Garufi, S. P. Rocambole / Cicero Maior – Domenico Tanteri, partigiano di Raddusa (Catania, Sicilia) – Scaricabile gratis

Il partigiano di Raddusa

Una Memoria familiare

di Rocambole S. P. Garufi

“La vita è un film a lieto fine, basta restare onesti e non mollare mai” amava ripetere Paolo Farinetti, il “comandante Paolo” che, a capo della XXI brigata Matteotti “Fratelli Ambrogio”, combatté i nazifascisti sulle colline delle Langhe durante la Resistenza. E infatti, lui non ha mai mollato, né allora né dopo. Perché Paolo, quella scelta di battersi per la giustizia e per la libertà l’ha fatta una volta per tutte.

Nato da poverissimi contadini su quelle colline della Malora rese celebri da Beppe Fenoglio, il ventenne Paolo, colpito da una brutta peritonite, alla fine del 1943 si rifiutò di tornare sotto le armi e scelse di diventare un “ribelle” e di “salire in montagna”, dove l’iniziale avversione per la retorica guerrafondaia del fascismo maturò presto in una coscienza politica chiarissima: lui e i compagni che condivisero la sua scelta furono lì perché volevano un’Italia diversa, più libera e giusta…”

Fin qui il racconto della memorialistica ufficiale in un libro del figlio di Paolo Farinetti, il celebre Oscar.

Andando avanti nella lettura, però, mi aspetta la gradita sorpresa di ritrovare fra i compagni d’arme di Paolo il fratello di mia madre, lo zio Mimmo Tanteri, il partigiano di Raddusa, in provincia di Catania.

La sua storia mi fu narrata da lui stesso in una felice serata dell’estate 1970, passata nella Villa del Belvedere di Santa Maria di Licodia, a giocare coi pipistrelli che volteggiavano fra le luci dei lampioni.

In famiglia, purtroppo, si parlava di lui abbassando la voce, in apparenza con imbarazzo, in effetti con orgoglio. Sul suo fazzoletto di partigiano, infatti, c’era la scritta Basta con le donne, Arturo! ed era un’affermazione perlomeno ingrata, dato che alle donne egli doveva tutta la sua estrosa personalità – quasi un marchio di famiglia, dato che era il figlio di Eugenio Tanteri, U fimminaru, anzi Rocambole, come tutti lo conoscevano a Raddusa, paese che a stento sopravvive nelle pieghe più remote della provincia di Catania -.

Giovanni Garufi, il suo povero cognato, già una volta era dovuto andare a guardare sotto il letto di una donna sposata, per tirarlo fuori dai guai, quando lui aveva appena sedici anni, più o meno nei primi anni Trenta del secolo scorso.

Dopo un po’, Mimmo (come lo chiamavano tutti) mise incinta una ragazza e il solito uomo di rispetto lo obbligò al matrimonio riparatore, secondo i canoni della mafia.

Egli non si scoraggiò. Fece il suo dovere e all’uscita della chiesa riconsegnò la sposa al padre. Subito dopo se ne andò in giro per l’Italia, inseguendo gonne che facevano di tutto per farsi inseguire, incantate dai suoi occhi grigio-ferro, luminosi sulla notte mediterranea della pelle.

Insomma, Mimmo Tanteri era un uomo di mondo e, la sua, fu una vera e propria filosofia di vita, forse perché – come disse la figlia di sua sorella – assomigliava all’attore americano che in un serial di successo interpetrò Perry Mason. A lui, comunque, potevi chiedere tutto, tranne la serietà. Potevi chiedergli di renderti le giornate indimenticabili, grazie al suo modo di scherzare su se stesso e su tutti.

Potevi giocare con lui, magari danzando coi pipistrelli in una notte di mezza estate nella Villa del Belvedere di Santa Maria di Licodia, altro paesino sperduto alle falde dell’Etna, dove una delle sue sorelle, la signorina Marietta, era ostetrica condotta… Potevi sederti su una pietra e ascoltare il suo fischiettare mentre lavava la macchina…

“Non azzardarti ad aiutarmi” disse quel giorno al figlio dell’altra sorella, Barbara – anche lei ostetrica condotta, ma a Militello in Val di Catania -. “Se no tua madre, Sceccurossu, mi mangia vivo!”

Sceccorossu, infatti,era l’unica che, per carattere e personalità, riusciva a stargli dietro.

Potevi, persino, chiedergli di insegnarti qualcosa sulla storia…

“Tu sei stato un eroe partigiano!” gli dissi nel 1970, in pieno clima sessantottino.

