Garufi, Rocambole – Periferie isteriche, racconti (una narrativa neo-verista nell’Italia devastata dal consumismo vacuo del capitalismo)

Rocambole S. P. Garufi

PERIFERIE ISTERICHE

I MOMENTI DELLA VITA

(Finalista al Premio Calvino 1990)

1

Lungomare di Naxos (Messina), I momenti della vita.

A lui quelle vacanze sembravano un niente. Al più, lo portavano a un triste pensare: troppa ciccia unta e tremolante, oscenamente in luce.

Sotto gli ombrelloni, la sabbia era marrone, opaca e solcata da ignobili rughe. Lungo la riva si sentivano gli elicotteri, a coprire la voce del mare. Aveva quasi il sospetto di trovarsi in un lager ben organizzato. Lì, la morte era un trucco: c’era, ma non si vedeva. Le anime dei bagnanti non salivano verso il cielo – come il fumo delle vittime dell’Olocausto – e non correvano dentro il vento… S’impigliavano nei riccioli sporchi di corpi abbronzati e senza mistero, che diventavano un misero guizzo in un mare liscio come l’olio.

Nel frattempo, la madama con la falce mieteva il suo grano.

Tutti guardavano culi e tette in esposizioni da grandi magazzini. Topless e bikini, perciò, servivano soltanto a coprire ciò che era ipocrita velare e a scoprire ciò che era conveniente disvelare.

Lucrezio spesso pensava che la Moira – vabbe’… la morte! – fosse l’unica dea trionfante. La morte poteva persino permettersi il lusso di star serena, mentre attendeva. L’eternità è sicura, soltanto quando parliamo della morte.

Da ragazzo, figuratevi, lo incantava la lettura del Foscolo. Nella noia del collegio, una sera gli capitò di scrivere, in margine ai noti versi di Quasimodo:

Or, ch’è subito sera,

c’è la morte e non c’è nessun mistero.

Mi aspettava, sicura del mio sì,

sapendo la mia strada e sorride.

Aveva sedici anni.

Quel serpente gli restava ancora nelle viscere. Si contorceva ed iniettava veleno. Gli sarebbe parsa impazienza, se avesse saputo cosa voleva. Forse erano gli intellettuali ed astratti furori del Vittorini di Conversazione in Sicilia.

Provò a distrarsi, pensando alle montagne valdostane di quando era a Ivrea. Anzi, no! Meglio i picchi del Trentino, dove fu prima. In Trentino la neve può diventare dura e luminosa come il vetro. In un lontano giorno aveva visto barbagli di perla sulle pareti verticali che si elevavano incombenti. Dal trenino che lo portava a Malè, nel cuore della Val di Sole, poteva intravedere il cielo soltanto di scorcio. Stava lassù, molto in alto, oltre le cime. Il suo colore aveva riflessi d’argento.

Accese l’ennesima sigaretta, sapendo già che il solo effetto sarebbe stato un aumento del mal di testa. Davanti a lui un bagnante andava scuotendo un piccolo canotto, di quelli della Standa. Duri granelli di sabbia gli arrivarono alle narici e agli occhi. Lo guardò bieco, ma questi non mostrò neppure di accorgersene.

Allora, si disse che, le sue, erano reazioni e riflessioni banali; di quelle, appunto, che si potevano avere nell’ozio di una spiaggia. Ma, provateci voi, gentilmente, a trovare l’originalità nel succedersi millenario delle vite e delle morti!

Guardò la moglie che guazzava a riva. La vide meno bella del solito. I fianchi erano larghi, molli. I neri e lunghi capelli, anche se riflettevano stille di luce, le si erano appiccicati in testa e gliela rendevano sproporzionatamente piccola. Un grande uccello dai movimenti goffi. La sua forza animale si addensava nel peso del seno e del sedere. Soltanto le gambe avevano la liscia bellezza del fusto di una colonna corinzia.

“Vieni in acqua!” gli gridò lei, vedendosi osservata.

“No” rispose.

Chiuse gli occhi con la faccia al sole e rivide il viso di sua madre.

Aveva quattro/cinque anni, stava col gonnellino lungo e sporco delle gustose pappine della nonna – pane bollito nel sugo dell’estratto di pomodoro -, dal comodino saltava sul gran letto matrimoniale. Sua madre vi campeggiava enorme e lo racchiudeva tutto.

Poi, gli venne in mente un’altra età, anch’essa lontana. Seduto sui gradini di una casa, scrutava sotto le vesti di una bambina. Stava senza un briciolo di coraggio e senza dire granché, mentre intravedeva come un solco su una pagnottella. Eppure, poco dopo illustrava a una compagnia di adulti burloni la cosa che hanno le donne, facendone persino un disegnino barocco. Ah, se tanta fantasia fosse durata!

Invece, a sedici anni se la passò bene, tutto sommato. C’erano le feste mattutine con le quali dalle sue parti si celebrò il Sessantotto. Cinque giorni su dieci, si marinava in massa la scuola e si andava a ballare.

Allora Franca era larga e matronale. Portava i capelli corti, a caschetto. Sembravano fili di seta nera. Ed anche gli occhi erano neri, secondo i canoni di una immaginazione araba, col taglio stretto ed obliquo. Aveva immolato la sua verginità in una precedente, tempestosa relazione – con chi? Non riusciva a ricordarne il nome -.

Prima, fra loro ci fu platonica amicizia e poi libero amore. Libero pure di bere. Datava da quei tempi la sua nausea per il Martini, per via di una solenne sbronza.

Quando si lasciò cadere come un sacco sul letto, la stanza ronzava forte e irregolare. Prese un volo faticoso, la stanza, e le pareti vibravano. Vomitare fu un grande, ma momentaneo, sollievo.

Due anni prima l’aveva rivista, la dolce Franca. A Torino, stampata sul cartellone di un cinema a luci rosse. Il suo nome campeggiava a lettere cubitali. Volgare come gli anelli dei malavitosi. Un’accusa, gli era parsa.

Anche la signora coi capelli ricci, il seno rotondo ed il cantilenante accento catanese aveva una risata volgare. Al ricordo ne provò quasi eccitazione. Rideva e gli tastava il pene di undicenne, che non riusciva a diventare duro.

“Torna in bagno, vah!” gli disse. “E concentrati di più. Non ci fai niente a una donna, con un cosino tanto piccolo!”

La vita ha molte sconfitte, ma sono le prime quelle che ti restano impresse.

Poi, ecco la ragazza di Scordia, con i capelli rossi e le labbra tanto prominenti che ne scorgeva la punta, da dietro, ad un quarto di profilo. Il suo orecchio, infuocato da un boccolo d’oro, era diafano vicino alla guancia. Aveva tredici anni.

Stavano in piedi su un autobus stracarico. Sentiva le vampate del suo corpo, mentre lo sguardo restava inchiavardato alle linee confuse del paesaggio che scorreva nel finestrino…

Vaneggiamenti, preistoria…

Da cui si riscosse per lo scoppiare del pianto di un bambino. Una signora con una mongolfiera nella pancia, i capelli ossigenati e due pendenti che a tratti si adagiavano sulle spalle grasse prese il pupo e se lo tirò accanto.

Sua moglie era uscita dall’acqua e si era stesa davanti a lui. Stava immobile.

“Eh, mia cara, se sapesse!” ciàcolava la bionda Giunone. Non si era accorto che tra quelle due era scoppiata l’amicizia. “Sono vedova da tre anni e non sto qui a dirle i sacrifici dei primi tempi… E quanto mangia, questa mia creatura!”

Sua moglie ebbe un impercettibile movimento. Annuiva così.

“Lo saprete presto, quanto mangiano i figli!” continuò la Giunone, guardandolo – egli sorrise per dichiararsi d’accordo -. “Siete sposati da molto?”

“Dieci mesi” disse sua moglie.

“State bene insieme!”

Egli sorrise di nuovo. Le donne ricominciarono a tantaferare e a confidarsi, per cui ebbe davanti il quadro che gli aveva predetto l’amica del Piemonte.

L’amica era al volante, ubriaca. Le stava accanto, con gli occhi persi nell’indistinto grigio dell’asfalto e della nebbia, tra Racconigi e Carmagnola.

“Non è la donna per te…” ripeté lei, per la dodicesima volta, riferendosi a sua moglie.

La sua voce arrivava flebile, le parole si capivano a fatica. Probabilmente si sforzava di apparire calma, raziocinante.

“Per te ci vuol ben altro!”

“Guida piano” disse lui. “O basterà il becchino.”

Allora, l’amica frenò bruscamente. Con la strada insaponata di nevischio la macchina divenne incontrollabile. Si mise di traverso, andò a sbattere contro il paracarri e sconfinò nei campi. Un faro ne restò accecato. Pochi secondi in tutto, ma lui li visse al rallentatore, pensando che sarebbe morto e stupendosi della sua indifferenza a quel pensiero.

“Tesoro!” la sentì gridare.

Si affrettò a spegnere il quadro-comandi e lo guardò-

“Ti sei fatto male?” chiese, accarezzandogli la nuca.

Ecco, ci sono momenti in cui le carezze hanno grandiosi significati. E’ sempre un peccato inflazionarle.

“No” disse lui. “E tu?”

Erano finiti su un terreno coltivato a mais. Oltre i finestrini, la neve scendeva sfarfalleggiando. Aveva una sua allegria. Si sentiva lo sciacquare di un fiume. Ce ne sono tanti, in Piemonte.

“Baciami” disse l’amica.

Aveva i capelli castani, inanellati dalla permanente. Gli occhi marrone erano dilatati dall’alcol e dalla disperazione.

“Baciami!” ripeté, urlando.

Prese a percorrergli il collo con le labbra. Lentamente. Poi gli aprì la lampo del giubbotto, gli alzò il maglione, gli sbottonò la camicia e gli prese un capezzolo fra i denti, dolcemente.

Egli non avrebbe voluto farci all’amore. Anzi, quella sera le aveva detto che tornava da sua moglie.

“Perché?” chiese l’amica, senza pudore nel mostrarsi sconfitta.

“Perché?” ripeté.

“La verità è che non è questa la vita, la vera vita” rispose, con le mani vicino alla faccia, scuotendo la testa, quasi balbettando.

“Con te è come starne fuori, neppure ai margini… Io voglio sentirmi dentro, invece.”

Avrebbe dovuto aggiungere che aveva bisogno di Dio. Dio è la comunità, Dio è la normalità. Esisti soltanto se gli altri si accorgono che esisti. E gli altri, per la sua condizione di emigrante, avevano concretezza soltanto se ci si riferiva al suo paese, Militello in Val di Catania. Sua moglie era Militello. Sua moglie era Dio.

In quel momento, però, in risposta ai baci, poté soltanto prenderle la testa con le mani e dirigerla verso la patta dei pantaloni.

La neve era birichina, candida sulla notte nera. Vide lo squarcio di un tuono, ma non seguì alcun rumore.

Soltanto dopo si accorse che, al posto della neve, era venuta una quieta pioggia che merlettava i vetri della macchina e addolciva il paesaggio.

Strano cambiamento di scena! Quanto tempo era passato?

E quanto ne era passato da allora?

2

Praiano (Costiera amalfitana), La libertà di Maria Rosaria

“Ma… il caldo in Sicilia è così?” chiese Maria Rosaria a Salvatore. Pianissimo e con voce sensuale.

Voleva essere felice. Gli occhi erano due fessure feline davanti alle iridi verdi. Soffiò impazientemente e si fece vento con la carta del menu.

Quel clima la infastidiva. La disfaceva, addirittura! La mezza giornata di sole e di salsedine le aveva acceso la pelle troppo chiara e ora il fuoco le pareva di sentirlo serpeggiare e sfrigolare in tutto il corpo. Nell’afa della notte, nonostante la recente doccia, i grossi e corti capelli biondi le aderivano in testa come un panno bagnato. Stavano infeltriti e fermi, in tante ciocche cementate dal sudore. Il solco rotondo del pesante seno, che cominciava la sua corsa ben prima dell’orlo della scollatura, riluceva come crema liquida alla luce dei lampioncini.

“Non so” egli disse, un po’ distrattamente. “Questo sarebbe un caldo eccessivo anche da noi… credo.”

Intanto, due avventori andavano via, lasciando addosso a Maria Rosaria i loro sguardi appiccicosi. Per tutta risposta, egli allungò le gambe sotto il tavolo, si mise più comodo sulla sedia e si accese una sigaretta.

Cenavano sul terrazzo del Continental, nella Libera Costiera di Praiano, come lui amava chiamarla: spaghetti coi frutti di mare ed una pizza soffice e fragrante di pomodoro e mozzarella, che scappava fuori da ogni lato del piatto.

Sotto i loro occhi si stendeva l’intero Golfo di Salerno. All’orizzonte palpitavano le luci delle lampare e tutt’intorno si alzavano le montagne. Direttamente dal mare, tormentate e aspre nel profilo e nella base.

Era una serena notte di mezzaluna. Udivano il placido risciacquare delle onde e vedevano le foglie sugli alberi assolutamente immote, come oppresse.

“Fatto strano” osservò lui, “non c’è neppure una mosca…”

“Che peccato che non ci sia vento!” ribatté Maria Rosaria.

Venne il proprietario, con la lunga faccia sorridente, in cima alla quale gli occhiali stavano come in trono. Aveva una comunicativa consumata e tutta napoletana, l’arma migliore nel suo mestiere.

Mise sul tavolo due montagne di cozze impepate e disse:

“Fanno digerire. Non si può venire nel mio locale e non mangiarle. E’ peccato!”

Lasciò il tutto e, mentre tornava in cucina, aggiunse:

“Bene. Ora mi tocca preparare trentacinque frittate di maccheroni, per una comitiva di tedeschi… Domani vanno in gita a Capri!”

Le cozze, schiuse dalla cottura e con quei gusci neri che sfumavano nel viola perlaceo, erano pronte per il suo solito rito pagano. Spense la sigaretta, prese una cozza, vi spremette poche gocce di limone e la porse a Maria Rosaria.

“Non masticarla in fretta” le disse. “Le cozze vanno assaporate.”

Poi, ne prese un’altra per sé. Senza limone, per sertirvi il mare. Il mollusco, fresco e fragile al palato come un amore adolescenziale, gli riempì la bocca di un sapore lievemente acre.

Forse incosciamente Maria Rosaria era pronta da tempo. Ma, soltanto cinque giorni prima aveva maturato una scelta chiara, quando, affacciata al balcone della sua casa di Castellammare di Stabia, aveva avvertito sulla pelle la fugace e rovente carezza del vento di scirocco.

