Rocambole Garufi, “La tradizione dell’anti-utopia inglese in 1984 di George Orwell”

IX

Utopia e antiutopia

di Rocambole Garufi

Con Animal Farm Orwell era pervenuto a risultati d’arte definitivi. L’opera resterà il suo capolavoro per la freschezza della rappresentazione, per la proprietà del linguaggio e per il distacco (che, evitando il tono concitato, favorisce la chiarezza) con cui sono tratteggiati i personaggi oggetto della sua satira. E, inoltre, non so quante altre opere moderne si potrebbe, come a questa, adattare l’antico detto: “Castigat ridendo mores”.

Con Nineteen Eighty-four, invece, lo stile di Orwell s’appesantisce e s’incupisce. Il Nostro sembra essere tornato al gusto per i paesaggi squallidi delle sue prime opere. In lui la visione del mondo e del futuro si è ormai fatta estremamente pessimista: per l’umanità non è prevista alcuna salvezza. Si direbbe quasi che egli leopardianamente sia passato dal pessimismo storico (l’incapacità, sottolineata in Animal Farm, dell’umanità di migliorare realmente le proprie condizioni di vita) al pessimismo cosmico (tutto nell’uomo, anche le sue parti più intime e segrete, può essere ridotto a niente dal potere).

Giustamente osserva Praz che ora nel mondo:

“l’incubo è ormai diventato il totalitarismo, e su questa via George Orwell (1902-1950), già autore di una gustosa satira della Russia sovietica in Animal Farm (1945), ha lasciato un romanzo utopico ben più impressionante della vaudevillesca favola di Huxley, Nineteen Eighty-four (1949), ove la condizione dell’uomo ridotto all’estremo dell’abiezione e della capitolazione della propria dignità è rappresentata sotto una luce così sinistra da far impallidire, nel campo del sensazionale se non in quello dell’arte, perfino la descrizione swiftiana degli Yahoos” 1.

Gli antecedenti di quest’opera, quindi, vanno cercati in Swift. Dei Gulliver’s travels Orwell fu attento lettore e critico. Senza dubbio, infatti, i suoi principali modelli, quando si accinse a decsrivere il mondo rarefatto del 1984, furono gli Houyhnhnms, come facilmente si evince leggendo questo passo:

“The houyhnhnms, creatures without a history, continue for generation after generation to live prudently, maintaining their population at exactly the same level, avoiding all passion, suffering from no deseases, meeting death indifferently, training up their young in the same process may continue indefinitely” 2.

Così, nella società che Orwell immagina che si affermerà nel 1984 l’incubo non è rappresentato, come in molte altre opere antiutopistiche, né da immani carneficine alla Hitler, né dai problemi alimentari di un mondo sovraffollato. Piuttosto la paura del futuro è dovuta alla piega esasperatamente razionalista che ha preso la civiltà del presente.

Infatti, è già stato notato che:

“anche i critici più severi nei confronti del valore letterario del romanzo sono disposti ad ammettere che Orwell è riuscito a rendere con molta efficacia lo squallore e l’oppressione di una vita interamente controllata da una organizzazione collettiva onnipresente”3

L’eccesso di razionalizzazione, avverte Orwell, volendo risolvere tutti i problemi umani, finirà per tradursi in tecnologia avanzata e onnipresente, dalla quale l’individuo, il singolo resterà schiacciato. Tutto, in questa società, deve avere una sua collocazione razionale. Tutto sarà incasellato ed inquadrato. Tutto deve restare immobile. La personalità di ogni uomo coinciderà con la sua immagine pubblica, con la funzione che ha nell’ambito della collettività. Il diverso, ciò che non può essere catalogato sarà eliminato. Il Peggior delitto sarà quello di avere una vita intima, pensieri propri, una propria fantasia.

Per questo terribile quadro del futuro che Orwell prospettò ai suoi contemporanei lo si è voluto collocare fra gli autori della cosiddetta antiutopia (come ha fatto, per esempio, il Daiches). A mio parere, però, una distinzione tra utopia e antiutopia non appare molto giustificata, soprattutto se si osserva che per Orwell la negatività del futuro nasce proprio dall’utopia razionalista (e ciò avrò modo di mostrarlo meglio, quando la mia analisi di 1984 scenderà più nel dettaglio).

L’antiutopia, così, non è altro che la presa di coscienza dei pericoli insiti nell’utopia. Infatti, la morte dell’individuo nasce già quando si pretende di creare a tavolino un “modello di vita felice” valido per sempre e per tutti. I tentativi utopistici hanno una storia antica. Le loro radici affondano nell’idealismo platonico.