“Mi sembrate tutti scemi, voi giovani intellettuali…” rispose tranquillamente. “Tornavo dalla Russia riportando a stento la pelle… che dovevo fare? Salii sulle montagne del cuneese, pensando che cacciando via i tedeschi, finiva la guerra…”

Potevi, soprattutto, chiedergli di tagliarti un vestito con magistrale perfezione. Pare che persino Vittorio De Sica fosse soddisfatto del suo lavoro, nonostante egli passasse la gran parte del tempo in intrecci amorosi e in giocate nel casinò di Saint Vincent…

Tutto potevi chiedergli, tranne la fedeltà coniugale.

Un’altra delle sue sorelle, Rosetta, si vide portar via il marito da una sua ex amante, che, abbandonata, andava a piangere sulle spalle del quasi cognato.

Nella ritirata della Russia, caduto quasi moribondo in mezzo a quella sterminata distesa di neve, fu Mamma Lucia, un’ennesima donna, a salvarlo, a nasconderlo, a nutrirlo, a coccolarlo, a restargli attaccata anche dopo la guerra e venirlo a trovare in Italia.

Il suo ultimo grande amore, finalmente, gli diede una bambina che adorava – mentre per un’intera vita aveva trascurato il figlio avuto con la moglie – e, come si dice, mise la testa a posto… per poco tempo, perché venne il cancro a portarselo via, a poco più di cinquant’anni.

Eppure, la morte aveva deciso di prenderselo già durante la guerra, ad Alba, in provincia di Cuneo, come ci racconta un suo compagno d’armi.

“Arturo (Domenico Tanteri) è stato catturato e domani lo fucilano…” questa fu la notizia che portarono al capitano partigiano, lo scrittore Beppe Fenoglio.

Nella notte Mimmo ricevette la visita del comandante tedesco.

“Io sono innamorato della sua Sicilia” gli disse il comandante. “Vorrei continuare in pace i miei studi di archeologia, forse vorrei essere suo amico, forse addirittura uno di voi…”

“Non ci capiremo mai coi tedeschi… e voi non sarete mai come noi” rispose Mimmo Tanteri.

“C’è della brava gente anche da noi… sa?” sorrise il comandante.

“Chi dice di no?… Ma, lei domani mi fucilerà.”

“Perché lei, al mio posto…”

“Al suo posto, l’avrei uccisa in combattimento, avendone la possibilità… Altrimenti…”

“Altrimenti?”

“Vede, io sono un sarto e non un ragioniere… noi sarti cuciamo i vestiti anche per i deformi… come tutti gli artisti, prendiamo la bruttezza e la cambiamo in bellezza… voi no… voi, stabilita a tavolino una verità, non fate altro che mettere in colonna dei numeri… Che ne sa lei di me? Sa che domani dovrà uccidermi e non ha altra curiosità nei miei riguardi!”

“Può darsi che sia così…” disse il comandante imbarazzato. “Ora debbo andare.”

“E’ così! Voi tedeschi siete ragionieri, noi italiani siamo sarti.”

Dopo di che, Mimmo Tanteri fece ciò che faceva spesso: voltò le spalle e se ne tornò nel suo mondo, indifferente agli argomenti di chi stava al comando.

L’indomani, mentre col plotone di esecuzione attraversava il ponte sul fiume Tanaro, Mimmo Tanteri approfittò di un attimo di evidente distrazione del comandante che gli camminava al fianco. Gli diede una spinta e si buttò in acqua.

Chissà perché, il comandante sbagliò clamorosamente la mira. Eppure, gli sparò con una mitragliatrice.

Alcuni giorni dopo i partigiani conquistarono Alba e questa volta fu Mimmo Tanteri a salvare la vita al comandante, impidendone la fucilazione.

“Per capire la Sicilia, legga i nostri scrittori…” gli disse, salutandolo. “Voi archeologi classificate troppo e con troppa minuzia… Gironzolate attorno alle tombe e mi sembrate dei becchini con la laurea!”

Una settimana prima di morire, in ospedale venne a visitarlo sua figlia.

“Com’è vestita?” chiese piano a sua sorella Barbara che gli sedeva al capezzale, dato che il cancro – ormai, in fase terminale – gli aveva mangiato la vista.

“Ha un vestitino blu” rispose Barbara.

“Come è bella la mia bambina!” esclamò lui. “Appena guarisco, usciremo insieme e tu ti vestirai come oggi.”

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