultimo piano, come pioveva, così Gesù piangeva!

Don Camillo, per la vergogna della frase che aveva pronunciata, si morsicò le labbra a sangue e si augurò di sprofondare nella dura terra… che, ahilui, non s’aprì!

– Perdonatemi lo sproposito – disse ad alta voce il vecchio, tornato umile, mansueto e tenero. – Fate conto che non ho parlato. Più tardi reciterò dieci avemarie di penitenza… Ora debbo essere gentile col pretino…

All’interdetto don Vittorio, egli, quindi, volse un faccione rotondo e gesuitico, come una forma di pane con un taglio orizzontale, in basso.

– E mi dica, reverendo figliuolo – fece don Camillo. – Ella, che non parla con le statue, ma con i padri conciliari, questa balzana idea del Cristo comunista l’ha presa da loro?

– No – rispose don Vittorio. – E’ una frase che ho sentito ieri dal senatore Bottazzi. Mi ha telefonato per dirmi che arriverà domani.

V

La parola Bottazzi fu per don Camillo una mazzata in fronte. Egli fece un balzo indietro, un balzo tale che un don Camillo dalle fattezze snelle non ne avrebbe fatto uno uguale, anche se si fosse trovato ad odorare pipì di gatto.

In quel cognome c’era un bel po’ della sua vita.

– Bottazzi chi? – ansimò.

– Bottazzi Giuseppe, senatore del Partito Democratico della Sinistra.

– Bottazzi Peppone, allora!

– Proprio lui. Almeno, così l’ho sentito chiamare dai compagni di qui. Andranno a prenderlo domani all’aeroporto, alle otto e quaranta in punto.

– Noto che adesso la rivoluzione viaggia in aereo.

– E, comunque vada, per me sarà la fine!

– Ecco perché mi hanno spedito quaggiù! Capisco pure il motivo per cui il Vescovo si soffermava tanto su certi ricordi del passato.

– Appunto! Lei è l’unico che saprebbe tener testa a quel ciclone umano.

– Non mi lusingare troppo, figliuolo. Va be’ che con Peppone ho sempre vinto io…

– La Chiesa ha di nuovo bisogno del suo aiuto, don Camillo!

– Ma, non siete voi, i pretini con gli occhialetti smisciasciati e le paroline zuccherate, quelli che tenete in piedi la Chiesa? Che ci fate con un vecchio picchiatore come il sottoscritto?

– Le chiediamo di difendere il lascito fatto a questa parrocchia dalla signora Elvira Guarini, moglie del senatore Bottazzi.

– Elvira Guarini? Ma, la moglie di Peppone non si chiama così… Eppoi, saranno dieci anni che è morta!

– Il senatore Bottazzi ha sposato la signora Guarini in seconde nozze, tre anni fa.

– C’era da aspettarselo! Quando mai un comunista ha avuto la sensibilità di restare fedele a un ricordo?

– Don Camillo, i comunisti non ci sono più. Ora quella gente è democratica. Addirittura, ha principi liberali!

– E’ vero! Ed io sono miss Italia.

– E la signora Elvira era una nobildonna… cattolicissima! Pensi che era dirigente di Comunione e Liberazione. Quando è morta casa Bottazzi sembrava la succursale del Vaticano.

– Povero Peppone, allora! Resta una testa d’asino, ma sono addolorato per lui.

– Lo siamo stati tutti… Fermo restando, però, il dovere di far rispettare le ultime volontà della defunta.

– Che sono?

– Ha lasciato il suo patrimonio alla parrocchia.

– Quanto?

– Cinque miliardi.

– Mizzica!

– Prego?

– Niente! Un omaggio alla buonanima, ch’era siciliana.

– La somma è in depositi bancari, aperti a nome della signora e mio.

– Scommetto che adesso Peppone parla come uno sporco capitalista!

– Macché, al contrario! Ce l’ha contro i preti e l’educazione cattolica.

– Ma, non è D’Alema, il suo capo, quello che vuole un Paese Normale?

– Infatti, Bottazzi parla come uno di Rifondazione Comunista.

– Mio Dio! Ai primi cinque, miserabili miliardi!

Don Vittorio si alzò ed andò a mettere in funzione il registratore vicino al telefono.

– Ascolti – disse. – Da quando hanno preso a minacciarmi, registro le telefonate.

Trafficò col registratore, col pollice e l’indice messi a sestante, finché non trovò il meridiano ed il parallelo, cioè il punto giusto. Quindi, fermo e solenne come un monumento, fissò don Camillo.

– Ascolti – ripetè.

La voce di Peppone se ne uscì fuori dall’ap-parecchiatura, come il latte scordato a bollire sul fornello:

– Non mi farò battere dalle trame del Vaticano!… Conosco i pretacci!… So bene che, se si deve ristabilire la legalità, è necessario spaccare le teste!

Qui don Vittorio zittì il registratore e si lasciò andare sulla sedia, ieratico come un’icona bizantina.

– E’ Peppone, non ci sono dubbi! – confermò don Camillo.

– Pure il sindacato si ci è messo – piagnucolò don Vittorio. – Pare che vogliano scendere in piazza un milione di lavoratori.

– E come fanno, se gli abitanti di questo paesino saranno diecimila, sì e no?

– Ha ragione! Ho fatto confusione… Il milione di lavoratori erano quelli della manifestazione di Roma.

– Già! Era la Sinistra contro la Destra.

– E dopo c’è stata la Destra contro la Sinistra… e poi la Sinistra-sinistra contro la Sinistra… E poi, ancora, la Sinistra-sinistra e la Sinistra contro la Destra e la Sinistra moderata…

Don Camillo volse i suoi impazienti occhi di peccatore al Crocifisso.

– Gesù! – sussurrò il vegliardo. – Chi ci capisce è bravo!

Il Crocifisso rimase solennemente immobile ed impassibile. Soltanto negli occhi di don Camillo ci fu l’immagine di un Crocifisso che sobbalzava indietro, inoridito.

– Ah no, don Camillo! – esclamò infine il Crocifisso. – Nella politica non mi ci trascini! Vedetevela fra voi!

– D’accordo – si scusò don Camillo. E subito riportò la sua attenzione su don Vittorio, dicendogli:

– Torniamo a Peppone, figliuolo.

– Qui andrà peggio di Roma – disse don Vittorio. – Il senatore s’è impegnato ad impiantare una fabbrica coi soldi dell’eredità.

– Ecco! Gratta gratta il comunista e vien fuori il capitalista!

– Ed ha promesso assunzioni a non finire.

– Clientelismo democristiano! Gli italiani, o sono democristiani, o vogliono diventarlo!

– Democristiani? Ma, la Democrazia Cristiana è morta!

– Chiamala morta! Chi gioca in Italia? All’attacco Prodi, Andreatta, Mancino; al centrocampo De Mita e Gerardo Bianco; e non parliamo della difesa, dove c’è… lui!

– Lui chi?

– L’innominabile!… Quello dei duecento milioni al mese dai servizi segreti… quello che… Io non ci sto!

– Scalfar… cioè, il presidente della Repu… cioè…?

– Ci siamo capiti!

– Zitto, allora!… O si va a finire in galera, come Guareschi con De Gasperi!

Quasi seguendo un canovaccio della commedia dell’arte, in quel momento si udì un bussare alla porta.

– Oh, mio Dio! Chi è? – esclamò don Vittorio.

Don Camillo annusò l’aria e parve il veltro che verrà e che farà morir con doglia la bestia malvagia e ria.

– Speriamo che sia la squadra di Peppone – disse. – Così, cominciamo a menar le mani!

Purtroppo per lui, torreggiò invece una voce di virago, alta e sinuosa come un pitone danzante al flautare del fachiro.

– Sono io – disse la voce.

Don Vittorio potè riprendere le sospese attività respiratorie e comunicare:

– E’ Lina Longo.

– Peccato! – fece don Camillo.

VI

– Buonasera – disse Lina Longo, col viso prezioso e soave e solare e col chiaro ridere degli angeli.

– Buonasera – disse Grazia Furno, materializzatasi subito appresso, col viso gentile e soave e umbratile e col chiaro ridere degli angeli.

– Buonasera – disse don Camillo, sopra il cui viso il ridere degli angeli stava piuttosto di malavoglia.

– Ràpila, ’sta finestra! – intimò Lina Longo a Grazia Furno. Il chiaro ridere degli angeli s’era dileguato, come l’acqua al vaporante esplodere del solleone. – Non si respira, cca dintra!

– Come, come? – chiese don Camillo, ch’era grosso ed ignorante delle significationi portate dai lenti ritmi del dialetto di Militello.

Lina Longo sospirò davanti a tanta dura barbarie. Poi, tornò a rivolgersi a Grazia, traducendo con cristiana pazienza:

– Vai ad aprire la finestra, Grazia! Qui dentro non si respira!

Grazia non era il generale Cabronne cantato da Victor Hugo (nomi che neppure conosceva). Giammai dalla sua bocca sarebbe uscita la parola merde. Però, come Cabronne, Grazia era milite fedele. Corse ad aprire la finestra e le folate di bufera irruppero, senza neppur domandare permesso.

– ’Ssèttiti! – le intimò, quindi, l’amica-padrone, puntando il perentorio indice sulla vicina sedia. Per Lina Longo, evidentemente, anzicché dicembre, pareva fosse agosto inoltrato.

Grazia raggiunse il suo posto ed anche don Camillo s’accovacciò in un angolo, tremando per il freddo.

– Grazia, il ventaglio! – schioppettò Lina.

La sventurata rispose. Asseverò col capo e trasse dalla borsetta il ventaglio per Lina.

– Ora, possiamo cominciare… – disse Lina, finalmente con l’espressione rilassata che si ha nei pour parler. Prese a sventolarsi, col ventaglio che faceva un delizioso pendant gitano coi seni spavaldi.

– Aspetta, figliuola! – disse don Camillo. – Prima ordina alla tua amica di respirare!

Quindi, il pretaccio si alzò e provocatoriamente andò a chiudere la finestra, tagliando fuori il mondo e le urla villane del freddo.

– Non vorrei che soffocasse – aggiunse.

Lina si volse a guardare don Vittorio, come il naufrago scruta il lontano faro. Vide che il faro c’era e, perciò, affrontò don Camillo, che le veniva contro e pareva un leone, con testa alta e con rabbiosa fame.

– Patri Vittoriu, stu vecchiu parrinu nun mi piàcia! – disse.

– Vecchio l’ho capito – disse don Camillo. – Ed ho capito pure che non ti piaccio… Tu, invece, mi piaci!

Si portò le mani ai fianchi, riproponendo un’effige a metà strada tra i viados e gli energumeni della Bassa.

– Sei una donna che non mi fa pesare troppo il voto di castità – aggiunse.

Allora don Vittorio si fece pompiere. Accorse ed eresse fra i due divampanti fuochi una barriera di cortesi parolette.

– Sarà meglio fare le presentazioni, don Camillo! – disse. – Come le dicevo, questa è la signora Lina Longo, la moglie del sindaco… Mentre la signorina si chiama Furno… Grazia Furno.

Don Camillo volle aggraziare lo squaloso orifizio che teneva per bocca e fece un sorriso che risultò cavernoso. Così, lo tenevano in memoria quelli della Bassa: allegro come un bestione allegro.

Ad orrificare ulteriormente la visione, vennero le sue spire di boa costrictor, ch’egli s’ostinava a considerare dita. Esse si avvolsero attorno alla mano di Grazia Furno… dolorosamente, per Grazia Furno.

– Piacere – disse don Camillo.

Grazia, con animo perturbato e commosso, volse il viso a Lina e ne aspettò l’assenso.

– Molto piacere… – disse, quando l’assenso arrivò. – Grazia Furno, diplomata maestra giardiniera.

– Perbacco! – esclamò don Camillo.

Poi, volto a Lina:

– Figliuola, a te, invece, farò avere un’immaginetta del beato Pietro Donders… che non sopportava gli arroganti!

– L’ho detto! – si spazientì Lina. – Non mi piace! C’era bisogno di chiamare uno tanto vecchio, che per di più parla come un comunista!… E poi, fa caldo! Grazia, apri sta ca… ca… carulina di finestra!

– L’ha già aperta, compagna! Ed io l’ho chiusa – disse don Camillo.

– E’ che qui dentro, cara Lina, nun sciùscia… non soffia, non c’è aria… niente niente! – disse Grazia.

– Fosse solo per l’aria! – sibilò Lina.

– Che hai detto? – chiese don Camillo.

Non aveva sentito, o non aveva capito, o sospettava una proditoria ingiuria.

– Dice che stasera non c’è aria – disse don Vittorio, ormai pompiere in servizio permanente effettivo.

– Dico pure che… non suc-ce-de nien-te! – sillabò Lina, fissando don Vittorio (e lo guardava come Achille guardava Ettore, sotto le porte Scee).