In Inghilterra, particolarmente, c’è una ricchissima tradizione di opere utopistiche. Lo stesso nome del genere letterario è nato lì. Utopia, infatti, è il titolo di un’opera di Tommaso Moro, dove viene descritta un’isola ipotetica e impossibile (“U topos”, in greco antico, vuol dire: nessun luogo) sul filo di una poetica e platonica fantasia, come fecero l’italiano Tommaso Campanella nella Città del sole e H.G.Wells nell’Utopia moderna.

Una grande fioritura di opere fantastiche si è avuta nella 2° metà dell’Ottocento e nel nostro secolo. E in quest’ultimo periodo è nata l’altra faccia dell’utopia: l’antiutopia.

Con l’antiutopia il pessimismo prende il posto dell’ottimismo. Gli autori cominciano a guardare criticamente sia al presente che al futuro che da questo nascerà. Le opere non sono più la proposta di una società perfetta e razionale, ma diventano la denuncia, la critica dei presupposti sui quali la società tende a svilupparsi.

In Inghilterra, per esempio, ci fu Edward George Bulwer-Lytton (1803-1873). Egli oggi è noto quasi esclusivamente per il “best-seller” Gli ultimi giorni di Pompei, ma fu anche autore di un romanzo fantastico: The coming race 4. Esso nel novero della letteratura fantastica segna l’inizio di un filone particolarissimo, quello

dell’“antiutopia positiva”, dove viene prospettato un modello di società, di volta in volta o contemporaneamente, basata sull’aristocrazia, sulla gerarchia e sui valori morali e intellettuali, oscillando tra una visione agricolo-pastorale e una gerarchico-militare. Più che di immaginazione del futuro, come si vede, si tratta di proiezione nel futuro di un mitico passato. È una maniera di contestare l’evoluzione che la società lascia intravedere voltando la testa all’indietro.

Orwell (sebbene i legami tra i due autori non siano immediatamente visibili), profetizzando sulle future sventure, fa lo stesso discorso. Infatti, io credo che noi non siamo in grado di pensare quello che sarà, altrimenti che con quello che è già stato; e chi immagina che l’utopia è l’avvenire, spesso non si rende conto di decifrare il futuro con la chiave del passato.

Per questo, quando, più sopra, ho usato il verbo “profetizzare” non sono stata molto esatto nell’esprimere il mio pensiero. Io credo, infatti, che 1984 sia stato da molti frainteso. Molti lo hanno letto in chiave di profezia, mentre a me pare che esso vada studiato (come tutte le opere antiutopistiche coeve, compresa quella di Huxley) soprattutto per capire il contesto storico in cui è nato. Ciò lo ha scritto chiaramente lo stesso Orwell in una lettera a Francis A. Henson del 16/6/1949. Ecco le sue parole:

“Io non credo che il tipo di società che descrive debba necessariamente arrivare, ma sono convinto che qualcosa del genere potrebbe verificarsi” 5.

Ha, quindi, ragione Ferdinando Castelli, quando scrive:

“In realtà, Orwell non ha voluto fare profezie (anche se ciò lo ha lusingato); ha voluto mostrare dove potrebbero approdare talune concezioni e tendenze politiche e scientifiche, se non corrette e frenate. Più che di profezia, si tratta dunque, d’intuizioni e di premozioni” 6.

L’antiutopia, quindi, non è (o, almeno, non lo è stato per Orwell) un fantasticare sul futuro, ma una presa di coscienza critica del presente. In questo senso, come direbbe Lucàcks, in 1984 c’è il “rispecchiamento della realtà”, come in tutte le grandi opere.

1 Mario Praz, Storia della letteratura inglese, Firenze, Sansoni, 1965, pag. 706.

2 In David Daiches, A critical history of English literature, volume three ,London,Secker & Warburg, 1969, pag.618.Trad.: “Gli houyhnhnms, creature senza storia, continuano generazione dopo generazione a vivere prudentemente, mantenendo la popolazione sempre all’identico livello, sottraendosi a tutte le passioni, non soffrendo alcuna malattia, andando con indifferenza incontro alla morte, educando le nuove generazioni agli stessi principi; e tutto per che cosa? Affinchè lo stesso processo possa continuare indefinitivamente”.

3 “Il futuro è già cominciato”, Panorama, anno XXII, n. 925, del 9/1/1984, pag.89.

4 In italiano: Edward Bulwer-Lytton, La razza ventura, Carmagnola (TO), Edizioni Arktos, 1980, pag. 228.

5 Riportato in Stefano Manferlotti, Orwell, Firenze, Il Castoro, La Nuova Italia, Maggio 1979, pag.27.

6 Ferdinando Castelli S.I., “L’anno ‘1984’ visto da George Orwell (profezia, intuizione, parodia)”, in La civiltà cattolica, quindicinale, anno 135, n. 3205, del7/1/1984, pag. 24-25.

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