Rocambole Garufi, Ritratto del colonialismo inglese: il romanzo “Giorni di Birmania” di George Orwell

III

Ritratto del colonialismo inglese: il romanzo “Giorni di Birmania”

di Rocambole Garufi

Il lavoro che fu destinato da Orwell a raccogliere tutta la complessità delle sue esperienze in Birmania fu il romanzo Burmese days pubblicato nel 1934, ma scritto prima, anteriormente a Down and out in Paris and London che era stato pubblicato l’anno prima (come se lo stesso scrittore ci informa in Why I write).

In quest’opera appare per la prima volta la figura del tipico eroe orwelliano, velleitario e perdente nel tentativo di affermare la sua libertà individuale contro l’ostile ambiente sociale.

Il personaggio ha le sue radici nella stessa autobiografia di Orwell. Scrive infatti Manferlotti:

“L’autobiografismo trasforma il rapporto tra romanziere e scrittore-personaggio in un contrasto continuo, con effetti più evidenti, ma anche più stridenti nella trattazione del protagonista, Flory, nel quale Orwell vede se stesso. La figura di Flory è comunque d’importanza centrale nella produzione di Orwell perché è il primo esempio di eroe mutilato che si riprodurrà in tutti i romanzi, l’individuo che, inserito nel sistema, si ribella per essere schiacciato e nuovamente integrato” 1.

Il racconto è ambientato a Kyanktada in Birmania, e narra la storia di John Flory, un trentacinquenne mercante di legname ancora scapolo.

Intelligente e d’animo sensibile, Flory si rende conto che l’impero britannico si fonda su un ingiusto sfruttamento delle riserve naturali ed umane della Birmania.

Nel cap. III del libro, infatti, Orwell per bocca di Flory sciorina contro la sua patria una lunga serie di tremende accuse, la più ricorrente delle quali è quella di razzismo.

Ma Flory, come non ha difficoltà ad ammettere lui stesso, è un vigliacco, incapace di sfidare l’ambiente dei pukka-sahib che ogni sera si riuniscono nel circolo dei bianchi. La sua ribellione avviene solo ad un livello larvale, scoordinato, velleitario. Più che ribellione, anzi, essa è una avversione viscerale e senza sfogo.

Per questo egli vive in una continua macerazione interna simboleggiata dalla voglia bluastra e frastagliata che gli deturpa la faccia. Questa infati quasi scompare nei momenti di rilassamento emotivo per ricomparire viva in quelli di tensione.

Una serie di avvenimenti negativi gli danno coscienza della sua incapacità di cambiare l’odiato sistema. Elizabeth, la donna che ama, non lo capisce e si rivela una donnetta meschina e piena di pregiudizi e il malvagio U Po Kyin riesce nel suo disegno di rovinare il suo amico, il dottor Veraswami, anche grazie alla sua vigliaccheria che lo porta a firmare una petizione per la non ammissione del dottore al circolo dei bianchi.

La tragica conclusione di questo furoreggiare a vuoto sarà il suicidio del protagonista, suggello di un fallimento globale.

In questa prima opera di Orwell appaiono evidenti alcune incertezze (certi passi hanno l’aspetto di veri e propri saggi non perfettamente inseriti nella narrazione) ed alcune ingenuità (il suicidio del protagonista appare una soluzione troppo drastica), ma vi sono già alcune tematiche squisitamente orwelliane, come l’aspetto burattinesco e grottesco degli agenti del potere (si pensi alla psico-polizia di Nineteen Eighty-four).

Infatti:

“È vero che i ‘bianchi’ sono meno credibili degli ‘indigeni’, che Li Po Kyin risulta più a tutto tondo di un Macgregor e di un Westfield: ma questo ci permette anche di cogliere meglio quella caratteristica di burattini legnosi e scomposti che Orwell attribuisce ai ‘sahib’” 2.

1 Stefano Manferlotti, op.cit., p.21.

2 Mario Maffi, “Introduzione”, in George Orwell, Giorni in Birmania, Milano, Mondadori, 1983, Pg. 9.

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