– E che deve succedere, signora? – si allarmò don Vittorio.

– Lo so io! – disse Lina.

– Vorresti forse vedere un regolamento di conti tra preti e comunisti? – chiese don Camillo.

– E perché no? – ribattè Lina. – Almeno così… se ci sono… gli uomini si ve-do-no!

– Ah! – fece don Camillo.

Don Vittorio, sempre più pompiere, andò a sedersi nella sua solita cabina di regia, cioè dietro la scrivania.

– Prego, don Camillo… – disse al collega, invitandolo a sedere. – Non ci crederà, ma una volta la signora Longo era la più dolce di tutte le mie parrocchiane. Ora ha un modo di esprimersi un po’ brusco…

– Ora parlo come mangio – chiarì Lina.

– E’ da quando ha preso marito che è così – alitò Grazia.

Lina le rivolse lo sguardo della Gorgone e la poveretta, che non era Teseo, s’impietrì all’istante.

– Però, mi creda, è dalla nostra parte! – continuò don Vittorio. – Ella mi tiene informato sui movimenti di… quelli là! Anche se suo marito, il sindaco, è un fedelissimo del senatore Bottazzi.

– Finora, al partito non hanno deciso nulla – confermò Lina. – O, meglio, hanno proclamato l’attesa!

– Perfetto! – si compiacque don Camillo. – Siamo nella normalità comunista!

– Dice? – fece Lina. – Però, ciò che aspettano sta per arrivare.

– E cosa aspettano? – chiese don Camillo.

– Bottazzi – disse Lina.

– Forse… – cominciò don Vittorio.

– Vossia, si stia zitto! – saltò su Lina. – Ma, com’è possibile che siete più fermo di un timpuni?

Poi, volta a don Camillo:

– Traduco… Dissi che don Vittorio e un masso hanno l’identica capacità d’iniziativa!

Don Camillo sorrise, rassomigliando ad un grazioso bimbetto di centodieci chili.

– Mi dispiace ammetterlo – disse. – Ma, su questo punto ha ragione la compagna!

– E che dovrei fare? – si difese don Vittorio. – Io non sono bravo nel pugilato! Preferisco il dialogo.

Don Camillo fece spallucce e disse:

– Dialogava anche sant’Ignazio de Loyola, ma con la spada in mano!

– Giusto! – si entusiasmò Lina.

Poi, a Grazia:

– ’Stu vecchiu comincia a piacermi!

E a don Vittorio:

– Perché, voi preti moderni, vi siete tolti la tonaca, se poi non sapete portare i pantaloni?

Don Camillo fu subito in piedi e presentò le sue credenziali, sollevandosi la tonaca sopra le scarpette numero quarantasei.

– Vacci piano, piccinina – disse. – Vuoi vedere che con la tonaca è più facile prenderti a calci?

– ’Ntìpaticu! – disse Lina. – Sbagliai. ’Stu vecchiu non si può sopportare!

In quel preciso istante don Vittorio smise di fare il pompiere e ritrovò la fede degli avi alla seconda crociata. Inalberò il vessillo dei monaci templari e, con l’aria ispirata di Tancredi sotto le mura di Gerusalemme, gridò:

– Non si può accettare la violenza! La violenza è peccato!

– La rinuncia è peccato! – urlò Lina.

– Hai ragione, Lina! – si accaldò Grazia. – Chi rinuncia all’amore fa il peccato più grave!

– E che c’entra l’amore? – chiese don Camillo.

– Giusy La Barbera… – chiarì Grazia. – Nel finale del suo capolavoro: Il giardino incantato. L’ha letto?

– Non ho queste frequentazioni letterarie – si scusò don Camillo.

– E’ una scrittrice di Scordìa… amica mia. Fa la commessa, ma perché non l’hanno capita. Le sue storie sono così… così delicate!

– Ed anche originali, pare! – notò don Camillo.

– Io la capisco. Sono maestra giardiniera.

Ma, don Vittorio ripiombò a ribadir le sue furenti convinzioni, proclamando, rivolto a Lina:

– La violenza, signora, è l’arma dei deboli! Lo dica a quel rodomonte di suo marito!

Al che, alla poveretta non restò che sfogarsi, torturando le sue stesse mani e riuscendo ad attorcigliarsele come se le dita fossero la vìria per i cesti dei contadini.

– Beddu, chiddu!… – poi disse, arrossendo. – Patri Vittorio, io con mio marito non ci parlo.

– Beato lui! – disse don Camillo.

– Manco toccare mi faccio! – insistette Lina.

– Di bene in meglio! – infierì don Camillo.

Lina scattò in piedi ed andò dove la portava il cuore, cioè verso don Vittorio:

– Patri Vittorio, lo sa che mio marito è solo bocca! Che violenza le può fare, vossia che trema tutto?

Quindi, si volse a don Camillo:

– E voi non ci sfrocoliate troppo! L’unico amore di mio marito è il denaro. Non è vero, Grazia?

– Senza alcun dubbio, Lina! – fu pronta Grazia. – Tuo marito è tirchio!

– Bedda – si risentì Lina, – tu che ne sai della spilorceria di mio marito?

– Ma, Lina! – protestò Grazia. – La domanda l’hai fatta tu!

– E tu non dovevi rispondere! – disse Lina. – Certe volte si chiede così, per chiedere.

– Si chiede per artificio retorico – rafforzò don Camillo.

– A me non piacciono i fuochi d’artificio – ribattè Grazia. – Sono spettacoli per gente volgare!

– Già! – ammise don Camillo. – Tu sei maestra giardiniera!

– Non divaghiamo! – s’impose Lina. – Grazia, non mi hai ancora risposto!

– Ma via, signora! – si spazientì don Vittorio. – Lo sanno tutti che a suo marito piacciono i soldi! Prima era di Rifondazione Comunista ed ora, da quando Bottazzi gli ha promesso un posto di amministratore delegato, è passato al P.D.S.!

– Adesso la faccenda quadra meglio! – disse don Camillo.

Poi, con ancora qualche bava di luce sorridente agli angoli della bocca, si volse a Lina Longo:

– E tu, dolce libellula, perché vai contro tuo marito?

– Io non vado contro nessuno – rispose Lina. – Sto con la chiesa… e basta!

– Con la chiesa e col suo pastore! – rafforzò Grazia Furno.

Don Vittorio rivestì in tutta fretta la tuta da pompiere ed accorse:

– Veramente, avrei deciso di affidare alla signora Longo l’amministrazione della comunità di accoglienza che intendo far nascere coi soldi dell’eredità…

– Ecco! – annuì don Camillo.

A quel punto, Lina si alzò con fare impaziente.

– E tardi – disse. – Meglio ritirarsi… Grazia, alzati!

E le porse il ventaglio, affinché lo conservasse.

– Siediti, Grazia! – disse, però, don Vittorio.

Poi, rivolto a Lina:

– E ieri notte?

– Ieri notte che? – chiese Lina.

– Dov’è andato a complottare suo marito? Ho telefonato inutilmente a casa vostra, fino a tardi.

– Fino a che ora?

– Fino a mezzanotte.

– E le sembra giusto infastidire la gente fino a quell’ora?

– Suo marito ha telefonato anche in ore più sconce… e per minacciarmi!

– Ieri notte Mario era al partito…

– E lei dov’era?

– E che? Ora si deve dire ai preti che si fa di notte?

– Quando si fa! – sospirò Grazia.

– E certo che si deve dire! – disse don Camillo. – La confessione l’hanno inventata apposta!

Ma, subito lo ammonì il Crocifisso:

– Non correre, don Camillo! Troppe volte la gente ha peccati ben più gravi da confessarmi… Anzi, in verità ti dico che la persona che ho perdonato più volentieri è stata Maddalena.

– Mi scusi – disse don Vittorio a Lina. – Non volevo indagare.

Lina si avviò, seguita da Grazia. Giunta alla porta, si voltò a guardare il giovane prete e fece calare le sue parole, scandendole bene:

– Comunque, mio marito non corre alcun rischio… almeno per ora!

– Che significa per ora? – chiese don Vittorio.

– Ieri sera il telefono era staccato… C’è uno che gli pungono le corna e che mi vuol sfasciare la famiglia! – disse Lina.

– Chi è? – chiese don Vittorio.

– Si dice il peccato… – disse Lina.

– Al parroco si dice anche il peccatore! – disse don Camillo.

– Non mi pare giusto mettere guerra… – si giustificò Lina.

– Dunque, dica chi è e diàmoci un taglio! – incalzò don Vittorio.

– Volete farmi rompere un’amicizia? – resistette Lina.

– Quale? – insolentì don Vittorio. – Quella di suo marito o…

– Come si permette? – s’inalberò Lina.

– Mi permetto! – esplose don Vittorio.

– Cerchi tra gli amici di mio marito… – disse Lina.

– Cioè tutto il paese! – si scoraggiò don Vittorio.

VII

Improvvisamente, s’udì a destra come uno squillo di tromba. Era la voce del sindaco, da dietro la porta.

  • C’è permesso? – chiese il sindaco.

A sinistra uno squillo rispose, cioè la voce di Lina:

– Vieni avanti, cretino! Parli del diavolo e…

Mario Nasi, il sindaco, si trascinò dentro asmatico e sferragliante. Mostravasi come Fidippide quarantasei chilometri dopo la battaglia di Maratona. Inoltre, l’evidente gonfiore di una grossolana fasciatura sotto i pantaloni, all’altezza del bacino, suscitò universale meraviglia.

– Per intanto, bonasera! – esordì Mario.

Lina indicò il gonfiore.

– Che t’è successo? – chiese.

– Ferito! Propriamenti in nel campo di l’onori!

Grazia si portò la piccola, gelida manina alla bocca.

– Lì? – chiese col terrore nelle pupille.

– Lì! – confermò Mario, desolatamente.

– Oh, mamma mia! – urlò Grazia.

– E che si poteva ferire lì? Non c’è niente! – si chiese Lina.

– Nienti? – protestò Mario. – E ti pare nienti?

– Beh, poca cosa… forse… più o meno! – commentò don Vittorio.

– Oh, mamma mia! – urlò Grazia.

– Che c’entra che ti lamenti tu? – disse Lina a Grazia.

– M’immedesimo! – disse Grazia.

– Non t’immedesimare! – tagliò corto Lina.

Poi, a Mario:

– Qui ci sono due preti, Mario, non dire bugie… Lì, tu tieni una zona di pace, tranquilla come la Svizzera!

– Mandiamola in Africa, perciò – propose don Vittorio. – Per dare il buon esempio.

– Oh, mamma mia! – urlò Grazia.

Lina la guardò sospettosa.

– Grazia, che sono queste esclamazioni da zoccola? – inquisì.

– E’ che m’immedesimo! – si giustificò Grazia.

Mario fu lesto a riprendersi il centro della scena e disse:

– Sicuramenti, don Camillo reverendissimo, vossia non sa, non comprese le brutte volgarità della mia signora e del parrino prete suo collega! Lasciamo pèrdiri, vah!… Certo, è meglio assai che vossia è continintali e non sa, non capìscia la nostra parlata dialettali!… Il nostro servizio informazioni ci dette già il quadro delineato della vita precisa precisa di vossia… Mi permette che mi presento? Mario Nasi, sindaco.

– Lo chiami pure Mario Carcarazza, come fanno tutti – dettagliò Lina. – La carcarazza, da noi, è la gazza ladra!

Don Camillo allungò la sua zampaccia e disse:

– Bene! Che piacere!

E, mentre stritolava i cinque viscidi vermicelli che costituivano la mano di Mario, alitò con serenità celestiale:

– Vedo che il mio nome lo sa già. Allora, le dico il soprannome… Mi chiamano Mani di Fata!

– Ah, vedo che la valìa, voglio dire la forza, a vossia non ci manca! – disse Mario, soffiandosi sulla mano offesa. – Meglio, meglio! Così ci divertiamo più assai! A noialtri del Comitato di Solidarietà col Senatore Bottazzi non ci piace nienti nienti quando si vince troppo facile.

– Addirittura! – esclamò don Camillo. – E’ nato un comitato di solidarietà per Peppone?

– Certo! – confermò Grazia. – E Mario è il presidente.

– Zitta tu! – gracchiò Lina.

– Volevo collaborare! – si giustificò Grazia.

– Non collaborare! – ribadì Lina.

E a don Camillo:

– Io dico che quest’uomo non è più mio marito, ma un nemico della fede!… Che vergogna! Il marito di Lina Longo, donna fedele alla cattolica e apostolica Santa Romana Chiesa, sta con gli amici di un forestiere senza Dio!

– Che però… – ribaldeggiò don Camillo. – A tuo marito ha promesso un posto di amministratore delegato.

– Appunto! – concluse Lina. – Io dico che mio marito è un venduto!

– Anche perché… – maramaldeggiò don Camillo. – Se non vince lui, vinci tu… Piccina, qualcuno penserà che giochi a fotticompagno!