Improvvisamente, se l’era figurato come una mano appassionata ed indiscreta, che non era – e forse mai lo era stata – quella di suo marito. Così, proprio da un momento all’altro, le era capitatodi guardare in cagnesco la figlia convivente, sposina fresca, che ciabattava incantata per la casa, soddisfatta della notte.

“C’è caldo!” aveva detto alla figlia. “Esco a fare la spesa… In casa non si può stare!”

In camera da letto, prima di mettersi la veste di seta grigia con dei grandi fiori lilla, aveva indugiato a studiarsi nello specchio grande. Si era chiesta che effetto poteva fare su un uomo il vederla con soltanto gli slip e il reggiseno. Strano pensiero per una che era stata bella, che aveva saputo far rimescolare il sangue a tanti. Ma, non bisognerebbe mai far figli, o, meglio ancora, non ci si dovrebbe sposare.

Ora, la confortava soltanto la bellezza del viso. Il seno era diventato ampio, un tantinello matronale, il sedere eccessivo, la pelle delle braccia un po’ cascante. Poteva magari dirsi una bella quarantenne, ma chi mai avrebbe fatto pazzie per lei?

Una volta uscita, aveva costeggiato, senza ormai farci caso, i cumuli d’immondizia fino alla circumvesuviana, dov’era andata per appuntarsi gli orari dei treni. Lì, stranissima coppia, c’era il bigliettaio in alterco con lui, che, come lei, insegnava all’Istituto Professionale per il Commercio di Torre Annunziata. Il bigliettaio aveva la forma di due coni le cui basi combaciavano all’altezza della pancia e parlava con un forte accento stabiese. Lui, invece, esprimeva il concetto triangolare di bellezza maschile degli affreschi cretesi: le spalle larghe, il bacino che si allungava stretto e piatto, le gambe robuste, che riempivano i jeans.

“Eccole il quadro con tutti gli orari delle corse” le aveva detto il bigliettaio, trovando una pausa nel suo alterco.

“Ciao, ti va di partire con me?” le chiese lui, voltando le spalle al bigliettaio.

“Magari!” aveva risposto Maria Rosaria, senza alcuna espressione particolare.

Quella sera stessa, a casa sua arrivò una telefonata. Per caso, aveva risposto lei. I suoi erano in cucina a mangiare, guardando un programma di quiz e nessuno aveva avuto voglia di alzarsi.

“Gli esami finiscono fra cinque giorni…” aveva dettoSalvatore.

“Lo so.”

“Voglio vederti.”

“Certo… Domani a scuola.”

“No. Non a scuola… Tu hai capito di cosa devo parlarti. E’ da un anno che dovresti averlo capito.”

“Forse è meglio che non l’abbia capito…”

“Dimmelo almeno di presenza.”

“Va bene. Ne parleremo domani.”

A letto aveva pensato al collega. Il marito, che le dormiva al fianco, le era parso misero misero, ranicchiato nel pigiama a righe, innaturalmente largo per le sue gambe a stecca di biliardo. Da anni non facevano all’amore, anche se la cosa la lasciava indifferente.

E la notte aveva fatto un sogno.

Era in un’osteria di Pimonte – il locale esisteva veramente. Due giorni prima vi aveva comprato il vino, trovandosi a passare di là -. Aveva mangiato dei funghi velenosi e stava in un letto approntato in un angolo della sala – buio e fresco, mentre fuori s’indovinavano i barbagli del sole -. Ascoltava il medico al suo capezzale, che parlava credendo che lei non sentisse.

“Come va, dottore?” diceva uno, accennando con la testa verso di lei.

“Non arriverà a domani mattina” rispondeva il dottore.

Si rendeva conto di non riuscire a parlare; anzi, di non riuscire a muoversi. La morte arrivava senza portare dolore, ma soltanto una totale impossibilità di muoversi.

“Bisognerà che qualcuno si occupi dei funerali…” diceva l’avventore di prima.

“Non ha parenti?” chiedeva un altro.

“No” rispondeva il medico.

“Stai tranquilla” poi le diceva il medico, avvicinando il viso.

“Non ti lascerò morire sola, come un cane… Resterò qui, a tenerti la mano…”

E gliela prendeva sul serio.

Aveva un’espressione affettuosa, intensa… e la voce del suo primo amore.

“Non è il caso che qualcuno di noi si liberi dagli impegni di domani?” domandava un avventore, che fino a quel momento aveva taciuto.

Dopo faceva un lento giro con la testa, a guardare la faccia di tutti gli altri.

E aggiungeva:

“Sapete… E’ per i funerali.”

“Impossibile” rispondeva il primo avventore. “Proprio domani me ne vado a caccia… Sapete tutti che non fa parte delle cose a cui rinuncio!”

“Io ho un appuntamento” diceva un altro.

Il medico aveva una risatina di gola e subito le mo

“Chi è?” chiedeva interessato.

“Oh, lei non mi considera un gentiluomo!” rispondeva l’altro, con un sorriso compiaciuto.

“Bionda o bruna?”

“Rossa!”

“Sono le migliori!”

A quel punto, Maria Rosaria si era svegliata in un bagno di sudore. La porta del balcone inquadrava ancora il buio.Era uscita. Il vento era caldo sulle guance, sul seno, fra le gambe…

“Quando muori, nessuno ti piange a lungo” aveva pensato.

Ora, le cozze erano state tutte mangiate e Maria Rosaria sentiva come una strozzatura alla bocca dello stomaco, la stessa che da giovane la prendeva prima degli esami.

Salvatore si accese un’altra sigaretta, si alzò e le andò dietro. Carezzandole le spalle con ambedue le mani, le sfiorò i capelli con un bacio.

“Andiamo a ballare” sussurò.

Maria Rosaria, contenta, prese una di quelle sue mani, lunghe e sensuali, e se la portò alla guancia.

Andarono a L’africana, a due passi dal Continental. Il locale era nato dalla fantasia di una svizzera architetto, venuta a vivere a Praiano per amore di un cameriere del posto. Aveva avuto grandi momenti di gloria, a metà degli anni Sessanta. Si trovava in una grotta in fondo all’alta e ripida costa, per cui si entrava dalla parte del mare, o con l’ascensore.

Così, mentre scendevano verso la pista da ballo, poterono baciarsi. Egli la strinse contro la parete, mentre la mano corse ad accarezzarle il seno.

“Aspetta” gemette Maria Rosaria.

Ma, l’uomo non la udì neppure: troppa urgenza di sfogare l’eccitazione. La sua mano andò lungo la schiena della donna es’infilò sotto la gonna. Lo interruppe, però, l’ascensore, che si fermò, assestandosi sopra un cuscino d’aria.

Giunse, quindi, una voce morbida, alla Fred Bongusto, ed entrarono nel night, arredato con bizzarrìa barocca. Infatti, il suo nome era richiamato dai tanti cancelletti in ferro battuto, disegnati come maschere africane. Oggetti di vario artigianato, ravvivati da brevi lumeggiature, erano distribuiti in nicchie naturali e lungo le pareti di roccia rosata. Soltanto una gettata di cemento armato, che costituiva il pavimento, si presentava come un intervento della tecnica moderna. Ma, grazie a una serie di oblò iluminati, sotto di essa si poteva ammirare, come in un enorme acquario, lo spettacolo delle creature che si muovono nel mare. A destra della pista da ballo, oltre un terrazzo dov’erano distribuiti tavolinetti e divani, una scala volteggiava fino a un piccolo approdo, dove, proprio in quel momento, aveva attraccato un’imbarcazione, dalla quale scendeva una comitiva di tedeschi.

Maria Rosaria ed il suo collega si misero a ballare guancia a guancia e subito, come era già accaduto in ascensore, in lui si risvegliò un’urgenza cieca di fare all’amore. Strinse Maria Rosaria, facendole sentire tutta la sua eccitazione.

“Vieni” le disse, con la voce rauca. “Usciamo fuori. C’è un viottolo discreto e potremo star soli.”

“No” rispose lei. “Perché non ci sediamo un po’?”

“Ci siederemo lì” disse lui, prendendola – o tirandola – per mano. “Parleremo guardando il mare.”

Scesero per un sugestivo sentiero, che dal lato sinistro del night si svolgeva aderente alla roccia ed arrivava ad uno spiazzo a picco sul mare. Lì, la musica era soltanto un’eco lontana e ruffiana. Sotto di loro, alla luce della Luna, l’acqua si frangeva in mille riflessi d’argento e le luci dei paesi lungo la scogliera amalfitana erano pezzi di ghiaccio sul panno scuro della notte.

Si sedttero ed egli riprese il suo attacco, traendo fuori dalla camicetta un seno della compagna. Per contrasto, l’inizio di abbronzatura del resto del corpo lo faceva sembrare latteo, vagamente viscido. L’uomo ne artigliò la carne molle, sentendo tra le dita lo spessore della pelle. Le baciò il capezzolo e la punta della lingua gli riportò un sapore salato di sudore. A quegli stimoli, il respiro di Maria Rosaria si fece pesante.

“Non così” disse lei.

Ma, egli non la ascoltava.

Le alzò la gonna e di forza le sfilò gli slip. Fu una lotta tanto eccitante, che gli lasciò a stento il tempo di entrare in lei.

Quando tutto finì, l’uomo era già stanco. Calò, perciò, un imbarazzante silenzio. Per tutt’e due. Per motivi diversi.

“Riportami in albergo” disse semplicemente Maria Rosaria.

Quando l’indomani, verso mezzogiorno, l’uomo bussò alla porta di Maria Rosaria – che aveva voluto prendere una camera singola -, ella aveva già fatto le valigie.

“Alle tre c’è un treno per Torino” gli disse. “Puoi accompagnarmi a Napoli?”

Egli rispose con un semplice cenno di assenso.

“Va bene” disse poi lei. “Ora andiamo a mangiare.”

A tavola, con la testa bassa, come concentrato sugli antipastiche aveva davanti, l’uomo chiese a bruciapelo:

“Cos’è successo?”

“Diciamo che lo pensavo diverso.”

Arrivò il cameriere e portò due piatti fumanti di spaghetti col pomodoro. Sul suo, Maria Rosaria grattugiò il parmigiano con molta cura, come concentrata in operazione difficile, che non lasciava alcuno spazio alla conversazione.

Di riflesso, l’uomo fece la stessa cosa, scegliendo, però, il pecorino.

A Napoli, dopo la partenza di Maria Rosaria, egli girovagò malinconicamente tra i rivenditori di Forcella, quasi fino al tramonto.

Sulla via del ritorno, tra Castellammare e Vico Equense, vide addensarsi nel cielo una nuvolaglia grigia e fredda come il ferro. Arrivò dalla parte del mare, improvvisamente. Bassa e corrucciata, chiuse l’orizzonte da Capo di Sorrento fino a Napoli. Subito, le rocce e gli alberi s’inscurirono, dipingendo un paesaggio contrastato. Ecco, allora, che si levò un vento impaziente. Sbuffi rabbiosi alzarono alta la polvere e scompigliarono i rami degli alberi. Ecco un lampo muto ed immenso, che parve schiacciare l’incipiente buio sotto una luce vivida e fece brillare, cinerea e spettrale, l’acqua del golfo. Poi, goccioloni duri come pietre presero a tamburellare sul parabrezza e ben presto ogni fossa divenne un acquitrino ed ogni viottolo un torrente in piena.

Vedendo tutto quel finimondo, egli mormorò:

“Che l’estate sia finita?”

Guardò verso il mare.

“O forse il cielo piange sulla perduta virtù di Maria Rosaria!”

Sorrise cinico allo specchio retrovisore e scalò di marcia, perché all’improvviso una brutta curva gli si era stretta davanti.

3

Parrocchia siciliana di Santa ***, La mala Messa

I

Il venti ottobre di qualche anno fa, quando finì di celebrare la messa domenicale, padre Vittorio Leonardi guardò i fedeli a lungo, afferrò il microfono con la mano destra e scrollò il polso sinistro perché l’orologio (che portava lento) gli si era appiccicato alla pelle sudata. Tutti capirono che stava per comunicare novità non facili, ma nessuno intuì la portata storica del momento.

– Carissime anime – esordì padre Leonardi, con la voce sopra tono di un’ottava, – il Vescovo mi chiama ad un’alta missione…

Si fermò, mentre il suo sguardo correva per l’intero tempio, da sinistra a destra e da destra a sinistra, come il fascio accecante di un faro della polizia.

– Se ne va! – sussurrò Mazzacanagghia, mentre dava di gomito a Salvo Viganò.

La signorina Lina Longo, invece, ebbe un soprassalto e sentì il cuore farsi piccolo piccolo. Per don Vittorio provava un’inconfessabile attrazione, anche se il suo sentimento aveva a che fare più col martirio cristiano che col vero e proprio amore, mancandovi i piaceri della carne. Dell’amore c’erano soltanto gli strazi (sempre della carne) e le botte velenose dei pettegoli.

Si aggrappò, quindi, alla coroncina del rosario che portava almcollo ed aspettò il seguito, col fiato sospeso.

– L’altra chiesa di questa nostra amata comunità… – riprese amdire padre Leonardi e s’interruppe subito.mNon aveva avuto il coraggio di pronunciare il nome della chiesa rivale. Ma, ugualmente un silenzio attento squarciò la noia generale, un silenzio che parve un lampo livido nella notte cupa. Moltissime persone presero un’espressione atterrita, molte altre truce e cinque o sei quella di chi è pronto a fare a pugni. Gli sguardi su di lui sembrarono linee prospettiche sul punto di fuga e la sua pianeta bianca si dilatò dentro le pupille dei fedeli…

Si dilatò fino ad occupare l’intero campo visivo.

Finché il prete si portò due diti al colletto, inghiottì e riprese:

– Dicevo… L’altra chiesa, che…

Guardò gli astanti, chiuse gli occhi… e concluse, quasi urlando (ma molto in fretta, con le sillabe in volata):

– …Che, dopotutto, vi piaccia o no, è la Chiesa Madre!

Davvero, su questa frase potevano crollare le colonne del tempio! Si tenne, quindi, pronto per il martirio.

Fortunatamente, gli ritornò soltanto l’eco del silenzio infinito di prima. A tutti fu chiaro che il prete intendeva tagliarsi i ponti alle spalle e tutti pensarono che, senza grosse coperture dietro, non avrebbe osato parlare in quel modo.

Aspettarono di vederci più chiaro.

– C’è bisogno di un parroco giovane nella parrocchia di San…

Come risucchiati a cercare nella sua gola le parole che ancora nonaveva dette, gli occhi di tutti divennero un flusso compatto, che non prometteva nulla di buono.