Ovviamente, dopo un’uscita tanto greve, don Camillo si portò ambedue le inquiete mani davanti ad un antro che voleva essere una boccuccia, per cui parve un portuale preso da virgineo pudore.

– Oh, perbacco, cosa mi fa dire questa donna! – gemette.

Subito dopo, si volse al Crocifisso:

– Gesù, perdonatemi la brutta parola…

– Sembravi Andreotti – sorrise ieratico il Crocifisso. – A pensar male si fa peccato… però s’indovina!

– Gesù, queste citazioni!

– In effetti!… Ma, che ci posso fare? Quel gobbetto non riesce ad essermi antipatico. Da quando anche lui è stato inguaiato da un bacio, lo sento vicino.

– La nostra è la solidarietà per i poveri cristiani umani… – disse a quel punto Mario. – Che potrebbero campare le loro stesse famiglie, perché c’è la bella fabbrica che Bottazzi vuole fare apposta!

– Come parla bene, però! – applaudì Grazia. – Non è vero, Lina?

– Ma che dici? – la redaguì Lina. – Sei passata dalla sua parte?

– Volevo collaborare – si giustificò Grazia.

– E perché non posso farla nascere io, questa benedetta fabbrica? – esplose don Vittorio.

– Troppo facile, patri Vittorio… e troppo tardi! – argomentò Mario. – Eppoi… del clero parrinaro non ci fidiamo! La prima idea è stata nostra, della sinistra lavoratora! Non caschiamo nel giochetto fascista, che ci fotte coi nostri stessi sistemi!

Poi, si volse a don Camillo:

– Lo vede, don Camillo, per dirci la verità tutta quanta… a noialtri patri Vittorio ci sta stretto… ci pare poco! E’ un avversario scadente… Siamo certi che vossia sa fare le cose più meglio!

Dopodicché, dette uno sguardo intorno. Sul campo vide (pensò di vedere) che giacevano come corpi trucidati gli argomenti dei due preti reazionari (“li ho azzerati, spenti con le mie paroli!” pensò), per cui agguantò una sedia e continuò:

– Quantunque!… Permettetemi che mi seggo sulla seggiola… Sapete, come pocanzi dicevo alla mia signora, mi ha ferito Pasquali Giummeri, che mi gettò addosso in nel corpo, proprio in nel centro della mia stessa pirsona… una tazza di brodo bollente!

– E ti bruciasti? – chiese Lina.

– Macché! – la tranquillizzò don Camillo. – Lui beve così… Manda giù coi pori della pelle!

– E certo che mi bruciai! – s’incazzò Mario. – Ma, il piangere grande fu di prima, quando mi agghiacciai!

– Col brodo? – chiese don Vittorio.

– Che c’entra il brodo? – s’impermalì Mario. – Mi agghiacciai con l’acqua ghiacciata! E’ evidenti!

– Non troppo evidente, figliuolo – puntualizzò don Camillo. – Hai percorsi logici un po’ troppo… pirandelliani, per me!

– Ah, Pirandello! – cinguettò Grazia. – Conosce? L’anno scorso recitai un Pensaci, Giacomino! durante la Sagra del Ficodindia, col regista Saretto Ficuzza.

– Ah, sì? Bravissima! – si complimentò don Camillo.

– Scrivo pure poesie, sa? – gorgheggiò Grazia. – Vuole che gliene reciti qualcuna?

– E come? – si lamentò il sindaco. – Io vi dico che resto agghiacciato e voi vi mettete a discorrere di teatro e di poesia?

– Volevo collaborare – si giustificò Grazia.

– E, inveci… – disse Mario. – A me mi pare di cogliere nella battuta del prete don Camillo una vera verità, sottili sottili… Che ci ha, vossia, contro Pirandello, che è siciliano? Forse ca forse, vossia è uomo di Umberto Bossi e vota… scanzatini signuri… per la Lega Nord?

– Non potrei mai – rispose don Camillo. – Gesù era terrone. Non è colpa mia se la Palestina si trova al Sud.

– Quante chiacchiere! – si spazientì Lina. – Mario, ancora non s’è potuto sapere che t’è successo.

– I lavoratori del mercato! – disse Mario. – Mi gettarono in dentro la vasca dell’acqua che ci è nella stanza frigorifera.

– E perché? – chiese don Camillo.

– Perché sono ignoranti e non li leggono, i nostri giornali! Quella gente lì ragiona con troppa libertà, senza manco una regola e senza disciplina!… Che volete che vi dico? Quelli cristiani non capirono le mie chiare spiegazioni sulle tasse che mise il nostro primierscip Romano Prodi… che poi, volendola fare stretta… e che si possono chiamare tasse, quelle nostre? Tasse non sono!… Anche se sono sacrifici dolorosi, che ci fanno entrari diritto per diritto in di dentro l’Europa…

– E certo! – s’illuminò don Camillo. – Parlavi così di tasse… e volevi pure che ti ringraziassero?

– Ma, che ci colpo io? Qui il problema è che niscuno è fesso e nisciuno compra o accatta più la roba… Quando tutti, e dico tutti, i giornali che la pensano come me, sono tutti, dico tutti, d’accordo nel dire che l’economia va bene ed è a gonfie vele…

– In un mare forza dieci! – aggiunse don Camillo.

– Tanto che il momento è brutto e difficile, ma la ripresa… ci siamo! E noi siamo entrati e trasuti in di dintra l’Europa…

– E ci resteremo… dentro una bara! – aggiunse don Camillo.

– E siamo contenti, quanto è vero che la maggioranza è compatta, macari anche se Bertinotti è un sabotatotre e figlio di bottana e ci ha fatto perdere tanti di quei miliardi, che non sono noccioline!

– Però! – scappò a don Camillo. – Mica scemi, i lavoratori!

– Vossia don Camillo condivide la viulenza bestiali, che poteva farmi morire di quelli ignuranti reazionari che non li leggono, i nostri giornali?

Questa volta don Camillo si rivolse al Crocifisso:

– Beh, Gesù! Volendo… Questi bravi lavoratori, che hanno fatto di male?

– Don Camillo! – lo ammonì il Crocifisso. – Don Vittorio dice che nulla può giustificare la violenza.

– Ma non l’avete detto voi – protestò don Camillo, – che siete sceso in terra ad impugnare la spada ed a dividere i padri dai figli?

– Ho detto pure: date a Cesare quel che è di Cesare!

– Ma, quella brava gente mica l’ha ucciso, il sindaco! Gli ha fatto fare un bagno, tutto qui!… Gesù, questa è un’isola, con tanto mare e tanta umidità… Qui la gente è parente dei pesci, ci sta bene in acqua!

– Anche nell’acqua ghiacciata?

– Beh, no. Ma…

– Ascolta me, don Camillo. Porta la tua penitenza a venti Avemarie, che è meglio! Così, ti liberi da tutti i cattivi propositi che stanno agitando il tuo cuore!

– Ma, Gesù!

– Prova ad insistere e nella penitenza rischia di entrarci anche il sigaro serale…

– Gesù, volevo dire soltanto che sono contro la violenza… E’ proprio quando vedo la violenza che mi prudono le mani!

Quindi, don Camillo si volse a guardare Mario Nasi con l’espressione di Santa Teresa d’Avila in estasi e disse:

– Quei lavoratori hanno sbagliato… forse… almeno, così mi dice il capo! Ma, pazienza! Ormai è andata! Perdonali e lascia stare le tasse! Non lo sai che è un argomento che fa correre il sangue agli occhi?

– Ma, non è finita qui! – si rianimò Mario. – Quando quei figli di la sbrindellata si ne andarono via, arrivò Pasquali Giummeri, che mi trovò tutto pigliato di freddo. Colui mi portò subito di corsa alla sua bella casa… quella che si fece con i soldi rubati al Comune… e mi preparò in fretta e immediatamente una tazza che era un cicherone di brodo caldo e bollente, tanto che sfruculiava ancora e gettava fumo come una littorina sopra l’Etna! Voleva che mi scaldassi un poco…

– Considerando la tua gratitudine, piango per la gallina! – notò don Camillo.

– Ah, vedo che vossia già capì tutto! – esclamò Mario, che forse nelle parole di don Camillo aveva colto un significato lontano dal banale significato logico. – Nel portarmi il brodo quel minchialone di Pasquali me lo rovesciò incoddo e addosso, per tragica circostanza… che ancora piango tutto… giusto giusto in nel centro del corpo, in nel mezzo di la persona, sulla parte sacra d’un uomo, proprio là!

– Gesù, Giuseppe e Maria! – urlò Grazia. – Proprio sulla parte sacra?

– Non esageriamo – intervenne Lina. – Lì c’è un’esistenza solitaria, da eremita… questo sì! Ma, chiamarla parte sacra… addirittura!

– Signore Iddio! – sospirò don Vittorio.

– E’ vero, don Vittorio! – ribadì Lina. – Sono anni che nessuno si avventura da quelle parti!

– Non colgo la provocazioni… e continuo a raccontarvi il fatto – disse Mario. – Pur nel dolore, io rideva…

– Oh, Gesù, Giuseppe e Maria! – piagnucolò Grazia. – Eri pazzo di dolore?

– No! Rideva perché la mia vendetta c’era già! Bella e pronta!

– Contro i lavoratori? – chiese don Camillo.

– Contro Pasquali Giummeri! – rispose Mario.

– Ah, ecco! – esclamò don Camillo.

– Quindici jorna fa… – riprese Mario. – L’amico Pasquali Giummeri voleva rappresentarmi con argomenti curiosi e niente niente convincenti l’idea dell’amore eterno… “Mia moglie” mi disse Pasquali, “mi vuole beni perché ho il cuore bello!” “No!” volli rispondere io, che conosco l’uomo e le cose di questo mondo. “Tua moglie, se ti vuole beni, te lo vuole per quella parte in del corpo di la persona, che nella giornata di tutti i giorni si tiene nascota, potrei dire infrattata…

– Infrattata!… Come direbbe un poeta – si complimentò don Camillo.

– Ha letto? – saltò su Grazia. – Una stella ci salverà! Trattasi di un mio componimento che il regista Saretto Ficuzza ha voluto mettere in scena.

– Nella Sagra del ficodindia? – chiese don Camillo.

– No – rispose Grazia, – in quella della ricotta e del caciocavallo.

– Poi questa me la spieghi, Grazia! – annotò Lina. – Che ci fa la poesia in bocca a un materialista come Mario Carcarazza?

– Precise precise le parole di Pasquali! – disse Mario. – Manco sono arrivato a chiarire esplicitamente, e per così dire pulitamente, che l’interesse delle femmine è solo per quella cosa che tutti tengono infrattata e nominano sempre, dicendo la stessa parola chi più chi meno volgare, che Pasquali mi urlò: “Sei un materialista!”… “E tu sei un babbasuni!” gli risposi io. “A mia moglie ci basta il cuore mio!” disse Pasquali. “E falla contenta soltanto col cuore!” allora io lo sfidai.

– Col cuore solo? – chiese conferma Lina. – Come fai tu con me!

– Calunnie! – si difese Mario.

– Ma che dici, Lina? – si scandalizzò Grazia.

– Dico che mio marito ha moscio pure il cuore!

– Non è vero! – si infiammò Grazia.

– Non rispondo agli insulti di una clericale! – s’indignò Mario.

Postea, voltòssi a muso duro verso don Vittorio:

– E vossia, patri Vittorio, che non s’azzarda e si prova a ridere! A me, mi basta la mia buona coscenza!

– Casta, più che buona – osservò don Camillo.

Poi, l’anziano sacerdote alzò lo sguardo al Crocifisso, pensando che dovesse parlargli.

– E che, don Camillo! – fece il Crocifisso. – Ti lasci andare anche tu?

– Oh, be’… – boforchiò don Camillo. – Tanto le penitenze le debbo fare già!

– Se lei, sindaco, avesse coscenza… – disse, a questo punto, don Vittorio. – Se lei avesse coscienza, rispetterebbe le ultime volontà della signora Guarini!

– Per me, la coscenza è sapere che avevo ragione! – rispose Mario. – Perfettamenti! Senza manco ombra di dubbio!… Vi ripeto: ci può mai bastare il cuore a una moglie? Evidente che no!… Il più bellissimo risultato della sfida a Pasquali è che da sei giorni, e pricisamenti da di li ore cinque e trentaquattru postmeridiane dello scaduto venerdì quattordici di dicembre del millenovecentonovantasei, il dottore Lantro combina tante cose belle con la moglie di Pasquali, signora Cettina, nata Caffaro e fu Riccardo, la Ragusana comu la conoscono e la sanno a sentire e come normalissimamente la intendono!

– Ora basta! – si sdegnò don Vittorio. – Butti veleno anche contro i tuoi amici!