– …di San*** – farfugliò il prete. – Quindi…

– Quindi… – disse ancora il prete.

– Quindi? – mormorò di nuovo Mazzacanagghia.

– Quindi… – ricominciò don Vittorio.

– Quindi? – domandò Mazzacanagghia a Salvo Viganò.

– Già! Quindi? – sussurrò, a sua volta, Salvo Viganò a Mazzacanagghia.

La signorina Lina Longo, invece, non domandò nulla. Ma evitò persino di respirare, per non distrarsi. Degli altri, quelli seduti avevano il busto che faceva angolo acuto con le gambe, mentre quelli in piedi pendevano in avanti, come torri di Pisa. Il buon geometra don Felice Motta, sessantaseienne pensionato, da tempo asmatico, ispirò con forza, mandando un fischio di gola, che risuonò triste nella vastità del tempio.

– E quindi? – ridomandò impazientemente Mazzacanagghia.

– Già! E quindi? – risussurrò Salvo Viganò.

– E quindi… – disse padre Leonardi, – ha deciso di mandare lì, quale nuovo parroco…

Ancora un’ultima breve pausa, prima di confermare il più nero presentimento:

– Il sottoscritto!

Poi, una volta che l’aveva detta, la disse completa:

– Anche se io, beninteso, resterò pure il vostro parroco!

– No! – gridò Mazzacanagghia.

– No! – ruggì Salvo Viganò.

– No! – gemettero tutti gli altri.

La dolce Lina Longo, però, riprese a respirare. Egoisticamente, considerò soltanto che l’amor suo non andava via.

Per capire ciò che ho raccontato (e ciò che ancora racconterò), bisognerebbe esserci nati, a ***. O, almeno, conoscerla. Da secoli, lì si combatte una feroce guerra di campanili tra la parrocchia di Santa *** e quella di San ***, con tutto il corollario di eroi, di martiri (anche morti ammazzati) e persino di traditori. Le poche rivoluzioni di cui si conserva memoria non furono determinate dalla fame, o dal rifiuto di una prepotenza. Esse nacquero sempre, piuttosto, da priorità nella celebrazione delle feste (per esempio: a quale chiesa spettava suonare per prima le campane nel giorno di Pasqua?); oppure, da pignolerie nella gerarchia dei preti (e dal Settecento in poi anche in quella dei Santi in paradiso, visto che allora fu data anche a una Divinità ben più prestigiosà la titolarità del tempio di San***). Si può dire che soltanto negli ultimi anni (dato che nella storia un equilibrio si deve pur trovare) si è arrivati ad un precario accordo: Santa *** è stata elevata a Santuario e San *** ha ottenuto il titolo di Chiesa Madre.

Le reciproche diffidenze, comunque, non erano state ancora superate. Così, quel giorno padre Leonardi aveva davanti gente per nulla ligia agli equilibri. Gli equilibri sono come la politica: cambiano col cambiare dei rapporti di forza.

Perciò, il pensiero unanime fu che voler mettere nelle mani di un solo prete tutt’e due le chiese (come dire: il diavolo e l’acqua santa!) era fatto troppo nuovo e (proprio perché nuovo) pericoloso. Tanto non bastava a sospettarci una manovra sotto?

Padre Vittorio Leonardi, però, era coraggioso e testardo. Si alzò in punta di piedi, per guardare in faccia tutti, anche gli irriducibili del fondo. Vide troppi occhi che promettevano scintille e si tenne di nuovo pronto per il martirio.

– Tutti in canonica! – a quel punto gridò Mazzacanagghia, con la voce del suo avo, Giluormu Miegghiucutieddu, famoso brigante dell’Italia post-unitaria.

E si avviò, seguito da una quindicina di duri, tra i quali, tanto per non far parlare la gente, c’era la signorina Lina Longo.

Non fece molta strada. Padre Leonardi, forte del suo microfono, gli sparò secco:

– E’ chiusa a doppia mandata!… Se vuoi parlare, figliolo, parla qui, al cospetto del Signore!

Mazzacanagghia sbiancò in viso, s’imporporò nelle orecchie, incassò la testa fra le spalle, si piantò a gambe larghe, occhi negli occhi col prete, e disse con voce sonante:

– Io qui, fino a prova contraria, parlo soltanto al cospetto di Santa ***!

In quell’istante si percepì simultaneamente:

a) Mazzacanagghia esprimeva il sentimento generale;

b) padre Leonardi era in difficoltà;

c) s’annunciava un gran tempesta.

Dopo un po’ di secondi che passarono nella generale tensione (e che, perciò, parvero un tempo lunghissimo), Mazzacanagghia chiuse gli occhi e continuò:

– Che le piaccia o no, Santa *** è la nostra mamma! Perciò, è la Patrona della città…

– E senza minchia cacata! – aggiunse la solita voce anonima e sacrilega, dal fondo.

– E la Patrona non vuole parroci in condominio! – proclamò Mazzacanagghia, col tono stentoreo di chi è pronto all’azione.

– Non lo permettono trecento anni di storia!… – confermò con la sua vocetta acuta il professor Rosario Russo, noto e stimato scrittore di storia locale, dalla terza fila (quella dei benestanti). -O si è Annibale, o si è Scipione!

– Ma, quelli di San *** – volle ribattere addolorato il prete, – che sono?… Maomettani?… Non sono cristiani anche loro?

– Non lo so – disse Mazzacanagghia. – So che non sono della mia parrocchia!… Parliamoci chiaro, padre Vittorio!… Vossignoria, anche se non l’abbiamo scelto noi, è il nostro parroco!… E’ come se dicessimo che… religiosamente parlando, s’intende… lei è lo sposo della nostra chiesa… Se si sposa anche con San ***… mi scusi, ma, sempre religiosamente parlando… lei che è? Praticamente un bigamo!

Scoppiò un applauso f ragoroso. Si fosse votato quel giorno, Mazzacanagghia diventava sindaco.

Padre Leonardi si fece di brace per la rabbia (Lina Longo, invece,si fece di brace sentendo parlar di lui come sposo). Subito dopo, il prete strinse più forte il microfono, tanto che le nocche delle dita gli diventarono bianche e trasparenti come la cera, e sbraitò:

– Ma basta! Basta con le corbellerie!… Ve lo volete mettere in testa che in questo sciagurato paese la guerra dei santi deve finire?

Ciò detto, voltò le spa lle e se ne andò in sacrestia, a gran passi sdegnati.

– Gente!… Se la canonica è occupata, venite a casa mia – urlò Mazzacanagghia.

– E a lei – continuò, rivolto allo spazio vuoto dove prima c’erail prete, – a lei che s’è venduto l’anima ai nemici…

Si erse, quindi, nell’antica posa di Santuzza abbandonata da compare Turiddu:

– A lei la mala messa!

Da quel momento, nel quartiere di Santa *** ci si preparò alla lotta dura.

Come sempre accade in queste occasioni, cominciarono a correre le voci più incontrollate. Alcuni riferirono che c’era chi aveva sentito il Vescovo in persona compiacersi della manovra, perché così, piano piano, senza colpo ferire, sarebbero state messe da parte… non le lotte di campanile, non le polemiche roventi che spaccavano in due il paradiso e le famiglie!… ma le storiche prerogative di Santa ***…

Uno arrivò a sostenere che nella faccenda non era estraneo neppure il Vaticano e subito un altro buttò là, con tono misterioso, la morte troppo improvvisa di Papa Luciani.

Comunque, se l’alto clero s’era fatto i suoi conti, ora bisognava sentir l’oste, cioè Mazzacanagghia.

Prima che arrivasse la domenica dell’insediamento di padre Leonardi a San *** (per l’esattezza, alle diciassette del diciassette novembre… e poi dicono che non bisogna essere superstiziosi!), si voleva organizzare la protesta. Ci furono riunioni a casa di Mazzacanagghia, ormai incontrastato capo.

Quella decisiva si svolse nella mattina del giorno fatale, dalle dieci alle tredici in punto (in tempo per potersi mettere a tavola, abitudine sacra ed irrimandabile nella famiglia siciliana).

– Quei signori, qualche sorpresina nostra, se l’aspettano – disse Mazzacanagghia, ad un certo punto.

– Sanno di che pasta siamo fatti! – esclamò con orgoglio Salvo Viganò.

– Cercano di pararsi la botta! – ridacchiò mastro Antonino Bellerafonte, che tutti conoscevano col soprannome di Spuogghiavientu.

– Ma, noi sapremo andare oltre la loro immaginazione… – si provò a riprendere con tono pacato ed argomentativo Mazzacanagghia, cercando fra l’altro di non mostrare il fastidio per le interruzioni dei seguaci.

E, immediatamente Salvo Viganò esclamò, interrompendolo appunto:

– Noi, il prete traditore, non lo vogliamo più!

– E’ carne di carogna e la lasciamo ai cani! – esclamò pure Spuogghiavientu.

– Bene! – dopo esclamarono quasi tutti.

Cioè, tutti tranne Lina Longo.

– Non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca – disse, infatti, la signorina. – Padre Vittorio è un santo e quella gente se lo acchiapperebbero subito!

– E che dici? – le chiese Mazzacanagghia. – Gli diamo pure un premio, per averci tradito?

– Chiudiamolo nella nostra chiesa! – suggerì lei. – Non facciamolo più uscire da qui!… Io, per me… sono pronta a fare la guardia!

– Giorno… e soprattutto notte – ventilò perfidamente Salvo Viganò.

– Pensa che perdita, se se ne va! – sorvolò, invece, Mazzacanagghia, che era un gentiluomo e non amava le allusioni.

Alzò le mani ad imporre il silenzio e finalmente poté dire il suo piano:

– Invece, lo chiudiamo dentro San ***… insieme ai suoi nuovi parrocchiani!

Tutti lo guardarono interdetti. Nessuno riusciva a realizzare come si potesse compiere un’azione simile. Ma, con Mazzacanagghia c’era da scommetterci che il modo lo trovava… lui!

– Così, gli cantano pure la ninna nanna, se ci tengono tanto, al prete! – disse, perciò, Salvo Viganò.

– Cosa?! – saltò su il ragionier Bonaccorsi, uomo schivo, un po’ lento e rispettoso delle istituzioni. – Ma non diciamo fesserie! Per un fatto del genere c’è la denuncia!

– Sequestro di persona! – aggiunse Salvo Viganò, un po’ ritornando sui suoi passi.

– Non sarebbe la prima galera nella storia gloriosa della parrocchia – disse Mazzacanagghia.

Poi, guardò il ragionier Bonaccorsi con occhi fermi, che scrutarono fino in fondo all’anima dell’interlocutore.

– Ragionier Bonaccorsi! – disse. – Mao scrisse che la rivoluzione non è un pranzo di gala!

– E noi non siamo una tigre di carta! – aggiunse subito Salvo Viganò, di nuovo allineato alle posizioni del capo.

– Appunto! – balbettò il ragioniere. – Io non sono per la rivoluzione…

– Io, invece, sì! – disse Mazzacanagghia.

– Anch’io! – disse Salvo Viganò.

– Anch’io! – dissero tutti.

Cioè, tutti tranne Lina Longo ed, ovviamente, il ragionier Bonaccorsi. Egli, uomo dabbene, gesuitico e tardo, davanti a tanto estremismo, non seppe far altro che starsene zitto.

– Faremo così – disse Mazzacanagghia, ormai vincitore. – Ci vediamo qui alle cinque meno un quarto e prima che finisca la messa entreremo in azione…

– E come? – chiese la signorina Lina Longo, con un filo di voce.

– Alle sei meno dieci, tutti insieme, contemporaneamente, con catene e catenacci chiuderemo tutte le porte di San ***.

– Oh, Dio! – si lasciò scappare il ragionier Bonaccorsi, portandosi le mani nei radi capelli.

Gli altri, invece, non dissero nulla, anche se con gli occhi espressero consenso ed obbedienza al capo.

La signorina Lina Longo tacque. La sua mente era troppo impegnata a cercare il modo di neutralizzare il tentativo eversivo.

– E poi, cara Lina, se ti piace potremo star lì per tutta la notte… a far la guardia al prete! – concluse nel frattempo Mazzacanagghia.

Sentite queste intenzioni, la poveretta non ce la fece più a contenersi. Si alzò di scatto e se ne andò verso l’uscita.

– Eh, no! – la fermò Mazzacanagghia. – Il prete non dev’essere avvertito!

Ella spalancò la bocca per la meraviglia e guardò in giro, cercando solidarietà. Trovò soltanto occhi gelidi… e si sentì morire.

– Non vi fidate di me? – chiese, col mento che le tremava per l’imminente pianto.

Mazzacanagghia la guardò dritto negli occhi.

– Ci fidiamo – disse. – Ma, ti avverto che se il prete saprà qualcosa…

Fece uno sguardo eloquente, mentre le apriva galantemente la porta e concluse:

– Di qui, adesso stai uscendo tu, quindi… Mi spiego?

II

Alle sedici e trenta a casa di Mazzacanagghia squillò il telefono.

– Sono Lina Longo – gli disse Lina Longo.

– Bene – disse Mazzacanagghia, un po’ sulle sue (si fidava fino ad un certo punto). – Parla che ti ascolto.

– Davvero non ci sono altri modi?

– Almeno…

Cincischiò col filo del telefono. Da un lato, non gli andava di dare un’idea finita delle soluzioni che era capace di inventare.

Però, intelligentemente, decise di mostrare la sua intelligenza facendo il modesto.

– Almeno, io non so pensarne altri – disse perciò.

– E lo scandalo?… Hai riflettuto sullo scandalo?

– Quale scandalo?

– Diranno che siamo dei violenti.

– Se non facciamo nulla, ci diranno pecoroni…

E per un po’ egli sorrise al silenzio che arrivò dall’altro lato del filo (la battuta era stata efficace, più o meno pensò).

– Che vuoi farci? – aggiunse. – Non si può avere tutto.

– Il vescovo non ce la perdonerà – rilanciò la cocciuta Lina Longo.

– E allora? Ci dia un altro parroco piuttosto, il vescovo!

Aspettò una reazione, che non ci fu (bene!… più o meno pensò ancora) e completò:

– Ci manda un parroco nuovo di zecca, tutto nostro… e noi torniamo buoni come agnellini!

– E la Pacem in terris?… E l’unità delle chiese sotto l’unico Dio?

– Che c’entrano col nostro discorso?

– E Dio come Dio d’amore?

“Ecco, te pareva!” pensò (questa volta alla lettera) Mazzacanagghia, collegando la parola amore con i pettegolezzi che correvano su Lina Longo ed il prete. Ma, ovviamente, non disse niente.

– E la fratellanza cristiana? – incalzò lei.

– Fratellanza con quei vermi? – egli saltò su, a questo punto. – Senti a me!… Solo San *** sa chi sono i padri di quelle malenuove!

Per diversi secondi fu tentato di chiudere la conversazione su questa battuta. Ma, purtroppo, ormai si era troppo avanti e non era il caso di recidere i contatti con lei. Le chiese:

– Come faccio ad esserci fratello?

Ella comprese subito di aver toccato il tasto sbagliato. Le argomentazioni teologiche non erano il mezzo giusto per placare le animosità campanilistiche.

– Io non li difendo… – cercò di riprendersi.

– Brava, allora collabora! Ci vediamo alle cinque meno un quarto.

La signorina Lina Longo tirò un gran respiro, come chi si è deciso, e si aggrappò alla cornetta con tutt’e due le mani. Aveva concepito un piano, che in condizioni normali mai avrebbe osato concepire.

– Avrei un’idea… – cominciò.

– Cioè?

– Difficile spiegarla per telefono…

– E che si fa, allora?

– Perché non vieni, così ne parliamo di presenza?

Mazzacanagghia sospettò l’inganno ed esitò. Ma solo un po’. Non era tipo da far la figura di chi si tirava indietro, specialmente davanti a una donna. Mentalmente, si ripromise di stare bene in guardia ed accettò la sfida:

– Va bene. Fra dieci minuti sarò da te.

Sette minuti dopo suonò alla porta della donna.

– Sono tutti pronti? – chiese lei, mentre lo faceva entrare.

– Prontissimi, credo – egli rispose.

– Il capo sei tu… – gli disse, facendolo accomodare in salotto.

Egli non rispose. Ma, non poté evitare il piacere di confermare indirettamente, dicendole, mentre si sedeva:

– Mi aspettano per passare all’azione.

– E’ vero. Se non ti muovi tu, nessuno si muoverà!

– Già!

– Ma tu… ovviamente… ti muoverai!

– Ovviamente!

– A qualsiasi costo?

– A qualsiasi costo!

“Padre Vittorio, assistimi nella prova!” invocò in cuor suo la signorina Lina Longo, stringendo la coroncina del rosario che portava al collo.

E passò all’azione: pregò a fior di labbra, si fece il segno della croce e, con un improvviso e deciso movimento delle braccia, spalancò la giacca del tailleur.

Non indossava nulla, di sotto… e poté dimostrare che il suo seno, sibbene abbondante, stava ben diritto sulle sue stesse forze.

– A qualsiasi costo? – ella volle domandare di nuovo.

– Oddio! – disse lesto Mazzacanagghia. – Non facciamola esagerata con queste beghe di parrocchia!

Restò con lei fino a tarda notte ed i suoi fedelissimi, che aspettavano lui per entrare in azione, non entrarono in azione.

Così, la messa di padre Leonardi a San *** si celebrò senza disturbi.

Nessuno (tranne quei centocinquanta-duecento amici stretti di Mazzacanagghia) seppe mai come andarono veramente le cose.

4

Piana di Catania, Sull’autobus

Per almeno una settimana – il che, per i tempi di attenzione della gente del posto era quasi un’era geologica – la love story di Mazzacanagghia e di Lina Longo tenne occupati i pettegoli, cioè tutti, esclusi i bambini da zero a tre anni.

Nel quartiere di San *** si poté dire che le parrocchiane di Santa *** erano più leste ad alzare la gonna che a dir rosari. In compenso, a Santa *** la fece da padrone il maschilismo più becero.

“In ogni caso” fu la conclusione del ragionier Bonaccorsi, “almeno noi, le nostre corna, ce le teniamo in famiglia!”

Cominciò la solita passeggiata di gruppo – quasi un’assemblea, una riunione del Comitato Centrale -, su e giù nella piazza davanti alle chiesa.

“L’uomo è cacciatore… sì!” osò obbiettare un il deviazionista di destra ‘Mmuccabaddi. “Ma, le nostre femmine non sono lepri!”

“Io so soltanto che la nostra rivoluzione è saltata una perché tu… tu…” ringhiò Cicco Cecco, estremista e deviazionista di sinistra, ma anche noto nostalgico del ventennio mussoliniano, che, però, votava e faceva votare per il partito di centro del Cavaliere Arietta – colui che l’aveva sistemato come puliziere in una cooperativa -.

“Che mi parli di rivoluzione, tu? Fascistone!” lo redaguì Anselmo Bennato, radicale, progressista, divorzista, abortista, femminista, laico e libertario… che, però, votava e faceva votare per il partito di centro del Cavaliere Arietta – che gli aveva fatto pure il dispetto di sistemarlo, sempre come puliziere, nella stessa cooperativa di Cicco Cecca -.

“Ecco qui! La solita persecuzione dei rossi!” accusò Cicco Cecca. “Ma, io non ho paura di te! Io resto fedele nei secoli, come l’arma dei carabinieri! Io non mi vendo per un piatto di lenticchie!”

“Per un piatto di lenticchie no, per un posto di puliziere sì!” commentò tristemente, cioè con il solito sospiro asmatico, il rag. Bonaccorsi, che votava per il partito di centro del Cavaliere Arietta per convinzione, cioè perché liberista e liberale – e non… come dicevano molti… per il posto di ragioniere che questi gli aveva fatto vincere al Comune -.

“Torniamo sull’argomento!” disse Turi Tarantola, muratore tuttofare, che votava per il partito di centro del Cavaliere Arietta, ma dava ragione a tutti. “Lasciateli perdere i fascisti e i comunisti che giocavano a scopone… qui resta il fatto che Mazzacanagghia, leader carismatico di Santa ***, doveva farsi vivo e lottare insieme a noi… e non è venuto!”

“Proprio nell’ora fatale!” aggiunse il prof. Rosario Russo, sempre studioso di storia locale, apolitico – ma, per amicizia, votava per Arietta, quando questi era in lista, cioè in tutti gli appuntamenti elettorali -.

A quel punto, Mazzacanagghia alzò le spalle con sufficienza.

“Per quanto riguarda quelli di San ***… Beh! Ne sto pensando una che… li farà ballare senza musica, come i cornuti che sono!”

Il varco in cui Mazzacanagghia tentò di infilarsi si chiamava Pasquale Giummeri, fervente devoto di San ***, e la moglie Agata Mariannina, bella e bona, ma impermeabile alle vogliose occhiate di tutti i maschi sfaccendati del posto – cioè, di tutti i maschi -.

Mazzacanagghia ogni giorno si incontrava con Pasquale al Bar New York, per bere il solito caffè della mattina… alle sette spaccate, prima di prendere il pullman delle sette e mezzo per Catania, città studiata dallo scrittore Vitaliano Brancati sotto il nome di Nataca).

“Ciao, Maz’’” salutava Pasquale.

“‘Ngiorno!” rispondeva Mazzacanagghia.

Sorbivano il caffè. Bollente, con le famose tre c; cioè, tale che a toccarlo con le labbra era d’obbligo esclamare in napoletano: cazzo, come coce! Poi, subito, di furia, come una volta i contadini affamati sbocconcellavano il nero pane del lavoro, si davano a tirare lunghi fiati caldi dalle sigarette, in ricordo degli appena trascorsi tepori notturni.

“Che dici?… Cheffà piove, oggi?” a quel punto, invariabilmente, chiedeva Pasquale.

Mazzacanagghia, invariabilmente, guardava nel cielo, verso tramontana… e qualche volta rispondeva piove!, qualche altra non piove!

Così, l’amicizia fra i due era diventata esemplare. Era un fatto notevole che uno di San *** e uno di Santa *** viaggiassero insieme, il primo per fare l’operaio, il secondo il supplente di lettere nelle scuole medie. La gente ci scherzava sopra e finì per chiamarli il gatto e la volpe. Naturalmente, la volpe era Mazzacanagghia, notoriamente lesto di parola, mentre Pasquale era un autentico micione sognatore.

Una mattina dei primi di dicembre, in cui l’alba siciliana aveva stentato a sciogliere il gelo che incanutiva l’erba della campagna di ***, la loro differenza di carattere venne fuori, parlando di Agata Mariannina, la moglie di Pasquale.

“Le femmine!… Le femmine sono tutte uguali!” affermò Mazzacanagghia.

“Non tutte” disse Pasquale.

“Tutte! Tutte!” insistette Mazzacanagghia.

La pelle di Pasquale si accese del colore della terracotta nel punto di fresca rottura. Le vene del suo collo salirono come dagli inferi e gocce di sudore errarono inquiete lungo la sua schiena. Ma, non era aggressivo, l’ingenuo amico, e soprattutto era un gregario per natura… per cui disse con una vocetta fessa:

“Mia moglie, senza nulla togliere alle altre, è diversa.”

“Sì, certo!” sghignazzò Mazzacanagghia. “Quella cosa ce l’ha a mandorla, come gli occhi dei cinesi!”

“Mi colma di attenzioni…” buttò lì Pasquale.

“Una curiosità, così, tanto per saperci capire…” incalzò Mazzacanagghia. “Ci fai spesso… Mi spiego?”

Pasquale abbassò gli occhi. Pudibondo, come certe signorine dell’Ottocento, con l’ombrellino e la crinoline sotto la veste.

“Certo!” ammise.

“E allora!” sancì Mazzacanagghia. “Vediamola così… e tutto quadra, tutto si spiega, tutto si capisce!”

No che non si spiegava nulla!

Pasquale si chiuse in un mutismo che, maliziosamente, Mazzacanagghia lasciò lavorare. Il dubbio cominciò a cucinargli la testa e dopo un bel po’, con l’occhio fisso ai manifesti pubblicitari appiccicati sui muri di Catania, si azzardò a dar fiato al suo tormento.

“Credi che Agata non mi amerebbe, il giorno in cui…” chiese.

“E tu prova!” suggerì sornione Mazzacanagghia.

“Va là! Tu scherzi sempre!” volle cambiar discorso Pasquale.

Il pensiero, però, è un diavoletto che, se ti entra in testa, non lo scacci più. Ti avvelena ogni delizia, ti rivolta sgarbatamente la frittata nei momenti di abbandono. Perciò, anche dietro le attenzioni innoccenti (chessò, il caffè a letto, la poltrona più comoda davanti al televisore…) finisci per vederci il buco che diventa una voragine… che tutto inghiotte… in cui tutto ti perdi.

Giorni e giorni, Pasquale si dimenò nella ragnatela del pensiero. Cercò la moglie con più frequenza, per la teoria del chiodo schiaccia chiodo. Tornò spesso a casa, ora con una guantiera di cannoli di ricotta e di cassatelline, ora con un mazzo di rose, ora con un ninnolo di vetro di Murano. Venne la domenica e la portò fuori, dilapidando buona parte del salario in benzina e ristoranti… Insomma, quasi quasi si comportava come i mariti che hanno da farsi perdonare una marachella extra-coniugale!

Purtroppo, poi, alzatasi la polvere della buona volontà, si ritrovava davanti il suo cattivo pensiero… Intatto, indistruttibile, inamovibile, inagirabile!

Fu questo il motivo per cui si decise.

Una sera tornò dal lavoro con un’espressione tragica in viso.

“Oh, Dio mio, che hai?” chiese Agata, appena lo vide.

“Gli acidi!” rispose Pasquale.

“Gli acidi?”

“Quelli della fabbrica… Un’imporovvisa fuoruscita e…”

“Oh, Gesù! E…”

Pasquale tacque e si guardò sconsolatamente nel punto in cui sta la differenza. I suoi occhi divennero eloquentissima testimonianza del rimpianto per un bene ormai perduto.

“Oh, Madre Santa!” singhiozzò Agata, con la testa fra le mani.

“Ma non muore il nostro amore… Non è vero, tesoro?” guaì Pasquale.

“No, no… No!” sospirò Agata.

“Eppoi…” disse Pasquale fervidamente. “Il sesso è soltanto una parte… infinitesimale… della bellezza… tutta spirituale… del nostro rapporto.”

“Certo, certo… appunto!” confermò Agata.

I giorni, che se ne impipano dei drammi umani, si accingevano a riprendere il loro passare. La prima sera Agata raddoppiò le sue premure verso il marito. Gli portò il brodo di pollo – in quella casa, era questa la medicina giusta in tutte le occasioni -. Glielo portò denso e bollente, come piaceva a lui. Inoltre, la mattina successiva si alzò mezz’ora prima e con un bacio gli servì il caffè e il pane tostato, imburrato e con sopra cannella e zucchero.

“Mangia, tesoro” gli disse Agata dolcemente. “Lavori tanto e devi tenerti in forze!”

Che cos’altro poteva mancare alla felicità?

Al ritorno serale dell’indomani, però, ritrovò la moglie sulla soglia di casa, con un sorrisettino dolce, che le errava sulle labbra.

“Al supermercato c’era confusione” cinguettò. “Non me la sono sentita di fare la fila… Ho comprato del salame nel negozio di fronte… Per questa sera, ti accontenti?”

“Ma certo, amore!” la rassicurò lui.

La sera dopo, però, gli fu servito di nuovo pane e salame, questa volta senza scuse. Poi, nei successivi rientri a casa, tanto per cambiare, Agata, volta per volta, gli presentò: Carne in scatola; un piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino; insalata di arance e cipolla; pane con la mortadella; pane col prosciutto cotto; pane e basta (se voleva, però, poteva accompagnarlo con olio, sale e pepe nero)… Qui arrivato, Pasquale non ne poté più.

“Ma, ci vuol tanto a fare un po’ di brodo caldo?” sbraitò.

L’indomani trovò il brodo… Però, fatto col dado (e lui l’aveva sempre schifato).

“Non mi piace!” urlò.

“Ma, non volevi il brodo, ieri sera?” urlò Agata, a sua volta.

“Il brodo… Ma, non questo brodo!”

“Povera me! Tutto il giorno a tenere in ordine la casa che tu continui a disordinare! Non vedo un’amica da secoli! Mi sto trascurando da fare pietà! Mi sento di cinquant’anni più vecchia! Eppoi, eppoi, eppoi…”

Per non sentirla più, Pasquale si alzò e andò a letto senza cena.

Nella notte, però, decise di farla finita con la sceneggiata dell’impotenza. Purtroppo, Mazzacanagghia aveva ragione. Senza quella cosiddetta parte infinitesimale, la moglie s’era fatta una strega piena di rancori. Ma, soprattutto, a farlo decidere definitivamente, fu un lampo nel cervello, che con improvvisa brutalità, illuminò per intero la perfidia di Mazzacanagghia.