– No, figliuolo… – gli fece eco don Camillo, placidamente. – Carcarazza ha fatto bene invece, perché…

In due canguresche zampettate don Camillo fu su Mario. Lo prese amorevolmente fra le braccia, lo rigirò come un cerino, portandolo nella giusta posizione e…

– Perché ora mi sembra nel punto giusto… – disse. – Posso dargli il bel calcio che merita!

– Oh, mamma mia, no! – urlò Grazia.

– Oh, mamma mia, sì! – urlò Lina.

– Io non guardo, perché sono contro la violenza! – urlò don Vittorio.

– Beviamo l’amaro calice! – urlò don Camillo.

– Ho qualche dubbio che non ti sia tanto amaro – disse il Crocifisso.

– Vossia non può! – strillò Mario. – Farebbe peccato mortale!

– Lo so – ammise don Camillo. – La violenza è peccato, soprattutto per i preti!

Poi, finalmente, il calcio partì e Mario schizzò fuori dalla scena.

– E mi raccomando! – gli urlò dietro don Camillo. – Riferisci il messaggio a Peppone!

VIII

Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi. La stessa cosa voleva fare don Camillo, prima d’incontrar Peppone. Purtroppo, prima c’era da aggiustare i conti col Padre Eterno, per cui si volse al Cocifisso, dicendo:

– Siete arrabiato, lo so… Mi metto subito in penitenza. Dirò cento avemarie e…

Soffocò un gemito di autentica sofferenza.

– …rinuncio pure al sigaro serale!

– Ma con soddisfazione, però!… Eh, don Camillo? – lo consolò il Crocifisso.

– Gesù, la carne è debole!

– Non fare l’ipocrita, don Camillo! A te prudevano le mani dal primo momento che hai visto Carcarà… voglio dire Mario Nasi!

Liquidato il suo contenzioso con Dio, senza più nulla a pretendere per entrambe le parti, non restava che tornare a don Vittorio.

E don Camillo tornò a don Vittorio.

– Ormai è tardi – gli disse. – Vorrei mettere qualcosa sotto i denti ed andare a letto.

– Chiamo mia sorella Gisa – acconsentì don Vittorio ed uscì.

Poi, il nostro eroe si rivolse a Grazia:

– Ci scriverà una poesia, non è vero?

– Su di che? – chiese Grazia.

– Sul calcio al sindaco.

– Pensa che sia il caso?

– Assolutamente! Le suggerisco il titolo: Volò via così!

Grazia volle riflettere un po’. Poi, disse:

– Che ne dice se ci aggiungo un perdutamente?

– A pennello!

Quindi, il vecchio volse gli occhi a Lina:

– Mi scusi per suo marito.

– Spero che lei non si sia fatto male al piede – disse Lina.

In quel momento entrò Gisa, con dietro Pasquale, Amalia e Lucia.

– Pasta col pumadoro, melenzane fritte e ricotta salata… va bene? – chiese Gisa.

– E voi chi siete? – chiese don Camillo, a sua volta.

– Sogno la sorella del parroco – rispose Gisa.

– Scusi, ma non ho capito cosa… sognate – allargò le braccia don Camillo.

– Come? Non capiste? – si stupì Gisa. – Ho detto sogno nel senso di essere… Io e patri Vittorio siamo nasciuti da la stessa panza!

– Piacere, comunque! Mi chiamo don Camillo – si rassegnò il vecchio prete.

Gisa prese per il braccio Amalia e la espose, come fosse una bestia sua.

La scena non era nuova e a Militello molti rassemblavano Amalia ad una bestia lì famosa negli anni Sessanta: l’asino di Ballardita. Quest’animale se ne stava immoto e saldo sul selciato, del tutto indifferente al suo padrone, che lo pungeva e lo bastonava per farlo muovere. Poi, bastava che un monello passasse di soppiatto a fargli iuuuuh! ed esso schizzava via, imprendibile.

– Questa è l’altra sorella… – disse Gisa.

– Sogno Amalia – disse Amalia, porgendo la mano a don Camillo.

– Anche tu sogni! – le disse don Camillo, mentre le stringeva la mano. – Che paesino romantico!

– Questo è Pasquali… – disse poi Amalia, portando avanti Pasquale.

– Pasquali Muntijatta! – si presentò Pasquale.

– Montegatta, prego! – si fece avanti Lucia. – Sogno la sorella, Lucia Montegatta… come ello è Pasquale Montegatta.

– Ah, consanguinei! – fece don Camillo.

– Giustu, consanguinati! – confermò Lucia.

– Capita, certe volte – ammise don Camillo.

– Com’è il Papa di presenza? – chiese Pasquale.

– Pippo Baudo è davvero alto? – chiese Lucia.

– Di persona, non conosco né l’uno né l’altro – si rammaricò don Camillo.

– Ma come! – si stupì Pasquale. – Vi vedo tutti nella televisione e non vi conoscete?

– Scemo! – saltò su Amalia. – Pippo Baudo ed il Papa sono sempre dentro la televisione a colori, invece don Camillo si vede in quella in bianco e nero!

Qui, per fortuna, suonò la voce di Gisa, come una sirena della Croce Rossa:

– Venissero a mangiari, piuttosto! Per secondo vi ho preparato un coniglio al sugo che fa resuscitare i morti!

Ovviamente, a don Camillo parve muy bueno che Gisa-Tex Willer lanciasse quel lazo e si avviò con lei.

Amalia, Lucia e Pasquale, però, non si fecero tagliare fuori. Anche loro erano dei duri, pronti a giocare quando il gioco si fa duro. Quindi, si accodarono.

Appena furono sole, Lina potè rivolgersi a Grazia:

– Niente, oramai è guerra!

– Eh, sì! Povero Mario!

– Chi, mio marito? Quello è meglio che se lo tiri via la prima piena che viene!

– Non dir così!

– Ci ho altro per la testa!

– Lo so… don Camillo è antipatico.

– None! Il vecchio non c’entra… è don Vittorio…

– Don Vittorio?

– Non era vero…

– Che?

– Che c’è uno che mi cerca…

– No?

– No. Voglio che si prenda di gelosia…

– Non dir più nulla, per favore!

– Come lo debbo dire?

– Non lo dire.

– Ah, se don Vittorio non avesse la tonaca!

IX

Ben presto, la luna tramontò; e pure le Pleiadi. L’ora scivolò via silenziosa con le ali dei pipistrelli. Ma, quella notte, ogni giro della lacetta corta dell’orologio sembrò contenere gli avvenimenti di un anno. Ci furono otto giri precisi, che idealmente corrisposero ad otto anni. Sic stantibus rebus, passano gli anni, ma otto son lunghi; però quel ragazzo (don Vittorio) ne ha fatta, di strada! Torna (in canonica) e non trova gli amici che aveva… Ora gli si presentava davanti la segretaria di Peppone, Patrizia Nèrica.

– Don Vittorio Leonardi? – chiese Patrizia, entrando.

– Sono io.

– Mi chiamo Patrizia Nèrica… Sono la segretaria del senatore Bottazzi.

– S’accomodi.

– Il senatore ci tiene a fare un tentativo di composizione pacifica delle nostre divergenze sull’eredità della Guarini.

– Però, finora da lui ho ricevuto soltanto insulti.

– Non ce ne saranno più.

– Lo spero.

– Cosa vuole… Il mio capo è sempre stato un tipo un po’… come dire? un po’ pronto, ecco!

– Cioè, manesco?

– Ho detto pronto.

– Mi consentirà, almeno, di definirlo molto pronto.

– Ma, ora… per la posizione che occupa e per la rilevanza che ha assunto l’affare…

– E che cosa è cambiato dall’ultima telefonata in cui prometteva di rompermi la testa?

– C’è don Camillo nel mezzo. E’ un personaggio troppo noto e, quel ch’è peggio, sa urlare quanto e più del senatore Bottazzi!

– Veniamo al dunque, allora… Chi la manda?

– Glielo detto, il senatore.

– E non è contento?… Lui ci andava a nozze a fare a pancate con don Camillo.

– Erano altri tempi.

– Lei parla con un’autorità che non mi pare da segretaria.

Patrizia sorrise. Don Vittorio (ella pensò simpaticamente) stava a lei come l’uomo di Neanderthal stette a l’uomo di Cro-Magnon. Uno dei due doveva scomparire.

– Va bene! – si lasciò andare. – Le confesso che faccio parte di un ristretto comitato decisionale all’interno del partito.

– Gladio rossa? – fece don Vittorio, con nella faccia dipinto un evidente scetticismo.

– E perché? Ormai la coca-cola ha vinto… Molto più semplicemente, sono una persona fidata, capace di non scandalizzarsi troppo e capace di non dire più del necessario.

– Ora le credo.

– A Roma non vogliono scandali. E, soprattutto, non vogliono conflitti con la Chiesa.

– Ed il senatore?

– Accetterà le nostre decisioni.

– Non le pare esagerato che si muova addirittura Roma per una faccenduola come la nostra?

– Caro don Vittorio, da quando siamo al governo, ci sentiamo come un cavallo in piena corsa… Quindi, anche un sassolino, se ci rompe lo zoccolo, può azzopparci.

– La metafora è efficace.

– Il partito vuole soltanto che nasca la fabbrica. E’ una questione di prestigio. Sa, l’occupazione è un po’ la nostra bandiera!… Lei, don Vittorio, perché no?… Potrebbe diventarne l’amministratore delegato… magari con qualche miliardo in più a disposizione, che le faremo arrivare noi… Così, più avanti, forse riesce a far nascere il centro d’accoglienza a cui tiene tanto.

– Ed il sindaco?

– Si accontenterà di una candidatura alle prossime regionali.

– Sarei tentato di dir di sì…

Don Vittorio mise insieme delle immaginarie carte, atteggiò le labbra ad un fischio che non uscì, tamburellò un secondo con le dita della mano destra e, infine, disse con un sospiro:

– Ma, la mia risposta è no.

– La fabbrica non va bene?

– Andrebbe benissimo, ma non attingendo ai capitali della Guarini… Quei soldi, la povera signora li ha lasciati per far nascere un centro d’accoglienza ed io non posso derogare…

– Cerchiamo, almeno, di trovare un onorevole compromesso.

Don Vittorio sorrise, inaspettatamente con un’aria arguta.

– Ah no, per favore! – disse. – Coi compromessi ci provò già Berlinguer ed andò male… Niente da fare!

– Ci sfida?

– Ma, si figuri se io sono un tipo da sfidare chicchessia! Personalmente, ho una ripugnanza fisica per ogni tipo di conflitto.

– E allora…

– Sono un sacerdote e so il mio dovere… Comunque è meglio parlare col senatore Bottazzi. In fondo, il marito era lui e non il partito.

– Il senatore sta venendo qui.

– Allora, chiamerò don Camillo… per prudenza.

– Se non le dispiace, potrei tentare di far ragionare almeno il vecchio.

– Ognuno ha il diritto di sognare ciò che vuole.

– Prima vado alla sezione del partito a controllare la situazione.

E così i due uscirono… pochi minuti prima che nella canonica entrassero Peppone e Mario Carcarazza.

X

– Sigarette! – ordinò Peppone.

Mario assentì. Ma, la sua tasca era una specie di carcere di massima sicurezza, dal quale mai nessuna sigaretta era evasa. Prima.

– Ne hai? – incalzò Peppone, col gesto impaziente di due diti davanti alla bocca (cioè, due diti che strapazzavano un’immaginaria sigaretta).

– Ci ne ho – disse Mario. – Fresche fresche dal tabacchino!

– Bene. Grazie per la buona notizia… Ora, però, tira fuori il pacchetto ed offrimene una.

– Certo, capo – disse Mario con la morte nel cuore. – Eccoti qua!

Poi, pensò che la vita è breve e… ma, sì!… decise di prenderla con allegria. Per cui aggiunse:

– Anzi, capo, lo volesse sapere ciò che ti dico? Ci fumo sopra macari e pur anche io!

E accesero.

– Brutta bestia, il fumo! – disse Peppone, dopo un po’.

– Peggio! Peggio!

– Provoca il cancro. E’ dimostrato…

– Preciso preciso come la penso io!

– Perciò non compro mai sigarette!

– E certo! Se sono regalate, che fanno male?

– Cheffà, sfotti?

– Ma che vai dicendo, compagno senatore? Io non mi pigliassi mai di certe confidenze! Casomai, scherzai un poco allegramenti, come è di giusto tra compagni che scherzano!

– Un vero comunista non scherza mai!

– Sempre serio dev’essere?

– Serio e attento!… Hai mai pensato, per esempio, che il fumo potrebbe essere uno dei tanti agenti della reazione sempre in agguato? Non sottovalutare il fatto che il tabacco è una pianta venuta dall’America!

– Come il compagno Veltroni?

– E chi è? Un attore?

– Vossia, compagno senatore, non è a conoscenza del compagno Veltroni?… Il compagno Veltroni è il vice capo di gabinetto della prima Italia sinistra e lavoratora!