Quella mattina Agata aveva chiesto – così… senza parere… come per caso, o per mera curiosità… – notizie proprio su Mazzacanagghia.

“So che gli piace la parmigiana…” aggiunse. “magari domenica la faccio e gliene mandiamo un po’…”

Ecco perché, quella sera stessa, tornato dal lavoro, Pasquale teneva col braccio diritto davanti a sé, in bella evidenza, una boccettina di liquido verde.

“Che cos’è” chiese Agata.

“Succo di mandragola!”

“Succo di che?”

“Mandragola! Miracoloso, secondo la medicina omeopatica… per quel piccolo accidente che sai.”

“Funzionerà?”

“Deve funzionare, se no mi ammazzo!… Ma, non perdiamoci in chiacchiere! Bisogna versarlo nella vasca da bagno…”

“Corro a riempirla!” urlò Agata e già armeggiava con i rubinetti.

Naturalmente, Pasquale uscì dal bagno gridando miracolo! e, lasciando peste d’acqua in tutta la casa, corse dalla moglie.

Il digiuno c’era stato, la meraviglia di Agata era tanta e troppo bisognosa di conferme…

Così, fu necessario ripetere il concetto almeno sette volte.

Alla fine, accendendosi una sigaretta, Pasquale chiese:

“Che si mangia, stasera?”

“Un po’ di pazienza, caro” disse Agata, di nuovo mogliettina, vispa e gentile come un passerotto. “Ti preparo il brodo di pollo, come piace a te.”

La sorpresa fu che, quand’ella tornò con la tazza fumante, Pasquale, a rischio di una irrimediabile scottatura, vi immerse quella sua parte infinitesimale appena miracolata e sentenziò, rassegnato:

“Bevilo tu, il brodo… che a te, non a me, lo ha preparato!”

5

Catania, Pazzie dalle parti di via Crociferi

1

La sera in cui tutto cominciò una fitta pioggia era scesa di brutto. Sciupafemmine – come da sempre lo chiamavano tutti – vedeva l’acqua traboccare gonfia nei marciapiedi, con articolazioni inquiete. La vedeva riccioletta, leziosa e pigolante sotto i canaloni. A tratti, quando passava una macchina, la vedeva aprirsi in viscide e nere ali d’uccello. Il cielo nero, l’asfalto nero, i muri neri si mangiavano la luce dei lampioni, che, perciò, restavano lì, miseramente impiccati, come un monito sulla perdita del senso.

Aveva bevuto, di forza, sette od otto cognac in sette od otto bar diversi, da via dottor Consoli all’inizio di via Androne, da lì a piazza Stesocoro e, poi, fino ai Quattro Canti, per arrivare a Piazza Duomo, solennemente guardata dal Liotru. Dopo aveva salire per via Vittorio Emanuele, fino alla Chiesa all’angolo, davanti alla statua del cardinale Dusmet. Probabilmente, aveva esaurito i bar aperti più frequentati nella zona.

Erano locali deserti… neppure i soliti cogitabondi sui soldi e sulle donne. Il freddo – il freddo terribile del novantatrè, che dalle sue parti nessuno aveva sofferto prima – rendeva casalinghi.

E sarebbe andata meglio se, casalingo, lo fosse stato anche lui. Al più, avrebbe dovuto scegliere il pokerino a casa di Franco… Invece…

Invece, ero andato da Adele. Era lei, infatti, che in quel momento gli dava una pazza smania di fare a pugni, o d’aggomitolarsi a piangere sulle scale della chiesa, incurante della pioggia, protetto dalla pioggia!

Adele era l’amante di Ciccio Alain Delon, amico e compagno di bisbocce… e lui, anche se non l’aveva mai vista nuda, ne conosceva tutta la carne morbida. Ciccio, normalmente d’eloquio impreciso ed approssimativo, su certi argomenti acquisiva una rara capacità di messa a fuoco e gli aveva dato figurazioni straordinariamente vivide di Adele a letto, di fronte e di spalle.

Poiché in giro non c’era nessuno, quindi nell’impossibilità di fare a pugni, scelse le scale della chiesa… Chissà che qualche Santo non gli avesse voluto dare il consiglio giusto!

Sotto la cornice del portone centrale, al riparo dell’acqua, trovò un gatto.

“Uhm…” fece, incerto se parlargli o no.

Il gatto lo guardò: senza paura, soltanto attento e pronto all’eventual e lotta. Era uno strano animale. Si capiva chiaramente che non era randagio; anzi, sembrava di razza. Il pelo, di un nero luciferino, era lungo, ben pettinato, morbido e lucido. Era il pelo di chi ha l’abitudine di mangiar bene. Vi brillavano sopra le iridi verdi, con le pupille a punta di lancia.

Pensò – pensò, o disse? – che quel gatto assomigliava ad Adele. Non per gli occhi – Adele li aveva neri, un’autentica rarità coi capelli rossi – e neppure, ovviamente, per altri particolari fisici… Gli pareva che quel gatto, di Adele, avesse la disposizione interiore, la sensualità quieta e perentoria… C’era pesantezza ed agilità, in quelle forme.

Si sedette vicino al gatto, spingendolo col sedere.

“Fatti più in là!” gli disse.

La pioggia cadeva a lenzuolo. Un lampo illuminò il cielo, non molto lontano, dato che il tuono s’udì subito dopo. Il gatto si leccò una zampa, la passò sul muso, la posò di nuovo e tornò a guardarlo tranquillamente.

Sciupafemmine era fradicio d’acqua e sudava. Era prossimo alla liquefazione e aveva voglia di disperdersi negli uadi che gli correvano intorno.

Accarezzò il gatto. Sentì il tepore pieno delle sue forme. Si specchiò nel suo sguardo pacifico, o comprensivo, o indifferente, o… Che penserà mai un gatto, guardando un uomo?

Negli ultimi giorni Sciupafemmine e Adele spesso erano stati insieme. Egli aveva persino avuto la pazienza di farle compagnia nei negozi della Rinascente. Adele provava centinaia di scarpe, di tailleurs, di gonne, di cardigans, di golfini, di felpe e lui si procurava piaceri colpevoli. Verificava, per esempio, la qualità di una stoffa e le toccava le spalle, o un braccio… una piega deturpava la gonna ed egli le accarezzava i fianchi… Un paio di occhiali nuovi erano l’occasione giusta per prenderle i capelli e per aggiustarglieli attorno alla montatura… Finché, proprio quel giorno, si era impadronito del polpaccio della donna, alzandole la gamba per ammirare l’effetto di una calza.

Così, a mezzogiorno – per la prima volta – era andato a trovarla a casa. Nulla di particolare: ella lo aveva invitato a pranzo, poiché era sola e le bisognava un aiuto per i preparativi della sua festa di compleanno.

Al formaggio, in altre parole alla fine del pasto, dato che Adele era una fissata della cucina francese, Sciupafemmine aveva osservato:

“Troppo gorgonzola! Ora, chi ha voglia di lavorare?”

“Eh, no!” aveva ribattuto lei. “Senza cercare scuse!”

Subito dopo c’era stata la sorpresa e l’inizio dei guai.

Adele gli era andata accanto e gli aveva fiatato:

“Il formaggio è afrodisiaco…”

Il suo seno gli danzava vicino agli occhi ed aveva avuto una voce rauca, che andava dritta nel sangue. Avrebbe voluto dirle qualche bella frase, adeguata all’occasione… Ma, l’aveva soltanto afferrata, cercando con la lingua di disserrarle le labbra.

“Che fai?” aveva smozzicato Adele.

“Un secondo e lo vedi” aveva ribattuto lui, rovesciandola sul tavolo.

Adele aveva visto ben poco, purtroppo. Mentre ancora egli trafficava con i vestiti, a tradimento, senza alcun piacere, ogni baldanza gli si esauriva miseramente.

Ora, dentro di lui, desiderio e frustrazione tornavano ad infuriare, insieme alla pioggia che crosciava sulle balate del sagrato.

“Al diavolo…” disse a voce alta e si accese una sigaretta.

A quel punto, il gatto si alzò e si scostò di un paio di metri, andando sotto l’acqua. Poi, con un inaspettato e greve movimento del corpo, allargò le zampe posteriori, si piegò e fece i suoi bisogni.

Sciupafemmine si sorprese a spiarlo. Peggio! Fu catturato da un fascino lubrico ed allarmante. Era come guardare Adele seduta sul water. Ella, coi suoi fianchi larghi, col suo sedere sodo e polposo, probabilmente si muoveva così, quando…

Perciò, non appena il gatto tornò, lo prese in braccio. L’animale non gli oppose resistenza. Lo guardò di sotto…

Era una gatta.

Non lo capì subito, ma in quel preciso momento la sua pazzia per Adele era finita.

Ne cominciava un’altra.

2

Ebbe la coscienza dell’agghiacciante verità diversi giorni dopo, anche se il primo sintomo venne già all’indomani, quando il sole ritornò padrone del cielo, beato come un papa.

Appena sveglio, Sciupafemmine portò la gatta alla luce di una finestra per guardarla meglio. Sul manto erano sparsi alcuni peli bianchi… tanti filamenti di luce che gli diedero una stretta di tenerezza.

Allora andò in cucina e le preparò una ciotola di latte. Poi, se ne stette ad osservare incantato i percorsi della sua lingua sul latte, rapidi e voluttuosi. Credeva che fosse uno scherzare solitario. Nulla di malato… soltanto un fatto malinconico. Ma, molto meno innocente fu il ritrovarsi ancora a spiare la gatta mentre faceva i suoi bisogni.

Andò peggio quando l’animale si lasciò corteggiare da un gattone bianco. Provò un incoercibile fastidio, perse il senso del ridicolo e chiuse il felino nel bagno.

Per alcuni giorni ritornò (spesso) a casa, a sorpresa, come i mariti nei guai. Tanto interesse impotente gli dava spossamento e smania al contempo.

Un pomeriggio, finalmente Adele suonò alla porta.

“Ciao, seduttore” disse, entrando.

“Non pensavo di rivederti” seppe risponderle appena.

“Logico” disse lei. “Sei tu che mi hai violentata.”

Poi, andò a sedersi sulla poltrona in cui abitualmente ronfava la gatta, il che gli provocò una sorta di emozione.

Notò che s’era vestita con eleganza: giacca e pantaloni blu, mise che attutiva un po’ l’esuberanza dei fianchi e valorizzava le lunghe gambe.

“Sempre infoiato?” s’informò, aprendo la borsetta e tirandone fuori il pacchetto delle sigarette.

Ne prese una, accese, tirò una boccata e con chiara soddisfazione sbuffò il fumo verso il soffitto.

“Ho rotto col tuo amico” disse dopo un po’.

“E perché?”

“Gli ho raccontato ciò che hai combinato.”

Francamente, a Sciupafemmine non importava granché. Ma, non era carino, almeno per Ciccio, che era sempre un quasi fratello…

Così, le disse, tanto per dire:

“Debbo quindi aspettarmi di vedermelo spuntare in casa, a fare cavalleria rusticana?”

“Non credo. Mentre raccontavo, ho avuto l’impressione che fosse più infastidito del fatto che gli mandavo in vacca il pomeriggio… Si stava godendo la cassetta con la registrazione dei fuochi di Sant’Agata.”

“Ah!”

Sciupafemmine fece un ghigno sarcastico. Poi, prese una sigaretta dal pacchetto di Adele.

“Chi può dargli torto?” aggiunse, mentre accendeva. “L’anno scorso sono stati spettacolari!”

“Come no? Queste sono le cose che ti aggiustano la vita…” disse la donna. “Purtroppo, quella sera è venuto giù un vero e proprio diluvio…”

“Me lo ricordo. Pensavo a te, quando ci sono finito dentro.”

“Spero che almeno ti sia preso il raffreddore!”

“Non mi è successo nulla. Mi sono riparato sotto il portone di una chiesa: culo e camicia col Potere!”

Adele sorrise. Sciupafemmine, perciò, avrebbe dovuto sentirsi in salvo.

“Anche quella sera, come sempre, sono rimasta sola” disse.

“Spesso, quando piove ho voglia di fare all’amore. Ecco perché ho notato che l’amico tuo mi trascura…”

Bene. Stava per dirgli ciò che da tanto tempo Sciupafemmine sognava di sentirsi dire. Si sforzò di credersi in salvo. Infatti, Adele disse:

“Quando mi hai sbattuta sul tavolo, almeno c’è stato il brivido di sentirsi desiderata…”

“Già” commentò Sciupafemmine. “Peccato che non ho fatto molta figura.”

Se la ritrovò vicinissima. “Puoi rimediare…”

Ovviamente, Sciupafemmine accettò l’invito… Ma, mentre le dava quel bacio che gli era stato impossibile alcuni giorni prima, una forza malvagia dentro di lui lo portò a dire:

“Prima, potresti farmi un favore?”

“Quale?”

“Puoi sederti… sul water?”

“A far che?”

“Vorrei vederti muovere fianchi…”

“Cosa?!”

“Sì, come quando ci si libera lo stomaco…”

Naturalmente, Adele lo mollò all’istante e Sciupafemmine, per non uscire pazzo irreversibilmente, decise di uccidere la gatta, per cui la scaraventò giù dal balcone.

Inutilmente.

6

Militello in Val di Catania, Il delitto perfetto di piazza Municipio

Pippo Conte, detto Ercolino, stava per morire, disperato perché sapeva che di lui non sarebbe rimasta traccia. Non lasciava nessun ricordo vero, nessun momento della sua vita tale da superare i commenti di cordoglio più immediati – quelli, per intenderci, che si regalano nelle veglie funebri… per i minuti che bastano… tanto per essere ricambiati, quando verrà il nostro turno -.

Per colmo di sfortuna, moriva nel giorno di ferragosto, con la città spopolata. Molti erano andati al mare e quel giorno sarebbero stati proni sulla sabbia e non ai piedi di un deputato. Chi era rimasto non trovava neppure un filo d’ombra, fuori di casa, per scambiare due chiacchiere.

Eppure, Ercolino era stato un uomo d’immaginazione, che, a voler mettere per iscritto i progetti della sua vita, c’era quanto bastava se non altro per la celebrità locale. Purtroppo, però, il tragico destino degli assassini è che debbono tenere nascosti i loro capolavori. Nel caso di Ercolino, poi…

Ma, raccontiamo con ordine.