– Al partito non si vede mai.

– Ma, voialtri lo votaste al governo!

– Cosa vuoi che ne sappia dei pasticci che ci fa fare D’Alema!

– Anche questo è vero!

– Dunque, questo Veltroni è dei nostri?

– E come no? Diresse L’Unità.

– C’è ancora L’Unità?

– C’è!… Campa tanto per campare, ma c’è!

– Che ci staranno poi a fare in politica, questi intellettuali? Non li ascolta nessuno!

– E che ci possiamo fare? Sono come i vestiti: nascondono le vergogne!

– Allora, se Veltroni è dei nostri, non può essere un agente della reazione!… Vuol dire che adesso anche l’America è di sinistra e comunista! Anzi, no… comunista non va più bene. Noi siamo Democratici di sinistra, mica di Rifondazione Comunista!

– E come?… Non ci sono più… comunista… io?

– Non v’è dubbio alcuno! Non sei più comunista!

– E per ordine di chi?

– Ma per ordine del Partito Comunista Italiano, è ovvio!

– Mi consenta…

– No! Mi consenta non si può dire!… Non è morale parlare come quel pidduista e plurindagato di Berlusconi!

– Mi scusasse, allora…

– E neppure mi scusasse! Così parlano i mafiosi, che sono tutti di Forza Italia! Lascia perdere, è meglio… Piuttosto, cosa pensi che farà don Camillo?

– Eh, capo!… C’è da dire che don Camillo è uno cristiano che ha uno scarpone molto, molto convincente, che uno o ci va d’accordo o ci va d’accordo… mizzica!

– La mia scarpa non è da meno, sta’ sicuro… E sono cristiano anch’io!

E, per meglio dimostrarlo, Peppone prese direttamente dalla tasca di Mario il pacchetto delle sigarette, buttò nel portacenere la sigaretta che teneva in bocca e ne agguantò una nuova di zecca (mentre gli occhi della sua vittima gli guaivano dietro, in un modo che avrebbe fatto piangere anche la pietra più dura).

– Fammi accendere – ordinò Peppone.

Mario andò subito a strisciargli sotto il naso. Mentre Peppone accendeva con lo sguardo che vagava lontano lontano, il fedele scudiero provò a proporglisi come complice, perché se uno non nasce Cesare, prova almeno a fare il Richelieu.

– Va bene, vossia è cristiano… – sviolinò Mario – E che ci sono dubbi?… Ma, pure mascolo di sesso mascolino, spero, quando ci vuole che ci vuole!… Mascolo di core e di scarpa!… Con certi auciddazzi di pretacci su per su tipo don Camillo, Dio a me ha da fare la grazia che vossia deve avere… il mio stesso, preciso preciso e medesimo pensiero!

– Quale pensiero?

– Di sterminiare tutti li pretacci!… La verità! Chi sempre la pensò la più giusta e azzeccata di tutti fu… Lo posso dire?

– Dipende… Che devi dire?

– E se non lo dico… come fa vossia a sapere se posso dire il fatto che io avrei da dire?

– Allora, dillo!

– Va bene, lo dico! Chi la pensò la più giusta e azzeccata di tutti fu… lui!

Peppone ebbe un sussulto, come se due carezzevoli labbra femminili fossero andate a passeggiare sulla sua schiena.

– Lui? – chiese con li occhi che lucean più che le stelle.

Mario assentì col capo. Avea il dolce, tenero, incoraggiante, affettuoso, compiaciuto sorriso della levatrice nell’istante supremo in cui accompagna un parto difficile e felice.

– Stai pensando all’uomo a cui penso anch’io? – chiese ancora Peppone e le stelle che erano i suoi occhi si fecere clarite et caste et pretiose et belle.

L’altro assentì di nuovo, paziente. Ora era il maestro di Cuore davanti all’alunno buono (cioè. scipito e volenteroso).

– Che Guevara? – chiese Peppone.

– Più alto! – disse Mario.

– Palmiro Togliatti?

– Più alto, più alto!

– Mao Tze Dong?

– Ancora più alto!

– Francesco Rutelli!

– Compagno Peppone, qui siamo rasoterra!

– Piace alle signore, però!

E così, di nuovo, tra tira e molla, tra trìspiti e tavuli e tra lazzi e frizzi, si riproponeva l’odi et amo, il nec tecum nec sine te vivere possum dei comunisti. Mario, straziato nella carne e nello spirito, esitava e moriva dalla voglia di darlo… il colpo finale.

– Invece… io… pensavo… al… – disse Mario, perciò, mettendo fuori le parole a tentoni. Sembrava il primo uomo sulla Luna. Tastava quella terra, che non era più Terra, ma su cui era d’obbligo camminare.

– Al… – si spazientì Peppone.

– Al compagno Giuseppe Stalin, detto Baffone!

Guardò Peppone e vide la fotocopia di Sara, quand’ella si voltò a sbirciar dietro, mentre Dio Onnipotente chiudeva i conti con Sodoma e Gomorra. Sed, dixit Caesar: Alea iacta est! Mario, insomma, era ormai oltre il Rubicone, per cui il suo sangue tornò a fluire, allegro e ciacolante come chiare, fresche e dolci acque.

– Che, se tornasse in vita il compagno Stalin… – aggiunse, quindi, col tono dei migliori comizi, – tante e tante cose del mondo tutto quanto si ne andrebbero per il verso più bellissimo!

– No! – gemette il povero Peppone, con un subitaneo salto della rana. Tutto nei suoi gesti e nel suo corpo urlava: Vade retro, Satana!

– Oggi non siamo più d’accordo con la dittatura di Stalin… – continuò Peppone, serio serio…

Poi, di colpo, corse alla porta e guardò furtivamente fuori… Chiuse la porta e si precipitò a tappare ermeticamente la finestra… Guardò sotto la scrivania… Guardò sotto la libreria e sotto il divano… Guardò sotto la carpetta sulla scrivania… Si ricompose e, solenne come un Cristo Pantocrator, disse:

– Ma, se vuoi sapere come la penso, ti dico…

Pausa, silenzio… e urlo liberatorio finale:

– Che il compagno Stalin è stato il vero, grande padre della classe operaia internazionale!

E, per buona misura, rifinì le parole con un bel saluto a pugno chiuso.

A quel punto, anche Mario si scatenò. Salutò a pugno chiuso. Poi, abbracciò Peppone e gli dette tre baci sulla bocca, come usano fare i russi. Poi, tutt’e due insieme, intonarono Bandiera rossa, Bella, ciao, Papaveri e papere e Buongiorno, Tristezza! Quindi, sfilarono in corteo in giro per la stanza.

– Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi! – gridò Peppone.

– Fascisti, carogne, tornate nelle fogne! – gridò Mario.

– El pueblo unido, guemas serà vencido! – gridò Peppone.

– L’utero è mio e lo gestisco io! – gridò Mario.

– Questo non centra – gli disse Peppone.

– Mi scusasse, compagno… E’ che nel piacere entusiastico mi era sembrata una frase bella di compagni – disse Mario.

Restava ancora da cantare l’Internazionale comunista e in un minuto, con voce ormai arrochita, colmarono la lacuna.

– Oh, finalmente! – esclamò Mario, stanco, ma col cuore ancora non domo. – Questa si chiama vita!… Lavoratori di tutto il mundo, unitevi!

– Non avete da perdere che le vostre catene! – esclamò Peppone ed abbracciò Mario. – Che musica! Che forza! Che poesia!

– Bene, bravo compagno capo! E senza talè e talè! Ci dico e anzi ci affermo papale papale che il compagno Stalin fu uno cristiano di acciaio inossidabili!

– In russo la parola Stalin vuol dire proprio acciaio!

– Ah, chi gran cristiano fu Stalin!

– Oddio, cristiano! Veramente, tanto religioso, non lo era… Ma faceva bene, capperi! Con lui, i preti, al più erano buoni come selvaggina!

– Ci sparava e se l’ammuccava!

– Che centrano le mucche?

– E che ci entrano le mucche, che poi sono le vacche? In Sicilia per ammuccare si vuole intendere mangiare.

– Si mangiava i preti… E che era un cannibale?

– No, no, scanzatini Signuri! E che si mangiava, allora?

– Boh! Penso le mucche!

– E sicuro che si mangiava macari ed anche le mucche… Ma le mucche, che poi sono le vacche, ce le mangiamo tutti! E che ci era bisogno del compagno Stalin per questo? E minchia! Il compagno Stalin, quando un pretaccio alzava poco poco gli occhi sopra i soldi di denari di una vecchierella… Zacchete!… Ammazzava di corsa il pretaccio e si pigliava tutti i soldi per il partito della sinistra lavoratora e per il compagno sindaco del partito, che poi sarei io medesimo sottoscritto!

– Oppure, come nel nostro caso, li dava al compagno marito, cioè a me!

– Giusto! Ma, a me medesimo sottoscritto compagno sindaco spetta di comandare nella bella fabbrica che vossia vuole fare nascere!

– Esattamente! Stalin avrebbe fatto appunto così! Col carattere che aveva, avrebbe ammazzato tutti i preti! Già ci sarebbe stato il giudizio universale! Già sarebbero suonate le trombe di Gerico!

– Bene! Chiamiano Gerico, allora!… Ma chi è? Un compagno musicista?

Nel vano della porta comparve un’ombra nera, a portare la notte sul sol dell’avvenire.

– Proprio così! – disse l’ombra. – Suona nella banda dell’armata rossa, con Satana e Belzebù!

Era don Camillo.

XI

Grande e grosso com’era, con la tonaca nera ed il colletto bianco, don Camillo sembrava un monte di lavagna con un filo di neve poco sotto la cima. Peppone e Mario videro che teneva, per prolungamento del braccio, stretto con affettuoso amore nella mano destra, l’azzimato vicesindaco di Militello, Gegè Bobina.

– E spegnete le sigarette, che qui non siamo nella vostra bottega! – disse ancora don Camillo.

Mario spense la sigaretta nel tempo in cui il tuono tiene dietro al baleno.

– Si discuteva così… – farfugliò. – Così, semplicemente!… Tanto per parlare tra compagni comunì… cioè, tra compagni… e non dico più niscuna cosa!

Peppone, invece, seguì la legge del contrappasso. Aspirò e mandò fuori il fumo. Con calma, quasi negligentemente, a cerchietti verso il soffitto.

– Siete a casa vostra – disse. – Ed io sono una persona educata…

Soltanto allora spense la sigaretta. Con calma, con molta calma, fermo, quasi immobile… Sembrava Romano Prodi, quando macchina le sue vendette politiche.

– Eppoi, il mio partito non ha botteghe – continuò. – Ha sezioni pulite e ben arredate, dove si discute e ci si confronta serenamente…

Si portò occhi negli occhi con don Camillo ed i due sembrarono i protagonisti di Via col vento, quando ci sta per scappare il bacio…

Ma, inaspettatamente, spezzò l’incanto, lanciando un urlo ch’era un urlo di guerra:

– E soprattutto democraticamente!

Poi, si scostò, con ampio gesto oratorio e riprese con voce calma:

– Ma, purtroppo, vedo che non vi siete accorto che siamo nella Seconda Repubblica…

Quindi, con un nuovo urlo:

– E, comunque, buongiorno!

– Avete ragione – ammise don Camillo, con sguardo contrito. – Ora che vi guardo attentamente, vedo che siete ingrassato. Non avete più la vostra bella faccia bolscevica. Ora, la pancia e gli abiti sono borghesi e capitalisti… anzi, vorrei dire berlusconiani.

Qui, si portò nella posizione quasi intima di prima e all’urlo rispose con l’urlo:

– Comunque, buongiorno a voi!

Per ritornare subito calmo, umile, gentile e sorridente, come si conviene all’abito talare. E chiedere:

– Come state?

– Sto bene – ringraziò Peppone, scoprendo una dentatura da orso in quel che voleva essere un sorriso. – E, a quel che vedo, neppure voi ve la passate malaccio.

– Bah! Cerco di difendermi.

– Alle corte, don Camillo! Non sono qui per discutere di politica.

– Lo so. Siete venuto per i soldi.

Peppone ebbe un fremito. Le sue mani dettero (come spesso davano) segnali di voler entrare in azione. Ma, il cervello intimò l’attesa.

– Giusto! – disse. – In fondo, non debbo rendere conto a voi dei miei sentimenti. Per le pulizie della mia coscienza, mi servo altrove.

– Non vi sarete mica rivolto a una cooperativa emiliana?

– Non raccolgo…

Soltanto allora guardò Gegè Bobina e disse:

– Noto che vi siete portato dietro un aiuto. Chi è? Un avvocato?

– Che dite, compagno senatore? – insorse Mario. – Trattasi, qui presente e sottoscritto, del compagno Gegè Bobina, studente auniversitario da vent’anni e intellettuale, vicesindaco e promessa del comunì… Ah, già! Non siamo più comunisti… del… e come lo dobbiamo mentovare?… del… insomma, vah!… di ciò che dite vossia… sia locale, sia provinciale, sia regionale e sia, se non abbiamo sbagliato lu cuntu di li cunti, pure nazionale e dell’Italia intera!