La prima idea d’uccidere sua zia, vecchia e zitella, gli venne sul finire del settembre precedente, di notte, quando s’era messo in testa di scrivere un romanzo poliziesco, per far soldi, ovviamente. Ecco perché si era messo a gareggiare in ingegnosità omicide con Arthur Conan Doyle, Freeman Wills Crofts, Agatha Christie, John Dickson Carr, Edgar Wallace, Thomas B. Dewey, Peter Cheyney, Rex Stout, Erle Stanley Gardner, Ellery Queen…

Queste cose, poi, le discuteva passeggiando con Enrichetto, detto Sciusciapinseri, anche lui diventato un appassionato di letteratura gialla.

“Ti pare possibile il delitto perfetto?” chiese a Sciuscia pinseri, proprio al centro dello spiazzale davanti al cimitero.

Ercolino si era messo a pie’ fermo, di botto. Pareva che fosse passato l’angelo e l’avesse bloccato lì, con le gambe diventate due querce sulle mattonelle di pece.

“Eh?… off!” fece l’amico, sbilanciato in avanti, ma subito agganciato per il braccio e riportato in linea.

“Certo ch’è possibile!” rispose Ercolino alla sua stessa domanda.

Dopo di che, stette in silenzio per cinque, interminabili secondi.

“Il vero problema sarà la giusta cura dei particolari… Prevedere ed eliminare tutti i possibili indizi che uno può lasciarsi dietro non è mica facile! L’assassino che perde è come un pittore che si concentra sul grosso di un quadro. Finirà per avere una visione incompleta…Invece, non bisogna trascurare il punto di vista ravvicinato. Il delitto d’autore è perfetto negli elementi più piccoli.”

“Hai scoperto l’acqua calda!” obiettò Sciusciapinseri, in un sussulto di scetticismo contadino. “Questo è ciò che si dice in tutti i gialli, anche nei più scadenti… anche nella serie televisiva del tenente Colombo… quella specie di frustrato che trova sempre il modo di provare che l’assassino è uno che nella vita ha successo!”

“Si potrebbe simulare una disgrazia…” continuò Ercolino.

“Già fatto” disse Sciusciapinseri, “Crofts: L’incendio nella brughiera.”

“Bisogna che ci rifletta una notte” concluse Ercolino. “Domani ti dirò la mia ipotesi di delitto perfetto.”

L’indomani, però, Sciusciapinseri fu preso da un’altra passione, quella per la fotografia. Comprò il manuale mondadoriano di Alexander Spoerl, le riviste “Fotografare”, “Clic fotografiamo”, “Progresso fotografico” e “Fotopratica” e non parlò d’altro. Nella serata, addirittura, sembrò pazzo di gioia perché gli regalarono How to make a good picture, edito… pensate un po’!… dalla Estman Kodak Company, Rochester, New York.

Ma, Ercolino non potevo permettersi la stessa volubilità. Sua zia aveva troppi soldi e quattro ettari d’agrumeto con sedici ore d’acqua settimanali nel vicino pozzo. Ad ottobre-novembre col clementine, a dicembre col tarocco, in primavera col calabrese, i commercianti le portavano i milioni fino a casa. L’uccisione della parente, quindi, non poteva essere presa soltanto come una chiacchierata teorica. Realizzandola, avrebbe potuto vivere di rendita, la sigaretta in bocca e il pieno di benzina nell’alfa romeo. La sua giornata l’avrebbe spartita equamente tra le donne e i discorsi incendiari nella sala da barba di Antonio Bubù, un rivoluzionario che falcidiava capelli come se fossero grassi borghesi, sotto lo sguardo malinconico e romantico di un poster di Che Guevara – dove, però, non mancavano sfumature di perplessità, quando Bubù tifava per il milan supermiliardario di Berlusconi -.

Eppoi, lui quella vecchia non la reggeva proprio. Pensò diverse soluzioni, tutte insoddisfacenti. Poteva simulare un incendio dovuto ad un corto circuito. C’era, però, il problema che d’elettricità non ne capiva niente. Di veleni, conosceva soltanto quelli usati nei gialli, inutilizzabili perché anche i poliziotti possono leggerli, almeno in via d’ipotesi. Per un attimo gli venne in mente d’assoldare un killer. Ma, era una soluzione troppo banale e soprattutto non aveva soldi. Anzi, uccideva proprio per mancanza di soldi.

Finalmente, si concentrò sul fatto che sua zia ogni mattina, quando passava il lattaio, usava scendere le ripide scale della sua casa-candela. In quella benedetta città molte abitazioni vanno su filiformi, un piano sopra l’altro, frutto di un abusivismo straccione che ha distrutto la vecchia tipologia architettonica rurale. Concluse, perciò, che bastava far cadere sua zia dalle scale. Magari, se non moriva subito, bisognava finirla con una mazza.

La novità che aveva escogitato era il modo in cui farla cadere. In cima alle scale avrebbe fissato una lenza, invisibile nella semioscurità. Si lambiccò il cervello per giorni, cercando il modo di sistemare bene la sua trappola. Notò che la ringhiera della scala era arrugginita e, quindi, poteva restarvi la traccia della lenza. C’era, poi, un altro problema: come fissare l’altro capo del filo nel muro, senza piantare un chiodo?

Non fece altro che pensare, ben oltre il suo normale costume di vita. Ipotizzò soluzioni pure in bagno, pure quando stava in piazza Municipio, alla fermata degli autobus, ad occhieggiare i sederi femminili che salivano sui mezzi. Lui e Sciusciapinseri erano sempre stati dei patiti degli amori oftalmici!

Infatti, prese la giusta decisione nel corso di una carrellata panoramica sulla cupola tremolante del retro di una maestra cinquantenne. Doveva riverniciare la ringhiera per eliminare la ruggine. Poi, bastava aspet tare che il colore si fosse ben asciugato e indurito e si poteva star sicuri che la lenza non lo avrebbe rigato. Certo, c’era l’inconveniente che un delitto nato dalla voglia di non lavorare cominciava proprio con un lavoro, per di più odioso. Ormai, però, la faccenda era diventata un puntiglio intellettuale, che valeva bene un sacrificio. Per l’appiglio a cui legare l’altro capo della lenza, si poteva piantare un chiodino nell’angolo tra il muro e lo spessore dell’alto battiscopa. Era meglio usare un sottile chiodo d’acciaio. Con un minimo di pazienza, dopo, sarebbe stato facile cancellarne ogni traccia.

Offrì alla zia, gratis, il suo lavoro di imbianchino. Così, aveva modo di stare in casa sua senza destare sospetti. Tirchia, anzi scroccona, com’era, la vecchia ne approfittò subito.

“Da’ pure una sistemata al portone” gli disse. “In fondo lavori per te… Quando morirò, il mio sarà tuo.”

“Appunto!” confermò col sorriso del cattivo nei film.

Non volle sciupare il piano con un’inutile premura. Era preferibile che, ciò che doveva accadere, accadesse verso la fine del lavoro.

Purtroppo, scartavetrare e pitturare gli risultò troppo pesante. Non c’era tagliato. C’erano come dei grumi d’impazienza che gli partivano dallo stomaco e lo facevano torcere tutto. Allora, gli veniva voglia di rompere il pennello e di prendere a calci secchi e barattoli di colore. Accendeva una sigaretta per calmarsi ed era peggio, perché in aggiunta spuntava il mal di testa. Era ovvio che in tali condizioni il lavoro procedesse con esasperante lentezza, tra gli improperi continui della zia-arpia.

“Sei sempre tu!” ella diceva. “Ti fai avanti e non concludi niente!”

Egli rispondeva con un sorriso imbarazzato e la pensava già morta.

Finché, dopo sei mesi di macerante lavoro, avvenne l’irreparabile disgrazia. In una primaverile, luminosa ed indifferente mattina sua zia morì, improvvisamente e senza alcun merito suo.

Accadde il primo aprile, per l’esattezza… quasi che il destino cinico e baro avesse voluto giocargli il suo pesce d’aprile. Infatti, mentre la zia scendeva le scale, per aprire al lattaio… e cadde come corpo morto cade,- avrebbe detto Dante -. Purtroppo, per un fulminante ictus cerebrale!

Così, il suo piano tanto ben architettato non vide mai la luce e, perciò, non ci sarebbe stato nessuno che avesse potuto sospettare la perfezione con la quale stava per realizzare il suo delitto perfetto. Il peggio fu che, venuto a mancare il suo capolavoro, un mese dopo, uno stronzo di medico gli disse che sarebbe mancato anche lui. Mentre il sole di maggio se la rideva come non mai, tanto per fargli dispetto, gli diagnosticarono il cancro.

In lui c’era la stoffa del granduomo e ora… ora nessuno avrebbe mai saputo nulla del suo capolavoro!

7

Marina di Cottone, Condominio borghese, poker e terremoto

Da troppi giorni una smania inoperosa lo scuoteva continuamente. Era come l’intossicazione da caffè: partiva dalla schiena e gli faceva tremare le gambe e le mani. Poi, ci fu il terremoto che per una notte scosse la città dal secolare torpore.

Durò quarantacinque secondi in tutto. Ma, parve il lampo in cui, come dice Montale, vedi le cose in una eternità d’istante. E’ probabile, comunque, che nelle future cronache leggeremo molto sulle stelle di quella notte. Potevi contarle ad una ad una, tanto erano nette e vicine!

“La Madonna, o chi per lei, ha voluto regolare i conti con noi” gli disse Salvo, il giorno dopo.

“E perché mai?” si domandò lui. “Perché la Madonna dovrebbe prendersi la briga di punire quattro mentecatti come noi?”

Ora sospettava che, se non un disegno, in quel terremoto ci fu almeno, un ghirigori divino. Tutto doveva avere un senso. Altrimenti, perché il dies irae gli rovinò addosso mentre giocava a poker?

Anzi, di più: perché proprio mentre era concentrato su un tris d’assi, che, dopo una serata in nera perdita, gli schiudeva speranze di recupero?

Era il primo a parlare.

“Passo” egli disse, maledicendosi mentalmente per non aver fatto il buio. Non potendo rilanciare, per alzare la posta, doveva far aprire qualcun altro.

“Passo” disse pure Salvo.

Ecco, ora c’era il rischio che non aprisse nessuno. Ma, per fortuna, parlò Franco:

“Apro… diecimila!”

E subito dopo Carlo:

“Doppio!”

Prometteva di essere una gran bella mano.

“Come si dice, piatto ricco, mi ci ficco… triplo!” esclamò lui.

“Lascio” sospirò Salvo.

Furono ridistribuite le carte.

Franco ne chiamò una, Carlo si diede servito e lui, ovviamente, ne chiese due.

In quel momento avvenne lo schianto. Non molto lontano, nei bui inquieti della terra, doveva essere successo il finimondo. Dicono che, sotto l’urto della massa africana, un giorno o l’altro, la Sicilia si spezzerà come una canna secca. Si udì un fragore di schegge, che corse nella roccia con la velocità con cui corre nell’aria. Era un rumore cupo, un ringhiare di gola, dei tocchi impazienti e poderosi. Venne dalle pareti, come se ci fosse dentro un pesce che strattonava il campanellino d’una canna da pesca.

Tutti rimasero sospesi, cercando di mettere a fuoco ciò che stava accadendo. Avevano ancora le carte in mano, ma gli occhi andarono al lampadario. Ne videro le scaglie vitree agitarsi con riflessi di luce azzurrata.

Poi, un sopramobile, una bruttissima copia in gesso del Discobolo di Mirone, si abbatté sul ripiano del buffet e subito mancò la luce.

“Il terremoto!” urlò Salvo.

Nel buio egli lo sentì alzarsi, rovesciando la sedia. Probabilmente, voleva correre verso l’uscita. Ma, il tavolo gli impediva la strada e la terra gli oscillava sotto i piedi. Perse l’equilibrio e cadde di fianco, abbrancando il panno verde (e squarciandolo, dato che anche Franco e Carlo vi si erano aggrappati come ad uno scoglio).

“Il terremoto!” fece eco Franco.

“State fermi!” disse lui. “Ne ammazza più il panico che il terremoto… mettiamoci sotto il tavolo.”

“Oh, Madonna bella! Oh, Maria misericordiosa! E quando finisce?” guaiva Salvo, in ginocchio, piegato in due e con le mani sopra la testa.

Allora egli, che già s’era messo sotto il tavolo, lo tirò giù, verso di lui.

Il sisma continuava a scuotere la casa. Anzi, si ebbe l’impressione di un crescendo. I bicchieri coi quali pochi minuti prima si sorseggiava il cognac suonavano sinistramente. Sentì la bottiglia rotolare lungo il tavolo, finché non si frantumò vicino alla sua faccia.

Dopodiché si diffuse un vivo odore di liquore ed avvertì il calore del sangue lungo la guancia.

“Madunnuzza mia! Oh, Santa Madunnuzza!” ripeteva Salvo, sottovoce.

Nel frattempo si udirono gli scalpiccii di Franco e di Carlo. Tentavano di scappare e sbattevano lungo la parete, cercando la porta.

“Quei due si fotteranno l’un l’altro!” pensò.

Poi, sorrise nel buio, come abrebbe sorriso Tyrone Power, quando recitava la parte di Zorro. “Invece io… Anch’io farò la fine del sorcio.”

E, a quanto pareva, la fine del sorcio era la sua personale escatologia.

Per fortuna, venne il momento in cui la Terra smise di tremare e tornò la luce. Allora, non sapeva esattamente da quando, si ritrovò solo nella stanza.

Vide qualche crepa lungo le pareti divisorie, ma i pilastri si presentavano intatti.

“Deve essere stato una signorina di terremoto…” commentò ad alta voce.

Sul tavolo, ancora coperte, c’erano le carte della seconda manche. Gli venne la curiosità di sapere come sarebbe andata a finire.

“Accidenti!” esclamò, guardandole.

La seconda delle carte che aveva chiamato era l’asso di picche. Avrebbe fatto poker d’assi. Franco aveva una scala bilaterale a fiori, ma gli era entrata la regina di picche.

La vera sorpresa la riservava Carlo, quello che s’era dato servito: scala reale media a cuori.

Come si dice, gli avrebbe tolto pure le mutande.

8

Crtemilia (Langhe cuneesi), Ah, le donne!

La nebbia delle Langhe sconsigliava il viaggio, quella notte. Perciò (forse) l’uomo ingranò la marcia e partì.

Il brutto – anzi, il bello! – venne subito. Già dal cuore di Alba, da piazza Savona, non bastarono più gli occhi per tenere la strada. Ci si aiutava coi ricordi e con le deduzioni. I chiarori dei lampioni spuntavano per un attimo da profondità luciferine solo quando ci passava sotto. Ai lati, le facciate delle case mancavano del tutto. Però, vide l’insegna della Standa e fu un peccato, perché il bello del bello era che la città doveva sparire con lui.

Si consolò all’idea che c’erano ancora due catene montuose da superare, nel silenzio e nel buio, sopra un asfalto viscido e con tante curve a gomito chiuse tra noccioleti e burroni.

In quel momento capì che i fantasmi esistono. Prima se ne stavano nascosti dentro di lui e ora avevano vaghi corpi di fumo. Parlavano e pretendevano risposte. Pure Irma gli ballava davanti al parabrezza.

“Fottuta vita!” concluse a voce alta, mentre lasciava l’abitato.

Procedette così fino a Borgomanera, quando cominciarono i tornanti. Salendo, il freddo e la nebbia diventarono qualcosa di solido e formarono un tutt’uno con la neve vecchia di un mese. La striscia tratteggiata sulla strada era di poco aiuto. Oltre qualche metro non la vedeva più.

Accese il riscaldamento per istinto di conservazione. Arrivò a Borgomale e cominciò la discesa. Cosa ottima: preferiva concentrarsi sulle difficoltà della guida e non pensare alle altre difficoltà. Quindi: seconda, terza e… attento a non toccare i freni!

“Si fa sempre in tempo a morire” disse, come per consolare il cruscotto.

Almeno finivano i dubbi. Irma poteva essere… non sapeva bene cosa… forse la libertà, forse la rivincita… In ogni caso, era una donna attraente. Ma era pure la moglie di Roberto.

Un chilometro dopo dovette ammettere che morire non è cosa facile. Infatti, si fermò, quando improvvisamente, per un recente rifacimento del manto stradale, scomparve il riferimento del tratteggio bianco.

Giunse le mani, come in preghiera, e vi appoggiò la testa. Sentì su di esse il profumo di Irma e si ricordò che lei lo aveva comprato a Grasse, in estate.

Fino a pochi mesi prima, erano due coppie normali… lui e Luisa, Roberto ed Irma. A Grasse colse di mattina il primo sorriso provocante di Irma. La Costa Azzurra e Nizza sono posti buoni per sfasciare i matrimoni. Lì aleggiano ancora i sospiri di Eluard, di Gala… e l’ombra ingombrante di Dalì.

A Nizza Roberto guardava la promenade des anglais, appollaiato davanti al tavolo di un bar, come un rapace che cerca una lontana preda. Un mese prima la Mondadori gli aveva pubblicato Un viaggio d’inferno, il suo primo romanzo.

“La forma è tutto!” disse Roberto. “Ho scritto un libro che farà schiattare tutti i poveracci alla Bertolucci!”

Gonfiò le gote, come usava fare spesso. Nel suo aspetto c’era qualcosa del tacchino e qualcosa dell’aquila. Il corpo massiccio, soprattutto nei glutei, era goffo; ma, il naso adunco, gli occhi piccoli e mobili, sui quali convergevano all’ingiù le sopracciglia, davano l’idea d’un rapace attento.

Proprio in quell’istante Irma, di nascosto, gli posò una carezza devastante sulla schiena e poi gli fece sentire sul dorso della mano il seno grande e tiepido. Dai suoi capelli ramati tralucevano i cerchi d’oro degli orecchini. La pelle ammorbidita dalle creme comunicava la sensualità elaborata delle quarantenni.

Scese dall’auto per fumare una sigaretta. Magari avrebbe capito dove si trovava esattamente. La notte manteneva un assoluto silenzio. Non c’era un alito di vento. Una piuma sarebbe andata a terra in perfetto appiombo.

Spense i fari e, appoggiato al cofano, aspirò con voluttà. Doveva essere non lontano da Borgomale. Dopo, si sarebbe spinto giù nel fondovalle, per risalire di nuovo su, fino a Càstino. Qui sarebbe cominciata l’ultima discesa, fino agli stabilimenti della Miroglio e alla periferia di Cortemilia. Luisa voleva stabilirsi in uno dei nuovi condomini che vi hanno construito. Anzi, addirittura avrebbe preferito trasferirsi ad Alba. Luisa era una brava donna, ma sempre pronta a fargli pesare il contributo del suo stipendio di direttrice del locale ufficcio postale… Da mesi, perciò, dopo le furie amorose iniziali, gli incontri tra loro procedevano con preliminari piuttosto standard… Alla fine, l’unica novità fu che lei accettò di sborsare i soldi per ristrutturare la casa in cui era nata, nel quartiere storico di San Pantaleo…

Novità fino a un certo punto!

Almeno nell’anima degli abitanti, Cortemilia assomigliava al suo paese, perché c’era una vecchia ruggine tra quelli di San Pantaleo e quelli di San Michele. Pure lì, pure dove si era fatta l’Italia unita… infuriava la lotta di campanile… riva destra e riva sinistra del fiume Bòrmida! Le costruzioni migliori, infatti, erano per lo più ubicate in San Michele; San Pantaleo, invece, era ricco di negozi ed uffici.

Fortunatamente o sfortunatamente, però, ben presto erano venuti ben altri e ben migliori argomenti di quelli culturali, quando Roberto era andato a trovarlo a Cortemilia, per comprare del vino.

“Barbaresco… dolcetto d’Alba… troppo cari!… Prendiamo del buon barbera e non se ne parla più!…” disse Roberto, prima di andare a far compere con Luisa.

Rimasti soli, Irma gli si avvicinò.

“Che ci vuole a scioglierti?” chiese.

“Niente” rispose lui. “Chiedi e ti sarà dato!”

“Oh, basta là!” ella disse e lo baciò.

Ma, non persero la testa. Si abbracciarono a lungo; ma, quando Roberto e Luisa tornarono, si erano ricomposti, rimandando a una situazione più comoda la conclusione.

Parlò con Irma soltanto il giorno dopo e perché telefonò lei.

“Mercoledì Roberto non è in casa. Sta fuori fino a tardi, per una cena con i poeti del Canavese… Vieni alle sette!”

Lentamente, riprese la strada verso casa.

Dopo qualche decina di metri la striscia tratteggiata tornò a fargli da guida. A valle, la nebbia s’infittì ancor di più. Dovette procedere a passo d’uomo, con la prima.

Di colpo, vide due fari appannati che gli venivano incontro, altrettanto lentamente.

“Ecco un altro disperato” pensò.

Si incrociarono. Ma, preso dai suoi pensieri, dedicò all’altra auto l’attenzione appena bastante a scansarla.

Quella notte fuggiva da Irma. O meglio, fuggiva dalla vergogna di essere entrato nel suo letto e non aver combinato nulla.

“Tutto sommato, che torto mi ha fatto, Luisa?” si disse per consolarsi. Nudi, lui, e Irma, poterono al massimo giocare a fare Adamo ed Eva ai tempi della beata innocenza. Non ci furono mani o labbra capaci di provocare la giusta reazione.

“Tornatene dalla tua Luisa, poveretta!” fu l’epitaffio di quella bella scappatella.

Forse per questo, quando finalmente, non sapendo neppure come, arrivò a Cortemilia si sentì contento ed abbandonò i propositi suicidi.

Aprì la porta di casa fischiettando.

“Al diavolo!” si disse allegramente. “Voglio restare fuori dalle grinfie di quella pitonessa!”

Poi sorrise a Luisa, che gli sorrise.

“Ciao” le disse.

“Come stai, caro?”

“Così così… Ho avuto difficoltà per la nebbia. Ma, che vuoi farci?… Roberto mi ha portato a Bra, da un pittore amico suo.”

“Roberto?”

“Già, Roberto! Sono stato con lui.”

Cominciò a spogliarsi, giurando a se stesso che quella sarebbe stata la sua ultima bugia.

“E tu?” chiese a Luisa, per cambiar discorso. “Ci sei andata ad Aqui?”

“Da mia sorella, no?”

“Esattamente… Perché? Non dovevi andar là?”

“Certo, certo… caro!”

Indossò il pigiama, andò in bagno a lavarsi i denti e si mise sotto le coperte.

A quel punto, però, sentì che c’era qualcosa sotto il suo sedere. Allungò la mano e tirò fuori una tessera plastificata. Allibì. Era la carta d’identità di Roberto. Si ricordò la macchina incrociata per strada e rivide l’inconfondibile sagoma di una mercedes, proprio quella di Roberto.

“Luisa!” gridò allora e subito un tardivo lampo illuminò il viso incredibilmente rosso della donna.

9

Alba (Cuneo), di fronte alla stazione, Emigranti

Il confine tra l’isolato ed il superuomo è molto labile. Quando l’intero mondo diventa nemico, qualcuno può cominciare a pensarlo come uno strumento per la propria difesa, proprio quello stesso mondo.

Ne fece un’esemplare esperienza in Piemonte, nel suo primo anno di insegnamento. Lì, la prima conquista femminile ci fu perché a Marilena piaceva Pasquale.

Veniva dalla Puglia, Pasquale, ed aveva portato un olio fragrante e dorato, che solidificò al freddo immobile di Cortemilia. Poi, gli portò pure il danno della stufa a legna otturata, disperatamente inutilizzabile. Fra i tanti pregi, Pasquale aveva il difetto di piccarsi meccanico e, per migliorare il rendimento della stufa,l’aveva sfasciata definitivamente. Quindi, nelle due stanze più accessori che dividevano il freddo cominciò a latrare come un cane impazzito e le ossa faticavano a stare insieme.

Pasquale era sposato. Nato in un solido ceppo contadino, si era laureato l’anno prima a Urbino, relatore Carlo Bo (come non mancava di aggiungere).

A Cortemilia era arrivato verso novembre, quando la neve aveva già tolto i colori alle Langhe. La mattina, nove su dieci, un cielo che non dava ombre srotolava fiocchi grossi e duri, che venivano giù a piombo e si ispessivano sul terreno e sui tetti delle case. I passanti camminavano con la testa affossata tra le spalle, a irregolari saltelli, per evitare le pozzanghere.

In tutto questo c’era qualcosa che paradossalmente lo riportava alle sieste siciliane. Il gravare, o del caldo o del freddo, l’aveva sempre sentito come un anticipo del silenzio, quando (dice Jacopone da Todi) sé ionto a le prese che stai en terra attumulato.

Soltanto il fiume Bormida aveva scampoli di eleganza, per le bianche merlettature dei detersivi dentro le acque brune di acido fenico.

Fisicamente, Pasquale non era granché, ma dava sicurezza. Perciò gli andò bene con Marilena. D’altra parte, Nicla, sua moglie, era troppo lontana. Non era bella manco Marilena. Aveva i tratti negroidi, i capelli crespi ed il naso camuso. E parlava assai, come troppe donne indipendenti. Era ciò che La Rochefoucauld definiva un petit esprit qui a le don de beaucoup parler et de ne rien dire.

Pasquale amava giocherellare con le parole e nei momenti di ozio, per ridere, rifaceva l’appello delle alunne carine:

“Castelli, regina fra gli uccelli!… Diana e la minchia se ne acchiana! Dotta, ci la dassi na botta!”

Era un ridere nevrotico, alloppiante, che dentro lasciava come un’urgenza, il senso d’un irreparabile spreco. Odiava Pasquale, pur non riuscendo a fare a meno della sua compagnia.

Sul finire di dicembre, l’amico lo portò nella casa che Marilena aveva ad Alba, proprio di fronte alla stazione ferroviaria e, sullo sfondo, il ponte sul fiume Tanaro.

Smesso il nevicare, il freddo si era stabilizzato. Viaggiava sicuro come una rondine, con le ali ferme e salde nelle correnti d’aria. La campagna scintillava di riflessi azzurrati.

Egli se ne stava in terrazza, impavido. Da binari invisibili arrivò il fischio di un treno e gli piacque immaginarlo diretto al Sud. La partenza, forse… ecco la sua vera vocazione! Cercava il futuro vago e promettente, l’eterno inizio…

Volse lo sguardo alla sua sinistra, a Filomena accanto a lui.

“Proprio quel che si dice una massaia del Cilento, che chiede l’iniziativa al maschio!” pensò.

Le circondò le spalle col braccio e gli parve che lei trattenesse il respiro. Le prese il mento fra pollice e indice. Poi, sollevatole il viso, la baciò. Sentì la sua saliva. Fredda, insapore. Gli pareva di esplorarle la bocca, più che baciarla.

Andarono in una stanza. Intorno al pube, Filomena aveva ciuffi folti e scuri, che spiccavano sul ventre latteo, tremolante per una leggera pinguedine. Con la lingua esplorò quell’intrico che dava l’idea di una cozza immersa in un bagno di olio di vasellina. Lei accettava tutto… remissiva… con qualche gemito… tanto per gradire.

Quando tornarono in cucina, Filomena preparò il caffè. Adesso, in quella sua finzione di moglie, sembrava più a suo agio. Egli teneva appesa alle labbra una sigaretta. Gli piaceva ascoltarla.

Era figlia di un maresciallo ed aveva quattro fratelli sparsi per il Nord, tutti sposati e padri di famiglia. A scuola era brava, ma i voti migliori li prendeva in disegno ed in italiano. Gli era rimasta cara una professoressa marchigiana a cui ancora qualche volta scriveva.

Fuori, intanto, le forme delle case e delle colline divennero di morbida spugna. Tutto dava l’idea del silenzio. Persino le automobili che sulla strada lasciavano scie di sporco passavano come riflessi lontani.

Immaginò il treno di prima che correva nel buio. Sentì persino l’odore di chiuso degli scompartimenti. Vide le persone che dormivano e le luci delle stazioni che sciabolavano su di loro.

Pensò, quindi, al giorno dopo. Anzi, ai tanti giorni dopo che ci sarebbero stati, l’uno uguale all’altro, a seppellire inavvertitamente l’emozione che, per quella sera, lo fece sentire vivo.

10

Torino, La verità di Jean-Claude Bastille

A Torino, prima di partire, passò una serata straordinaria con Mariagrazia. Non aveva mai trovato belli i marmi della via Roma, ma quella sera sfavillavano.

Al Centro Culturale “Lorenzo Delleani” esponeva il belga Jean-Claude Bastille. Erano disegni ossessivi, figurazioni di fogli patinati, accartocciati, come recuperati dai bidoni dell’immondizia. Su ognuno di quei fogli c’era la fotografia di una donna, sempre la stessa, sofisticata e bellissima. Nel catalogo era riportata una poesia di Daniel Schmitt, datata aout 79, i cui versi piacquero molto a Mariagrazia:

Il la déforma longuement

Avec des caresses un peu monstrueuses

Pour provoquer ce plaisir-tourment

Ce plaisir tournant.