– Il prete ha cercato di tirarti dalla sua parte, non è vero? – chiese Peppone a Gegè.

Gegè mostrò negli occhioni blu un’espressione straziante qual quella di un bue nel box del macello. Ma se ne stette fermo e zitto, come un don Calò uomo di panza, quando viene interrogato dai carabinieri (prima dell’avvento dei pentiti, ovviamente).

– Non dici niente? – si alterò Peppone. – Bada che, se per caso mi accorgo che sulla mia testa si sono fatti traccheggi, o accordi con l’animaccia nera della reazione…

– Alt! – lo bloccò don Camillo. – Compagno Peppone, io non ho avuto ancora il tempo di traccheggiare col compagno…

Esitò e si volse a Mario, indicando Gegè con la testa:

– Come si chiama?

– Gegè Bobina – fu pronto a dire Mario.

– Ecco! – riprese don Camillo. – Col compagno Gegè Bobina, quindi, non c’è nessun accordo… Io ho incontrato questo bravo giovine davanti alla canonica, dove ha espresso… liberamente, com’è giusto… una disapprovazione sui preti che… non ho ben capita!… Ed io, allora… liberamente… l’ho delicatamente avvicinato… Lasciate che i fanciulli vengano a me, come dice il mio capo!

Peppone ghignò.

– Avete la stessa attendibilità dell’Osservatore Romano – osservò.

Questa volta, a non raccogliere, fu don Camillo, che continuò:

– Ebbene, compagno Peppone…

E si fermò. Volle mostrarsi imbarazzato ed assunse l’espressione di una fanciulla ottocentesca, alla vista del suo primo uomo nudo.

– O volete che vi chiami senatore Bottazzi? – chiese.

– Fate un po’ voi – rispose Peppone.

– Compagno Peppone, allora!… Dunque, dicevo… a voi sembrerà strano, ma il compagno…

Guardò di nuovo Mario, con sguardo al contempo interrogativo e imperativo.

– Gegè Bobina! – scattò Mario.

– …Gegè Bobina, appunto. Il compagno Gegè Bobina non ha più voluto parlare… Nix! S’è chiuso in un silenzio di clausura!… Sospetto, addirittura, che voglia farsi frate.

– Meglio morto! – esclamò Gegè.

Con aria serafica, don Camillo strinse la presa.

– Ahi! – esclamò Gegè.

– Non ho sentito, figliuolo – salmodiò placidamante don Camillo.

– Non ho detto nulla – bestemmiò sottovoce Gegè.

– Ah, ecco! – gli sorrise don Camillo.

Poi, a Peppone:

– Prendete, senatore… E’ roba vostra.

E gli lanciò il giovin signore, che cadde al centro della scena come un meteorite piovuto dal cielo.

– Porca miseria, fratello caro! – squittì Gegè, dopo esser risorto da quel mucchietto di eleganti stracci ch’era prima. – Quello non ha una mano, ma una trochessa!

– Esagerato! – disse don Camillo – Al massimo, una tenaglia! Il braccio ce l’hai ancora attaccato!

– Io non apprezzo codesti metodi – disse a quel punto don Vittorio Leonardi, poiché entrò nella stanza, seguito da Lina Longo e da Grazia Furno.

– Figuratevi io! – aggiunse Gegè Bobina.

– Bisogna pur soffrire in questa valle di lacrime – affermò don Camillo.

– Vi avverto, fratello caro! – intimò Gegè a don Camillo. – Alle strette, anche la sinistra sa menare le mani!

Di ciò, ovviamente, chiese conferma al senatore P.D.S. Peppone Bottazzi, che in materia godeva di una certa reputazione.

– Compagno Bottazzi – proclamò, infatti. – Ti comunico che l’intera sezione è già stata mobilitata. Se vuoi, siamo già pronti a dar fuoco alla canonica… e senza fare uscire i preti!

– Oh, Signore Iddio! – esclamò don Vittorio.

– Io resto qua, con don Vittorio! – si fece avanti Lina. – Brucio, ma non mi allontano dall’unica fede mia!

– Che bello! – gorgheggiò Grazia.

– Che c’è di bello? – chiese don Vittorio.

– L’eroismo al femminile! – disse Grazia, con fede, speranza e carità.

– Ah, no! – si allarmò don Camillo. – Non vorrà mica scriverci sopra una poesia?

– Mi consiglia? – civettò Grazia.

Don Camillo, allora, chiese aiuto a Lina.

– Mia cara signora, di fronte a tale prospettiva, rimandi il suo martirio!

Si volse, quindi, a Gegè, pontificale e benevolo come San Luca fra le nuvole.

– Permettetemi, invece, di spezzare le braccia a questo bravo giovine… Poi, aggiungerei un paio di panche sulle teste più calde…

Qui, come Zeus, Peppone scese dall’Olimpo in cui stava e disse:

– Al vostro posto, mio caro don Camillo, mi comporterei più da buon cristiano e minaccerei di meno. Anche perché sapete bene che a me le vostre panche non fanno paura!

– E’ vero! La vostra testa è più dura delle mie panche.

– Perché non discutiamo? – provò a proporre don Vittorio.

– Se c’è davvero la volontà di una trattativa – gli rispose Peppone, – per me, io preferisco sempre l’intesa.

– Com’è nella tradizone del partito – disse don Camillo. – Ma, almeno, questa volta… Lo vogliamo fare onesto e senza trucchi, questo benedetto compromesso storico?

– Non è possibile – rispose Peppone.

– Che cosa? L’onestà? – si stupì don Camillo.

– No, il compromesso storico.

– Ha ragione! – intervenne Mario. – Sono anni che L’Unità non ne parlamenta più!

– E che facciamo allora? – si scoraggiò don Camillo.

– Don Camillo, fratello caro! – si fece avanti Gegè con un sorriso tutto pane, amore e fantasia. – Io proporrei di chiamare il nostro accordo un’intesa alta e nobile!

Don Camillo si volse a Mario:

– Che dice L’Unità?

– Poi controllo – rispose Mario.

Peppone, grattandosi il mento, chiese a Gegè:

– Perché, quando parlate voi intellettuali, par sempre di sentire la stessa cosa?

– Perché non ci sediamo? – propose don Vittorio.

– Ecco! – accettò Gegè. – Sediamoci attorno al tavolo delle regole!

– Questo parla come D’Alema – disse don Camillo. – Che sia D’Alema travestito da Gegè Bobina?

– Don Camillo, fratello caro! – lo esortò Gegè. – In Italia, senza quelli come me, non si può far nulla! Io appartengo alla razza delle persone serie, che vogliono un paese normale… Ecco perché stiamo facendo fuori tutti quelli che sono diversi… che non sono normali come noi!

– E’ Lui! E’ D’Alema! – esclamò don Camillo.

– Che fai, don Camillo? – chiese allarmato il Crocifisso.

– Ah, l’avessero fatto gli italiani, ciò che sto per fare io!

E con un calcio fulminante don Camillo spedì Gegè in sezione, a riferire dell’arroganza di preti, fascisti e imperialisti.

XII

Intanto, l’astro d’argento che brilla lassù si apparecchiava a scendere (ormai si era al pomerigio molto inoltrato). Il suo color facea venir la nostalgia (Oh, quanti ricordi, fai vivere tu! / Stella d’argento, che brilli lassù!). Nei vicoli, nu pianoforte ‘e notte sunava luntanamente e la museca se sentiva pe l’aria suspirà… I toni dei duellanti, perciò, si fecero pacati.

– Fila via anche tu, sindaco – ordinò Peppone, con nella voce la quiete e la tempesta.

– E’ sicuro di farcela? – esitò Mario (ma non vedeva l’ora di andarsene). – Solo, contro due parrini preti?

– Ho qualche esperienza – disse Peppone.

– Allora, anch’io me ne corro di corsa in sezione – disse Mario e partì.

Pure don Vittorio volle contribuire a portar rasserenamento negli animi.

– Vada con suo marito – disse a Lina.

– E’ meglio! – aderì Lina. – Meglio tenerli sott’occhio, ’sti comunisti sbalestrati!… Andiamo, Grazia!

E come se marciarsero sulle note del corteo trionfale dell’Aida Lina e Grazia uscirono di scena. Le seguì subito la vocetta donvittoriesca:

– Suo marito è uno scomunicato, se ci riferiamo all’eredità della Guarini… Ma, resto dell’opinione che la Chiesa sta con la Storia, cioè a sinistra!

– Gesù! – s’indispettì don Camillo. – Questo prete è peggio di Peppone!

– Lascia perdere le polemiche! – esortò il Crocifisso. – Per ora, concentrati sulla missione e dopo pensa alle tue intemperanze.

– Mi toccherà recitare almeno seicento paternostri di penitenza.

– Io ti ho dotato di libero arbitrio. Se lo farai, sarà una scelta tua.

Don Camillo inghiottì l’amaro calice ed andò a sedersi, per rivolgersi a Peppone.

– Bene, compagno Peppone – disse. – Ora si può discutere in santa pace. L’armata rossa se n’è andata.

– Sì – disse Peppone. – Ma, siete rimasti gli agenti del Vaticano.

– Senatore, non centra niente, il Vaticano! – esclamò don Vittorio. – Definiamo la faccenda tra noi…

E, senza aspettar risposta da Peppone, tomo tomo e lemme lemme, il giovane prelato andò a sbirciar fuori dalla finestra e, dopo qualche istante, disse:

– Vedo che la signorina Nèrica è puntuale. E’ seduta al bar di fronte… Vado a chiamarla. Meglio che sia presente, per dare garanzia a nome del partito… Con permesso!

Quindi, con un veloce fruscìo, se ne uscì, tra la generale, ammutolita meraviglia.

– Questa mi mancava… – esclamò Peppone. – Un prete che vuole l’avallo del mio partito!

– Mancava anche a me! – concordò don Camillo.

– Che ci vuoi fare, don Camillo? – intervenne il Crocifisso. – Questi sono tempi di revisione storica! Le vecchie ideologie sono finite. Se pensi che pure quelli di Alleanza Nazionale ora dicono di essere figli di Gramsci e di Sturzo!

– Col dovuto rispetto, Gesù, quella gente mi pare figlia di troppi padri – chiosò don Camillo.

Nella stanza, però, c’era pure Peppone. E non stava lì per tappezzeria.

– Ma, neppure il mio partito mi farà sottostare alle mene clericali! – urlò, quindi, l’antico bolscevico.

Fu la squilla giusta, per far galoppare il sangue brutto a don Camillo. Il vecchio pastore corse a conferire col Crocifisso.

E:

– Gesù! La pazienza è una virtù impossibile per le mie deboli forze. Appena sento la voce arrogante di Peppone…

– Prega e non sarai indotto in tentazione!

Don Camillo si segnò e prese a biascicare, fervoroso.

– Che fate, don Camillo? – gli chiese Peppone. – Cercate di guadagnar tempo?

– No, senatore! Raccolgo le direttive. Anche da noi c’è la disciplina di partito.

– Non esagerare! – l’ammonì il Crocifisso.

– Vi sembra che esageri… pregando? – si difese il vetusto prete.

– Sai che ti dico? – sorrise il Crocifisso. – In fondo, tu e Peppone siete della stessa pasta!

– Gesù, mi offendete!

– Cosa pensi che deciderà Peppone?

– Ahimè! Se debbo essere sincero, metto la mano sul fuoco che alla fine rispetterà la volontà della sua povera moglie.

– E tu dirai che l’ha fatto per propaganda!

– Per forza! Mai cedere all’idea che un comunista sia un brav’uomo!

– Io, in verità, ti dico che la giustizia si trova dappertutto.

– Ne avete ancora per molto, don Camillo? – s’informò Peppone.

Il prete lo guatò torvo, pronto a schiacciargli sul naso quell’aria irridente. Lo squadrò da sotto in su e, per un attimo e per incanto, parve di tornare ai vecchi tempi, in cui di fede e di politica si discuteva sempre con le mani (tranne molte occasioni in cui si usavano pure i randelli).

– M’hanno detto che quello lì è un capo veloce nel dare gli ordini – continuò Peppone, indicando il Crocifisso. – Ma, ho paura che voi siate troppo lento nel capirli!

– Che volete farci, caro senatore Peppone?

– Nulla! Però, sono preoccupato, dato che avrei quasi deciso di lasciare a voi l’ultima parola sulla nostra faccenda.

Nel preciso istante in cui con questa frase veniva portata nella vicenda una svolta radicale, giusto giusto in tempo per sentire le parole di Peppone, entrò don Vittorio, insieme a Patrizia Nèrica.

Entrò, venne, vide e vinse. Anzi, no (o forse sì, come si vedrà più in fondo).

Entrò, comunque, il giovine prete, sentì e disse:

– Oh, questa poi!

– Al tempo, senatore! – disse, invece, Patrizia. – Non prenda impegni senza consultare il partito.

– Ho detto qualcosa che non va? – chiese Peppone.

– Per me, va benissimo! – disse don Vittorio. – Ma, dopo tante minacce, mi stupisce che di colpo lei si rimetta al giudizio di don Camillo.

– Sono stupita anch’io – disse Patrizia. – Un compagno senatore non cede mai le armi! Casomai, tratta.

– Sedetevi! – disse Peppone. – Ora parlo io.

Il tono non ammetteva repliche, perciò don Vittorio e Patrizia sedettero.

Peppone guardò il giovane prete, col sorriso compiaciuto che si vide negli anni Cinquanta in un manifesto di Stalin padre della pace, e gli disse:

– Sentite… Riguardo alle minacce… Che pretendavate? I rappresentanti della classe operaia non sono mica damine di San Vincenzo…

– Neppure io, compagno! – ringhiò don Camillo.

– Cuccia! – sorrise Peppone. – Sono sicuro che alla fine mi darete ragione… Siete un pretaccio! Ma, vi piace la giustizia… e io dico sempre che la giustizia la trovi dappertutto, anche in sacrestia.

Don Camillo guardò il Crocifisso.

– Questa gliela avete suggerita voi! – disse al Simulacro.

– E’ vero – confermò il Crocifisso.

– Non ditemi che vi piace un tipo del genere!

– E se anche fosse? Peppone ha molti pregi… E’di poche parole, soprattutto.

– E’ pure di poche idee… e tutte sbagliate!

Qui la voce di don Vittorio si aprì un varco:

– Se parliamo di giustizia, senatore Bottazzi, vorrei farle notare che i depositi di sua moglie sono pure a nome mio! Potevo prelevare il denaro e basta!… Invece, eccomi qui, da persona corretta, a render conto di ciò che intendo fare!

– Vorreste fare cosa, se non ho parlato? – chiese Peppone.

– Le ricordo che neppure il partito ha parlato – lo ammonì Patrizia.

– Don Vittorio, dite una buona volta ciò che volete fare – consigliò don Camillo.

– Null’altro, se non la volontà della signora Elvira – disse don Vittorio. – La santa donna, dopo che si era separata dal senatore Bottazzi, se n’era tornata nella casa d’origine, in Sicilia… Il medico le aveva diagnosticato un male incurabile e lei, prima che fosse troppo tardi, aveva deciso di far nascere qui un centro per l’inserimento sociale degli extra-comunitari. E questo è esattamente ciò che mi propongo di fare!

– D’accordo, Gesù, dirò dieci Avemarie! – disse, a questo punto, don Camillo al Crocifisso.

– E perché, don Camillo?

– Perché mi pento di aver sottovalutato don Vittorio… E’ un prete coi fiocchi!

– Allora raddoppiate il conto… – gli disse Peppone.

– Vi sente anche lui? – chiese, stupito, don Camillo al Crocifisso.

. Chissà! – esclamò il Crocifisso.

– Forse avete sottovalutato pure me… – continuò Peppone. – Vedete, io ho sempre rispettato la mia prima moglie, la madre dei miei ragazzi… Per carità! Scappatelle ce ne sono state. Sapete com’era al partito! Venivano le compagne di città… con nella bocca tante e tante di quelle parole in libertà!

– Il solito libertinaggio comunista, insomma! – disse don Camillo.

– Ai miei, però, non ho fatto mancare mai nulla! – riprese Peppone, senza badarci. – Ho cercato di mantenerli nel decoro, secondo i doveri del padre di famiglia. Ecco perché la gente mi ha sempre stimato e voluto bene!

– Avevate il cuore a sinistra ed il portafogli a destra – disse don Camillo.

– Prima fui eletto sindaco… – riprese Peppone, senza badarci. – Alla faccia vostra e delle vostre leggendarie arrabiature, caro don Camillo! E… anche se so che voi non lo ammetterete mai… risultai un ottimo sindaco. Esattamente, il sindaco che ci voleva nel momento in cui c’era da ricostruire l’Italia. Magari ignorante e pieno di convinzioni sbagliate…

– Giusto! – disse don Camillo.

Peppone, ormai prossimo a perder la pazienza, gli fiammeggiò addosso con gli occhi.

– Ignorante e pieno di convinzioni sbagliate, non l’avete detto voi? – chiese don Camillo, con un sorriso che attirava i pugni come il miele le mosche.

– Ma, ero onesto ed avevo buon senso! – gli rispose Peppone.

– Questo lo dite voi – disse don Camillo.

– Poi, venni eletto a Roma… – riprese Peppone, senza badarci. – Senatore!… Il meccanico Peppone Bottazzi, figlio di un fattore, che mai si era trovato davanti al padrone senza tenere il cappello in mano, di colpo, per dei fatti che parevano aver camminato da soli, dava del tu ai ministri!… Con cose del genere c’è il rischio di non starci più, con la testa!

– E non è che prima ce n’era tanta! – disse don Camillo.

– Nella maggior parte dei casi – riprese Peppone, senza badarci, – succede che un bel mattino ci guardiamo allo specchio e vediamo un altro uomo… un tizio ben vestito ed ingrassato, pronto a difendersi da tutti e a preparare tranelli… Fra l’altro, non abbiamo neppure la forza di tornare indietro, all’officina, all’osteria degli amici…

– Va là, va là! – disse don Camillo.

– Nel palazzo del potere – riprese Peppone, senza badarci, – si vive nel culto del nostro nome. Sopportiamo i peggiori sospetti, ci carichiamo lo schifo delle dicerie più atroci… ed aspettiamo! L’arte di aspettare eternamente è il sugo della politica… Non arriva il comunismo e non arriva neppure un minimo di giustizia… I poveri sono sempre poveri ed i deboli sono sempre deboli. Ma, noi stiamo lì… Aspettiamo. Predichiamo ed aspettiamo… e convinciamo altri ad aspettare!

– Ora va meglio – disse don Camillo.

– Poi, un giorno – riprese Peppone, senza badarci, – già vedovo e con i figli padri di figli, arrivò Elvira. Vi assicuro che, quando si ama veramente, non c’entrano nulla i… caratteri. Io ed Elvira vedevamo le cose in modo opposto. Lei non urlava mai. Era proprio una gattina di chiesa. Una di quelle fanatiche che, prima di darti un bacio… chiedono scusa alla Madonna! E, quel ch’è peggio, non aveva coscienza di partito e non sapeva aspettare!

Peppone si fermò per qualche istante; ma, don Camillo non disse nulla.

– Elvira era una gran donna – riprese Peppone, contento del silenzio di don Camillo. – Me ne rendo conto soprattutto ora, che siamo nella Seconda Repubblica e tutti i partiti non fanno altro che dirci che bisogna liberare l’Italia dai partiti! Insomma, pare che ci sia ancora da aspettare per avere una società fatta un po’ meglio!

Si fermò e si alzò sulla punta dei piedi, guardando su nel cielo… Quindi, si lasciò cadere sui talloni. Evidentemente, un’ora solenne batteva nel cielo della loro patria, l’ora delle decisioni irrevocabili.

– Ho deciso di pensarla come mia moglie – disse.

– Cioè? – chiese don Vittorio.

– Farò nascere il Centro d’accoglienza… Ma, senza lasciar fuori me!

– Ma, senatore… – cominciò Patrizia.

– Se avete un’altra idea, realizzatevela coi soldi del partito! – le disse Peppone.

– Le ricordo che anche lei rappresenta il partito! – s’inalberò Patrizia.

– Giusto! – acconsentì Peppone. – Quindi, io… cioè il partito… abbiamo deciso di far nascere il centro d’accoglienza per extra-comunitari.

– Bisognerebbe riunire il Comitato – azzardò Patrizia.

– Tempo perso! – tagliò corto Peppone. – Basterà un comunicato su… come si chiama?… sul nostro foglio parrocchiale, insomma!

L’Unità? – chiese Patrizia.

– No, l’altro… La Repubblica – rispose Peppone

– Anche questa volta me l’avete fatta! – disse don Camillo al Crocifisso. – Ora con quale scusa darò del farabutto a Peppone?

– Beh, dàglielo lo stesso! – lo rassicurò il Crocifisso – Se non lo sai tu, lo sa lui il perché!

Così rinfrancato, il vecchio prete parlò:

– Se voi, senatore Bottazzi, siete d’accordo nel destinare al Centro il patrimonio di vostra moglie…

– Chi ha detto questo? – lo interruppe Peppone.

– Non siete d’accordo? – s’allarmò e s’incupì don Camillo.

– Certo che sono d’accordo! – tagliò corto Peppone. – Ma, nel canestro metteteci pure il mio patrimonio personale, che è meno rilevante di quello di mia moglie, anche se… a un miliardo e rotti, ci arriviamo!

– Aggiudicato! – esultò don Camillo. – Mi pare che, a questo punto, si possa far la pace… Don Vittorio, l’amministratore del Centro sarà Peppone!

– Ovviamente, per me va benissimo – disse un don Vittorio percorso da un fremito di paura e di felicità.

XIII

Patrizia Nèrica aveva l’aspetto della sfinge. Magari, dietro non c’era nulla. Magari, i suoi pensieri normali erano sempre elegantemente scemi, farfalleggiando tra la temperatura ideale per i vini d.o.c., la condanna morale per chi porta i calzini bianchi e la lettura liberal dei film di Nanni Moretti (e, col mal di testa, anche di quelli dei fratelli Taviani).

Ma, Patrizia Nèrica parlava poco, anche stando in argomento. Fuori argomento non parlava mai. Eseguiva a puntino gli incarichi, usando quasi le identiche parole che avevano usato i capi, senza mai scostarsi dalla linea! Ecco perché Patrizia Nèrica sembrava una sfinge e si era costruita la fama di intelligenza gelida.

Però, neppure Patrizia Nèrica riuscì ad evitar di sobbalzare di fronte alla comunicazione che il senatore Peppone Bottazzi diventava amministratore di un Ente cattolico, lui ch’era stato un mitico leader comunista (e, soprattutto, anticlericale) negli anni in cui le lotte infuriavano nella Bassa Padania.

– Debbo telefonare! – disse e corse verso l’apparecchio.

Ma, sopravvenne Grazia, con l’aria d’una Erinni.

– Padre Vittorio! – ansimò. – Mi manda Lina Longo.

Sopravvenne Gegè Bobbina, subito dopo di lei.

– Sei ancora in tempo, sorella cara! Non tradire! – disse Gegè.

Grazia, per tutta risposta, gli puntò contro l’indice accusatore.

– Vogliono combinarvene una! – comunicò Grazia.

– Ricordati che stai tradendo Mario Carcarazza, l’amore tuo! – disse Gegè a Grazia.

– Però, non tradisco Lina! – ribattè Grazia. – Padre Vittorio, le vogliono fare una mala azione!

– Giuro che non ne so nulla! – si affrettò a dire Peppone.

– Lei, no… – disse Grazia.

Poi, si volse a puntare l’indice su Patrizia:

– Ma, quella donna sì, che ne sa qualcosa!

Patrizia non si scompose.

– Telefonavo appunto per avvertire che non se ne fa più nulla – disse.

– E che telefonate a fare? – disse Grazia. – Sono partiti.

– Chi? – chiese Peppone.

Grazia lo guardò con gli occhi rotondi del cardellino e vispi del bue.

– Mario Nasi e gli altri – disse. – Lina è andata ad avvertire il vescovo ed ha mandato me qui.

– Il vescovo? – chiese don Camillo. – Che si deve fare dal vescovo?

– Vogliono fare un blocco stradale davanti alla diocesi – comunicò Grazia.

– Corro a fermarli! – disse Peppone.

– E’ meglio chiamare rinforzi! – disse don Vittorio. – Pasquale! Gisa! Amalia! Luciaaa!

Don Camillo si sfregò le mani, in allegria mefistofelica.

– Benissimo! – disse. – Non capita tutti i giorni di spolverare zucche bolsceviche, io e Peppone insieme!

Per cui, a passo di carica ed in ordine sparso, don Vittorio, don Camillo Peppone e Patrizia uscirono dalla stanza.

Gegè e Grazia restarono soli e di colpo l’atmosfera diventò diversa. Molto diversa, come si vedrà subito. Per esempio, con passo felpato e corpo danzante Gegè planò sull’apparecchio telefonico.

– Pronto, avvocato?… – disse Gegè. – Fratello caro, sono io… Gegè Bobbina, il vice sindaco… Avvocato, dobbiamo anticipare tutto… Mi pare che non ci sia più tempo da perdere… Mi sa che don Vittorio ed il senatore Bottazzi abbiano raggiunto l’accordo… Perché li ho visti filare via insieme, più amici del dovuto… No, è meglio che venga io… Verrò entro un’ora… Certo che ho con me la prova… Per domani siamo intesi, perciò… Mi farete trovare tutto pronto per la denuncia?… A chi? Ma, a don Vittorio, per circonvenzione d’incapace… D’accordo… A fra poco, avvocato, fratello caro!