“Anche tu farai così, con me?” gli chiese lei.

In Sicilia, mentre il treno percorreva le coste sotto Taormina, il Piemonte si disciolse negli scrosci di un temporale. Il mare prese un bel grigio scortese e la sabbia divenne molle, come i cattivi pensieri in un giorno qualunque.

A Militello, poi, trovò la grandine. Tamburellava sui tetti delle macchine in sosta e, sotto i piedi, i cocci scricchiolavano come il vetro.

Nino venne a casa sua, senza preavviso, quando ormai pregustava il letto.

“Ciao” gli disse. “Vorrei parlarti. Facciamo una passeggiata.”

“Con questo freddo e questa pioggia?”

“Ti prego, è importante!”

Nella piazzetta di San Pietro, appoggiati alla balaustrata di cemento, contemplarono un paesaggio senza luna. Una pioggerella di nevischio pungeva la faccia.

“Sto morendo” gli disse Nino, d’un fiato.

Ebbe un sussulto.

“Cancro allo stomaco…” continuò Nino. “Due mesi fa… Mi hanno operato, ma lo capisco da come mi guardano che sto morendo.”

Scelse di star zitto.

Prese il pacchetto di sigarette e ne offrì all’amico.

Accendettero con qualche difficoltà, date le folate di vento. Non pioveva più, ma il vento era padrone dei vicoli.

“Non sei neppure il primo con cui mi sfogo. Sono disperato e ne parlo con tutti. Piango sempre. Se uno mi capita a tiro, non lo risparmio… Lo so che parlare non mi aiuta… e che quel tizio non può cambiare le cose. Lo vedo il terrore nei suoi occhi! So i pensieri che gli passano per la testa, gli scongiuri che fa… E so che vorrebbe fuggire e dimenticarmi!”

Tirò una lunga boccata di fumo. Improvvisamente, parve quasi rasserenarsi. Sorrise al buio davanti.

“Magari non è così grave…” disse lui.

Nino ebbe una risatina fessa.

“Lascia che vengano i dolori, quelli brutti… e poi me lo dici di nuovo!”

E così, eccolo il cancro anonimo e traditore! Ti insulta per la sua casualità, per l’indifferenza con cui colpisce.

Se i greci non erano più disposti a morire per la Patria, non senza ragione la domanda: Valeva la pena di vivere per quella patria?” pensò, citando Momsen nella sua monumentale Storia di Roma.

Puoi morire con la vita nel corpo e il mondo che ti ricorda; oppure, crescertela dentro, la morte, come se la porta dentro il porco mangiando… e mangiando mangiando… ingrassa, fino a diventare pronto per la mannaia del macellaio.

Nino, davanti a lui, tremante e brutto di paura, certamente era lo specchio veritiero di questa nostra strana mentalità contemporanea… quella che scherza e ride degli eroismi antichi.

Quindici giorni dopo, di nuovo in Piemonte, parlava con Mariagrazia. Erano al Palladium di Aqui Terme, mandando giù un lemon vodka dietro l’altro.

“In ogni caso” disse Mariagrazia, “io propendo per la soluzione degli eroi antichi e non per l’individualismo!”

“Così, non ci pubblicheranno niente” disse. “Diranno che è roba reazionaria!”

“Scriviamo… vedremo poi…” disse Mariagrazia.

Quando, un anno dopo, tornò a Militello per sposarsi – donne e buoi dei paesi tuoi! -, sentì il senso del fallimento globale. Si sposò, insomma, per implosione interna, come pare sia successo al comunismo dell’Est. In Mariagrazia finì per vedere la condizione perenne della sconfitta. Nella nostra epoca nessuno può pensare di restare nella memoria. La società non è più quella giusta e fuori dalla società ci sono soltanto le velleità dei pazzi. Forse, ne nascevano una volta, di persone che riuscivano a tirarsela dietro, la società. Ma, non essendo nessuno né pazzo né antico, egli scelse il matrimonio come si scegle un suicidio.

11

Capo Mulini (Catania), I momenti del poeta

Palpeggiava il cibo col palato, prima della penetrazione dei denti. I frutti di mare avevano l’odore dell’adolescenza, i funghi trifolati la pelle liscia e morbida, gli spaghetti la chioma guizzante ed i formaggi una forte ed inebriante trasudazione segreta. Gli piacevano, ancora, i peperoni arrostiti, robustosi, et prepotenti, et dolci. Gli rinnovavano il ricordo dei primi turbamenti, dei frammenti di pelle occhieggiati sotto le vesti severe delle lavandaie del suo paese. Mangiava volentieri gli involtini di carne, perché nascondevano delizie interne, che in qualche modo andavano attese, conquistate, svestite… E, per chiudere, a dire che tutto era stato gioco e perversione, andava bene il sapore lieve e gaio delle frutta, insieme alla dolcezza vischiosa e peccaminosa del gelato.

Perciò, la comparsa di Fina era quella di una moglie, più che di un’amante. Non per la firma al municipio, ovviamente. Fina era sua moglie nella quintessenza del loro rapporto. Finiti a letto, fra loro non ci furono grandi acrobazie. Ogni cosa accadde, con giusta metafora, a volo d’uccello. Un compitino svolto diligentemente, senza omettere alcun paragrafo. Mancava, però, il crescere dell’attesa. Per tre volte si esibirono e soltanto alla terza raggiunsero una parvenza di abbandono. Eppure, il loro, era amore, senza alcun dubbio. Lei lo dichiarava con tono di rimprovero. Lui, invece, aveva un sentimento criptico, sepolto in mille inconfessate vigliaccherie.

Dopo i primi incontri, credette di amarla come moglie perché non la pensò più come le precedenti femmes pour la nuit, dove i particolari che riemergono nella memoria sono frammenti di corpi, sensazioni, tecniche, contesti… o, più semplicemente, momenti della vita. Gli approcci furono i soliti. Lei lo accolse in vestaglia, il seno che chiamava sbarazzino dalla scollatura, e mise in funzione lo stereo: chitarra classica, con molto ritmo, arpeggi e rivoli di variazioni… Quasi un’indicazione su come procedere.

“Fermati, stasera” gli sussurrò.

Da quel momento, egli diventò irrimediabilmente marito, cioè lineare, leggibile interiormente. Il bacio rimase il loro contatto più sconquassante. Labbra contro labbra, giocando con le lingue… un accennare e un ritrarsi… un percorrere, in tutta la sua lunghezza, un solco metafora di un altro solco… un attardarsi sui denti, al pari di una pecora beata e senza coscienza!

Dopo, era subentrata la stanza. Piccola, con la tenue luce dell’abat-jour che le dava una smorta tonalità beige. Egli soffriva il caldo degli ambienti chiusi e mai sudò come in quella occasione. Pensava, tanto più, che si vedesse troppo la bianchiccia e gelatinosa rotondità del ventre.

Nei momenti in cui ci si riposava, Fina se ne stava nuda, seduta con la schiena contro il suo torace.

“Hai un forte odore” gli disse.

“E’ la traspirazione dei contadini.”

“Non mi riferivo alla traspirazione.”

Proprio questa presa di possesso dei suoi odori più segreti – sembrava interiorizzarli, dato che li aspirava con gli occhi chiusi – significò il vero matrimonio. Per la vita, nella grandezza e nella debolezza, nel piacere e nel dolore, egli era suo.

“Mi piace giocare” disse lui.

“Che vuol dire?”

“Che mi piacciono le donne.”

“E a me gli uomini…”

Finite le effusioni, lei gli cucinò un gran piatto di spaghetti col pomodoro, premurosa, cinguettante. Mentre raccoglievano il basilico in terrazza, lo abbracciò e dopo cena si sedette sulle sue ginocchia. Era una perfetta mogliettina, per allietare il riposo del guerriero.

Addò vado? Fora fa pure freddo!” cantava Franco Califano.

Ora poteva giurare di non saper più cosa fare. Due cavalli lanciati in direzioni opposte gli squartavano il cuore. Ad esser sincero, la donna gli faceva paura, perché sentiva che con lei finiva peggio che con la moglie.

In fondo, ella non gli regalava nessuna avventura nei mari del Sud, e neppure le malie della maga Circe, e manco il canto delle sirene, o la terribilità dei ciclopi, o i feaci e Nausicaa ingenua e innamorata… Tutto – tutto! – aveva, ormai, l’opacità dei ricordi di scuola. E, forse, Fina nasceva già come un ricordo. Doveva starle lontano. Doveva limitarsi a parlarne e scriverne. Doveva farla rimanere un fatto letterario… per poterla amare in eterno e crogiolarsela dentro, come la più importante delle occasioni perdute.

Appartenevano ad una generazione disperata, lui e lei! Essi, i creduloni, che portavano la fantasia al potere, fumavano lo spinello e predicavano l’amore libero… si accorgevano sempre di più di essere invecchiati dentro un mondo che… se cambiava… non cambiava come volevano loro e, soprattutto, non cambiava grazie a loro!

L’età e la storia – parola, questa, che non riusciva più a scrivere con la esse maiuscola – avevano comunicato che la ricreazione è finita – a dirla con De Gaulle -. La letteratura, come l’estremismo, è sempre una malattia infantile.

Fina pareva averlo aspettato, pur senza conoscerlo, conservando una castità molto più sostanziale di un imeneo intonso. Aveva mantenuto intatto il Sessantotto – un po’ aggrovigliato su se stesso, se volete, data la natura squisitamente maritale della sua proposta -.

La notte del loro primo bacio, a Capo Mulini, sotto Acireale, gli aveva detto:

“Cazzo! Dov’eri vent’anni fa?”

E questa fu l’ultima grande emozione della sua vita.

Ecco perché egli sapeva che non sarebbe più riuscito a fare a meno di lei.

Qualche sera dopo, telefonandole, aspettò a lungo… Dopo almeno sette squilli, sentì una strana nota nella sua voce.

“Prooonto…”

“Sono io.”

“Ah!”

“Disturbo?”

“Sì.”

E riattaccò.

Ebbe un brivido di freddo… Gli era sembrato di sentire una voce maschile che le sussurrava qualcosa… Ora, anche nella sua gelosia impotente, nel suo terrore di perderla, Fina ormai era sua moglie!

12

Ivrea (Torino), Come i fantasmi

Nei vent’anni in cui Rocco Champagne fu lontano da ***, in giro per il Piemonte a cercar lavoro, si portò dentro tutte le facce del paese e ogni tanto le tirava fuori ad una ad una, come le olive, per superare la malinconia di quelle giornate forestiere, che scappavano via senza sbalzi o novità. Anzi, senza dargli confidenza!

Quando si fermò a Ivrea, dalle parti di Cassinette, a fare buchi nel ferro delle macchine per scrivere Olivetti, lettera 32 sulla strada che porta a Cuorgnè, finalmente cominciò a fantasticare:

“Con che nomignolo mi chiameranno adesso, quei bastardi degli amici del bar New York, ora che mangio formaggio valdostano?… Rocco Bagna cauda? Rocco Neh? Rocco Champagne?… Chissà!”

Era questa la domanda invariabile che si faceva ogni mattina, tra le sei e le sei e mezza, sull’autobus che lo portava al lavoro.

Altrettanto invariabile era la risposta che si dava:

“Se il pecco me l’ha messo mio compare Mazzacanagghia, anti-iuventino com’è, la risposta è facile… Rocco Merde! A me, invece, piacerebbe Rocco Champagne!”

Andò così finché non conobbe Colette. Con lei, almeno, faceva all’amore di tanto in tanto, scordandosi del paese.

Quindi, se la sposò e pensò di fermarsi per sempre in una piccionaia in cima a un condominio che guardava il lungo-Dora.

Non durò molto. Colette era quella che era, una perbenista valdostana che buttava fango sui Napuli e su tutti i siciliani…

“Gente brutta!” diceva. “Gente malvagia! Mafiosi e sporchi!”

Così, i fichidindieti, gli aranceti, gli uliveti, la pasta coi finocchi, i cannoli di ricotta, gli arancini al ragù e l’intero dizionario di parolacce che, quotidianamente, più del Sole, gli scaldavano il sangue… Rocco se li nascose nel cuore, come reliquie dentro un santuario.

E nascose pure i volti degli amici del bar. Soltanto di Mazzacanagghia parlava qualche volta alla moglie, ignorandone l’aria disgustata… perché, degli amici, Mazzacanagghia era il più amico…

Tutto questo finché nacque Lia, cioè la bambina che gli diede Colette. ***, Mazzacanagghia e il bar, a quel punto, diventarono sfumature lontane, presenze impalpabili e impronunciabili… fantasmi sotto il grigio cielo eporediese, dove manco i temporali avevano passione… Checché ne dicesse il famoso Carnevale, con tutte le sue battaglie a colpi di arance!

Un brutto giorno, però, la piccola Lia andò a finire sotto le ruote di una macchina sulla strada che dalla stazione porta a piazza Camillo Olivetti. Così, egli se la riportò a casa, come fosse un gattino morto sul selciato.

Due mesi dopo morì pure il suo matrimonio. Colette andò via con un olandese – mezzo marinaio, mezzo delinquente… – e poi finì in una casa equivoca di Malta, ancor più giù della Sicilia!

Che doveva fare Rocco, a quel punto?

Vendette tutto e si mise in viaggio per tornare al paese.

Arrivato a *** con la valigia in mano, si emozionò guardando le pietre e le inferriate panciute dei balconi. Tutto era rimasto identico a come l’aveva lasciato.

Andò al bar New York e la prima persona che vide fu proprio Mazzacanagghia. Aveva gli stessi pantaloni e la stessa camicia di vent’anni prima.

“Mazzacanagghia!” gridò Rocco.

Mazzacanagghia lo guardò con un’espressione interrogativa.

“Mazzacanagghia, non mi riconosci?”

Con le mani gli strinse le braccia e prese a ridere, guardandolo negli occhi.

“Sono Rocco… Rocco… il francese!”

“Sssì… certo!” disse Mazzacanagghia, facendo vedere lo sforzo della memoria.

Poi, si grattò il naso ed aggiunse:

“Ma, che ci fai con la valigia appresso?… Devi partire?”

Avete capito, signori, perché Rocco Champagne due ore dopo si suicidò?

Non volle neppure andare a casa di suo fratello Carmelo. Andò direttamente nella campagna vicina al cimitero.

Ma, prima di saltar giù con la corda al collo, si rivolse a Dio:

“Spero che almeno tu, poi, ti accorga di me… se non altro per il cattivo odore!”

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