Chiuse un telefono inoridito per esser stato tramite di tanta perfidia, sorrise al futuro e fece l’occhiolino a Grazia.

– Sentito? – disse. – Hai tradito Mario inutilmente.

– Denunzierai padre Vittorio?

– Il tuo caro don Vittorio!

– Non è caro a me, è caro a Lina… Io amo Mario.

– Chi ci capisce è bravo! Perché l’hai tradito, dunque?

– Per non tradire Lina.

– Basta, mi arrendo… Comunque, del tuo caro don Vittorio…

– Caro a Lina, t’ho detto!

– Del Caro-a-Lina, comunque, sai che faccio?… Me lo infilo in tasca e poi lo tiro fuori con una mano e lo faccio squagliare come un pupo di cera!

– Chi, tu?… Ma, guarda un po’! Gegè Bobbina, detto Cosciamodda, il figlio di don Paolino Caca-caca, che parla come i mafiosi!

– Sta’ calma con le ingiurie, compagna! Tu sei sempre l’amante di Mario Carcarazza!

– L’amore, non l’amante! Sull’argomento ci ho scritto molte poesie.

– E ti sei alleata con don Vittorio, che si è rubato i miei soldi!

– Di che soldi parli?

– Quelli di Elvira Guarini… mia madre!

La rivelazione era di quelle forti, anche per caratteri meno impressionabili di quello di Grazia. La figura della donna, perciò, divenne tutta rotonda; cioè, le sue manocce davanti al viso, i suoi capelli d’oro, le labbra sue e gli occhi suoi sinceri si fecero tanti cerchi perfetti.

– Oh, Gesummaria! – esclamò Grazia.

Visto che il teatro incontrava, Gegè non seppe resistere alla tentazione di continuare. Trasse dal suo giustacuore (dalla tasca interna della giacca, cioè) un foglio ingiallito.

– Ascolta – disse. – Questa lettera, Elvira Guarini la scrisse a mio padre il 12 dicembre del 1959, esattamente sette mesi e quattordici giorni prima che nascessi io. A quei tempi, lei aveva idee un po’ più liberali in materia di sesso…

Andò scorrendo la lettera con gli occhi.

– Salto i passaggi strettamente personali – riprese. – Leggo solo… Ah, ecco!… “Sarei contenta che nostro figlio portasse almeno il tuo nome! Considerati i miei soldi, non dovrebbe essere difficile convincere tua moglie. Io e lei potremmo scomparire dal paese per il periodo della gravidanza…”

– Ma, se è così, perché non ti ha riconosciuto lei? Tuo padre e tua… insomma, quella che abbiamo sempre pensato che fosse tua madre… ormai sono morti. Che problemi c’erano?

– Elvira mi disse che suo figlio era nato morto… Io, purtroppo, sono l’altro, il figlio della moglie di mio padre.

– E bravo Paolino Caca-caca!… Aveva messo incinte moglie e amante insieme!

– Più o meno. Ma, che importa? Con questa lettera l’eredità è mia lo stesso!

– E ti sembra una cosa bella?

– Utile, sorella cara! Soprattutto utile… almeno per me!

A quel punto, Grazia corse a porsi davanti alla porta.

– Tu non ci vai, dall’avvocato! – disse.

– Sì che ci vado, invece!

– Io racconterò tutto.

– C’è la tua parola e c’è questa lettera. Cos’ha più valore?

– Allora, perché mi hai messo a parte di tutto?

– Perché mi piaci, compagna, sorella cara! Ora sai quanto sono in gamba…

– Io non mi innamoro di uno perché è in gamba… A me piace la poesia. Io sono romantica e maestra giardiniera.

– Anche a me piace la poesia. Se ci stai, ti faccio pubblicare un libro a mie spese.

Come San Paolo sulla via di Damasco, Grazia (pur senza cadere da cavallo) volse gli occhi a mirar Gegè Bobbina.

– Mettiamo un po’ di musica – disse.

Andò vicino al giradischi.

– Vediamo che c’è… tutta anticaglia da sacrestia… Ti piace Bach?

– Perfetto, per l’occasione: toccata e fuga!

Grazia fece partire il disco.

– Allora, eccomi qua – disse, addossandosi a Gegè.

– Forse è meglio che prima vada dall’avvocato – farfugliò Gegè.

– Non può aspettare, l’avvocato?

– Volendo, sorella cara… Chi l’ha detto che non può aspettare?

– A posto, fratello caro!

Gegè si tuffò dentro la scollatura della maestra giardiniera con la lingua che girava a mille, pensando a Mario, che tante e tante prepotenze gli aveva fatte.

– Aspetta – gli disse, però, Grazia. – Spegni la luce, che mi vergogno!

Gegè corse all’interruttore e la stanza piombò nel buio. Si sentirono scalpiccìi, mobili spostati, grugniti e gridolini… Infine, si levò alto l’urlo di Gegè:

– La lettera, porca miseria! Ridammi la lettera!

– Voleva prendersi i tuoi soldi, Mario! – urlò di rimando Grazia. Accese la luce e, mentre si mangiava le lettera, finì solennemente:

– Ma, io l’ho impedito!

XIV

In quel preciso istante, don Camillo e Peppone entrarono improvvisamente e restarono un po’ incantati, a riguardar Grazia, che con aria mariagorettianesca (vergine, martire e santa) si manducava la carta, per amor di Mario, unica gioiuzza sua.

– Che fai, figliuola? – chiese don Camillo.

– Non lo vedete? – disse Peppone. – Sta mangiando un foglio di carta.

– Sì – disse don Camillo. – Ma, siccome non siamo in Russia, debbo pensare che non lo fa per fame!

– Quella pazza sta distruggendo la prova – rantolò Gegè.

Don Camillo si avvicinò a Grazia e gli mise sotto il mento l’enorme palma della mano destra.

– Sputa qua – le disse.

– Volevo collaborare – disse Grazia, sputando la carta (che, d’altra parte, non le era riuscito di mandar giù).

– Eh, no, sorella cara! – esclamò Gegè. – Compagno Peppone, fratello caro! Costei è un agente del Vaticano!

– Sempre meglio degli agenti delle tasse – disse don Camillo.

– Vuole distruggere la prova che l’eredità della Guarini appartiene a me – disse Gegè.

– Cosa, cosa? – fece don Camillo.

– E’ arrivato il momento di dir tutto… – disse solennemente Gegè. – Elvira Guarini era mia madre!

– Non è vero! – urlò Grazia. – Tu sei figlio di Paolino Caca-caca!

– E di Elvira Guarini – disse Gegè.

– Quello lì è nato morto – disse Grazia.

– Figliuola, sarai pure maestra giardiniera, ma io mica ci ho capito nulla! – disse don Camillo.

– Ora basta! – sbottò Peppone ed agguantò Gegè. – Parla chiaro… e attento a non insultare la memoria della mia Elvira!

Gegè si svincolò e corse da don Camillo.

– Reverendissimo don Camillo, fratello caro! – disse. – Non permetta ad un ateo di picchiare un povero figlio!

– Sono così debole e vecchio! – disse don Camillo, spingendolo verso Peppone.

Eccoli lì! – schiumò Geggè. – Tonaca e camicia rossa di nuovo insieme! Alleati come ai vecchi tempi! Se lei, don Camillo, non legge la lettera che tiene in mano ne renderà conto a Dio!

– Non legga, la scongiuro! – urlò Grazia.

– In quella lettera c’è la vera storia di mia madre – sillabò Gegè.

In quell’istante arrivò don Vittorio, arrivò Pasquale, arrivò Amalia, arrivò Gisa, arrivò Lucia. Insomma, arrivarono tutti, tranne Mario e Lina, che arriveranno fra poco.

– Ha ragione lui! – disse don Vittorio, come chi ha pronto il colpo di scena. – In quella lettera c’è la storia della signora Elvira, perciò vi consiglio di leggerla.

– Muto, scimunito! – saltò su Gisa. – Mi dice il cuore che mi stai regalando una bella botta di veleno!

– Tutta salute per te! – commentò Amalia. – con te il veleno passa liscio!

– La lingua! – esclamò Gisa.

– Lo dici a me? E’ il bue che dà del cornuto all’asino!

– Sta’ tranquilla! Quando ti sposerai le corna restano a te!

– E le ragnatele a te!

A questo punto, entrarono pure Mario e Lina.

– Ora che c’è il permesso del prete parrino don Vittorio, posso entrare… se non disturbo? – chiese Mario.

– Entra, ma sta’ zitto – disse Peppone. – Che di gente che parla turco ce n’è già troppa!

– Grazia, parla chiaro! – troneggiò Lina. – Che ci sta scritto nella lettera?

– Cose brutte, Lina! – disse Grazia. – Cose brutte!

Nel frattempo, don Camillo non se n’era stato con le mani in mano ed aveva letto la lettera. Per cui, alla fine, disse:

– C’è scritto che Elvira Guarini nel dicembre del cinquantanove aspettava un figlio.

– Lo aspettva da mio padre! – esclamò Gegè. – Nella lettera c’è scritto pure che lei voleva nascondere la gravidanza e far credere che il figlio fosse di mio padre e della sua leggittima moglie.

– Oh, padre eterno! – esclamò Peppone.

– Capisco il fastidio – disse don Camillo. – Essere quasi padre di Gegè Bobbina è una faccenda dura da mandar giù!

– A postissimo, compagno Gegè! – disse Mario. – Giunti a questo punto, io credo con sicuranza e sicumera che li abbiamo dentro del pugno, il parrino ed il compagno Peppone traditore! L’eredità spetta a noi!

– E come? – si stupì Grazia. – Sei contento della notizia? Ed io che per nasconderla quasi quasi facevo il supremo sacrificio!

– Con Gegè m’intendo meglio – spiegò Mario.

– Sic transit gloria mundi, caro Peppone! – commentò don Camillo.

– Ma, Mario! – piagnucolò Grazia. – Gegè è un porcaccione che voleva il mio corpo!

– E tu… daglielo! – sbuffò sottovoce Mario.

E a Gegè:

– Rispetta la sua anima, però! Che la sua anima debba restare libera!

– Come le corna che ci hai in testa! – sbottò finalmente Gisa.

Per la prima volta, il vocione di Peppone sembrò quasi un sussurro:

– Non voglio più sentir parlare di quei soldi… Andiamo via, don Camillo.

Per la prima volta, la vocetta di don Vittorio si fece quasi tonante:

– Restate, invece! Vi garantisco che questa gente non prenderà una lira!

– Bravo, don Vittorio! – applaudì Lina. – Bisogna distruggere la lettera.

– Non ce n’è bisogno – disse don Vittorio. – Anch’io ho il mio pezzo di carta.

– Un’altra lettera? – chiese don Camillo.

– Non proprio – rispose don Vittorio. – E’ una dichiarazione. L’originale è depositato dal notaio.

– Che dice? – chiese don Camillo.

Don Vittorio tirò giù un sospiro.

– Mi costa un poco – disse. – Ma, andiamo avanti… Dopo il colloquio col vice sindaco, donna Elvira aveva paura che succedesse proprio ciò che è successo… Ecco, qui c’è scritto che il figlio… sono io.

– Non è vero! – urlò Gegè. – Il bambino nacque morto.

– Invece, no! – ribattè don Vittorio. – Per salvare l’onore, mia madre mi affidò ai Leonardi, che mi accolsero come un figlio.

– Perché non l’ha detto prima? – domandò Peppone.

– Perché dovevo dar il via ai pettegolezzi? – domandò don Vittorio.

Sopravvenne Patrizia e trovò una scena che la lasciò perplessa.

– Tutto bene? – chiese Patrizia.

Silenzio di tutti.

– Tutto bene, senatore? – chiese ancora Patrizia.

– A meraviglia, compagna! – rispose Peppone, prendendo a braccetto don Vittorio. – Venga, don Vittorio… o ti debbo chiamare figlio?… Bah, ci abitueremo… Andiamo dal notaio e mettiamo a posto le carte per il mio lascito…

A don Camillo non restò che rivolgersi al Crocifisso.

– Così è finita bene – gli disse. – Almeno, riguardo all’eredità… Mi resta un dubbio, però! Perché mai, poi, i comunisti non ci sono andati dal Vescovo a far la rivoluzione?

Il Crocifisso sorrise e dall’alto dei Cieli rispose:

– Perché dovevano correre a casa, don Camillo. C’è la partita alla televisione: Italia-Germania… come ai vecchi tempi, nel settanta.

Finito di stampare

la Prima Edizione

nel gennaio 2014

da

Il Garufi Edizioni s.r.l.

Catania